L’epopea della famiglia Favelli. Una conversazione

Gli piace pensare a progetti che nascano dal suo immaginario personale. Gli dicono che è malinconico, ma lui ha bisogno di partire da lì: il rapporto con suo padre, con la madre. Se gli chiedi quale artista ha fatto parte della sua formazione ti dice mio padre che si sentiva un artista, “perché l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.” E poi c’è il nonno. È lui che collezionava i francobolli e quando Flavio era un nipotino, tutti facevano la collezione di francobolli. Se vendevi quelli giusti, erano molti soldi, era un grande investimento. Suo nonno ci restaurò il palazzo di famiglia, dopo che una bomba lo scavò in due parti senza esplodere, e adesso i francobolli invenduti li ha tutti Flavio anche se non gli piace collezionare. Serie Imperiale nasce proprio da qui, si tratta di francobolli emessi durante il Regno d’Italia in uso fino al 1946 con il volto di Vittorio Emanuele III e la scritta 50 cent. sopra. Su uno dei due lavori esposti in mostra, a sfregiare il ritratto campeggia la scritta Zara, quasi come una cancellatura. Queste sovrastampe sancivano il cambio di Stato di appartenenza del francobollo e in questo caso l’occupazione tedesca di Zara nel 1943. La gigantografia muraria in una stanza della Casa del Popolo di Bazzano ricorda proprio la storia di questo francobollo: l’esistenza di uno Stato Italiano, delle sue Poste e il presagio di una lenta mortificazione politica sancito da un timbro di occupazione. Più guardo questo lavoro e più penso al marchio di abbigliamento spagnolo Inditex, Zara sembra ora manifestare la sua supremazia usando la modalità di censura dei writers. Nei lavori di Flavio sono immancabili le associazioni di idee, i riferimenti storici e le connessioni contemporanee di una cultura delle immagini in perenne movimento; associazioni che generano spunti, si accendono in testa come i neon di diversi colori nella casa della madre di Flavio, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Una casa-museo-cimelio dove non ci vive più nessuno, non ci sono mobili né oggetti e le pareti sono quasi spoglie, ad eccezione anche qui delle gigantografie murali di Flavio, una per stanza. Non si tratta di francobolli, ma ricordi di carta trovati per casa, come la pubblicità dello spumantino “Top”, il codice fiscale della madre di Flavio e un suo biglietto aereo. E poi ancora la confezione di Tavor con il triangolino rosso anni ’90 e una banconota da un pound della Repubblica del Biafra. Lavori di questo tipo rivelano il potenziale di un’archiviazione visiva che nasce dal biografico per toccare le vite private di alcuni di noi, stabilendo un rapporto inaspettato tra il fruitore e l’immagine: la riproduzione ingrandita dei dettagli grafici smorza l’intimità di appartenenza del ricordo, sottolineando invece la testimonianza culturale che alcuni dettagli rivelano. Flavio ci porta a ragionare su simboli, su rappresentazioni, indaga la storia dei paesi a partire dal suo, prendendo in prestito dall’arte pop la sua sfacciata manifestazione iconica: l’immagine c’è, c’è, c’è, c’è ed è grande così. Ad eccezione dei golfi partenopei che rivestono le sale di alcune pizzerie, commissionare murales interni non è però oggi una pratica così usuale, soprattutto per un collezionista: se cambio casa, dove la metto? L’essere nomadi e precari, non poter più marchiare un luogo con la ricchezza di famiglia – ormai sperperata – è una lenta consapevolezza sociale e per l’arte di Flavio non è un problema: alimentata da contraddizioni e conflitti, la sua pratica non si interessa di salvaguardare i luoghi dei suoi interventi. Per lui è importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione. È per questo che in Serie Imperiale ha ingaggiato un restauratore ancora prima di iniziare il murales; a chiusura della mostra, lo strappo come operazione concettuale sancirà il passaggio dal muro alla tela, conservando sì il dipinto e il suo significato, ma anche quei calcinacci che verranno via insieme alla loro storia, la casa del Popolo o la Coop dismessa sono il luogo della politica e del mercato: due spazi che contraddistinguono la società occidentale, dove le persone – ora pubblico – rivestono un ruolo principale.

In una recente intervista pubblicata sul tuo sito affermi che “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra tu non abbia una buona considerazione del pubblico, sostieni anzi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”? 

Il pubblico è una convenzione: ci deve essere, ma è come se non ci sia. In tutte le foto delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai le persone; considero il pubblico come gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e ho imparato presto a conoscere quanto possa essere ignorante. Non ho una grande considerazione di loro. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status. Quando penso a un luogo lo penso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte credo sia lontana da queste cose.

Ma agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario. Dove e cosa è l’arte per te?

L’arte è preziosa, perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario. È il luogo della legittimazione dell’alterità, una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Quando i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata, presupponendo che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male.

Quindi che ruolo deve avere l’artista oggi?

Deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere di arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere, ma non c’è niente da fare. L’artista deve porre delle questioni complicate, deve essere la fonte principale per la sua opera ed è necessario che il suo punto di vista sia ancora importante. Nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti, dovrebbero essere gli unici a eseguire prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella nostra società che davanti alla tela, al pavimento o al muro pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing o di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti.

A Flavio il collezionismo non va giù. Vede il collezionista come un playboy con le donne, che vuole stare con tutte ma non sta con nessuna. Dice che menomale che i suoi lavori non hanno un prezzo di mercato così alto; si sentirebbe in difficoltà se una sua opera venisse venduta a cifre spropositate, inadatte a giustificare un’esistenza di lavoro ma capaci di sfociare in una condizione di ricchezza per la ricchezza. Il sistema dell’arte che ripone il suo acme nelle fiere, livella l’impatto percettivo di ogni lavoro e del suo artista. Abbassa gli istinti di fascino verso quello slancio passionale del volere tutto a tutti i costi oppure lo amplifica a tal punto da rendere l’esperienza di fiera unica e irripetibile, proprio perché si pensa di poter avere tutto a tutti i costi. Opere diverse su pareti di cartongesso omologate quindi per l’occasione, fino a che non arriva Univers una sorta di Temporary Store in Fondamenta Sant’Anna: Flavio durante la 57esima edizione della Biennale di Venezia ha messo in vendita opere d’arte per un prezzo fisso di venti euro: un manifesto contro il collezionismo o per incentivarlo? La sua più grande delusione è stata quando gli acquirenti gli chiedevano l’autentica o pretendevano di acquistare più di un oggetto, mentre le regole del negozio vietavano entrambe le cose. L’artista crea un’opera d’arte a partire da un conflitto, senza conflitto non c’è arte, mi dice Flavio. E quando il prodotto di un conflitto viene acquistato in tirature di multipli a prezzi spropositati, vantando sempre la stessa firma, la guerra è finita e probabilmente è stata vinta dal capitalismo finanziario, che aspira a godere della musica classica, ma indossa Zara e canticchia J-Ax.

Conversazione pubblicata su Arte e Critica, numero estivo, 2018