Lo strappo del velo

Quello che non convince di Blu, di molta Street Art -Bansky compreso- e di tutta l’Arte che vuole essere Pubblica è che cercano una relazione con quello che avviene oggi e con quello che vuole idealmente -e a parole- la società. La loro poetica cerca sempre un qualcosa di reale, di attuale. L’opera di Blu, proprio come la saga-battaglia finale all’XM24, è popolare e usa un linguaggio immediato ed efficace per portarci nel grande conflitto del Bene contro il Male, della Giustizia contro l’Iniquità che soprende il passante nell’anonima periferia spesso abbandonata. L’arte così si posa su un muro scrostato o su un edificio emarginato e dialoga con la gente (anche se ci ha messo un po’ a capirla, come dice il presidente del quartiere Navile) che vede meglio attraverso le grandi pennellate della Street. Blu è popolare perché la sua arte è popolare, perché è nella strada, fuori dai palazzi e musei, e il suo significato, per sommi capi, è condiviso.

Blu non è l’artista snob, concettuale e complicato, ma un Robin Hood anonimo che dà voce a chi non ce l’ha. Senza firma e senza autore, la pittura diventa di tutti in un luogo che prima era di nessuno. Opera data che si fonde nella città attraverso l’intonaco marcio. Il gesto di Blu -e del suo popolo- più di cancellare è un resettare e appare subito molto interessante. In un mondo dell’arte dove l’interesse è perennemente vago e disattento, scandito solo da preview e vernissage, il gesto estremo diventa insopportabile ai più che non contemplano nessuno strappo. Tranne quello che porta i murales al museo. Ma questa revoca-azzeramento non è altro che lo strappo del velo del tempio, che impedisce di vedere la condizione e la contraddizione dell’artista lacerato.

L’arte è per natura esclusiva ed elitaria e chi la vuole popolare e accessibile sbattte contro un muro più grande di lui, che stavolta non può dipingere.

In una Repubblica fondata sul lavoro, chi annulla e annienta non ha scampo, nemmeno se è un gesto d’arte, nemmeno se è disperato, nemmeno se il gesto è rivolto alla sua stessa opera. Con una pletora di pareri chirurgici si è discusso di legalità, di diritti, di possesso e di proprietà di queste opere. Sull’eredità pare ci siano ancora dei dubbi.

Blu è un martire che non fa vittime, accusato da una comunità distratta e conformista, preoccupata solo della perdita di quello che non sarebbe mai stata capace nemmeno di immaginare, ma che pretende di possedere. Blu è un cristo senza croce, chiamato in causa da un’istituzione che con tutti i nobili propositi possibili non fa altro che trasformare i suoi slanci spontanei, impegnati e destinati ad un composto e consapevole oblio, in quadri con le attaccaglie e con i contratti di assicurazione. E’ di un designer, Enzo Mari, una definizione che da tempo rimugino quando sono davanti a un muro: la creazione è un atto di guerra, non un armistizio con la realtà.

La panchina social

Nella targa posizionata a lato della scultura in bronzo che ritrae Lucio Dalla seduto su una panchina con un sacchetto di patatine o pop corn, i visitatori possono leggere: “Autore Susinni Carmine (Focus in Art). Opera del nuovo ciclo arte interattiva in cornice virtuale. Titolo: All’amico Lucio- Anno 2014. Opera popolare contemporanea concepita per stimolare lo spettatore a interagire da protagonista con foto o selfie nella concettuale cornice del teatro virtuale dei social”.

La lunga didascalia è tratta dal folcloristico sito web dell’autore che cerca di spiegare l’opera; la presenza di Vittorio Sgarbi – ritratto sia con l’artista sia con la scultura- certifica in qualche modo che siamo davanti a qualcosa che ha a che fare con l’arte.

Susinni Carmine punta alla veromiglianza che è così estrema che diventa quasi più reale di un ritratto del museo delle cere, quasi più vera del musicista stesso.

Una super-realtà quasi imbarazzante e disarmante che sembra non toccare la gaiezza del passante che cerca la foto ricordo con lo smartphone. Molti posano con la cera di bronzo mimando di pescare dal sacchetto della statuta di Lucio che ormai è diventato uno di noi. L’atteggiamento rilassato della scultura che offre qualche patatina seduce i passanti che giocano a cadere adescati sulla panchina.

C’è qualcosa di strano in questo complesso. In fondo c’è un gusto disinvolto, disinibito, quasi sfacciato, sicuramente un punto di vista post-moderno, un gusto popolare (ce lo conferma Susinni) dannatamente televisivo -non si sa se da prima serata o da Cappello sulle 23- dove, molto probabilmente, il sacchetto pop corn-patatina e il portale-cornice sono la chiave di volta del tutto. Chi posa accanto alla statua-amica mima un dialogo, fa uno sketch, uno spettacolino su una panchina -più da aereoporto che da zona pedonale- in un clima à la page, da set, e mentre la cornice inquadra la scena, Lucio è ancora fra noi. A ben vedere viso e sguardo diventano piano piano ingombranti, inquietanti, quasi morbosi, perchè morboso è l’atteggiamento della massa verso la star.

Il bronzo anzichè dare una natura solenne e composta diventa carne espressiva, quasi siliconica, come la maschera di Padre-San Pio che copre la faccia della mummia allo stesso modo di quelle di Mao e di Lenin. All’inaugurazione festaiola in Piazza dei Celestini di giorni fa, fra i selfie, il toccare di rito alla figura-simulacro e le foto ricordo sulla panchina, liturgie che tentano di risolvere la perdita con il ritrovarsi insieme, alcuni parlano alla statua come se potesse rispondere, come si faceva una volta allo zoo.

Nella spensierata processione Andrea Mingardi ha un momento di imbarazzo con la figura e fra il timore e l’impaccio, quasi a prenderne le distanze, gli scappa un fa una certa impressione! Ma è giusto un attimo, tutto scorre e arriva il turno di Paolo Mengoli con la sciarpa del Bologna.

L’arte alla carta

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Dopo il grande successo di pubblico, la scultura in bronzo con Lucio Dalla, compresa di cornice e totem con didascalia, ha inaugurato un inedito dibattito sulla scultura e sull’arte celebrativa a tema, proprio quella che Arturo Martini definiva lingua morta.
Come una reliquia di una società tradizionale, così la panchina social raccoglie insieme gente normale e famosa che le conferisce uno status taumaturgo. Ma oltre all’opera di bronzo osannata da chi ama l’arte finchè ci si siede sopra ed è partecipata, c’è ora un altro posto dove sedersi in gloria e poco distante da quella del cantautore: è nell’ultima sala della mostra di Edward Hopper a Palazzo Fava, ed è a pagamento.
Anche il più distratto dei visitatori dell’esposizione percepirà il senso di sospensione e solitudine delle opere dell’artista americano, una dimensione quasi privata; tutto sembra psicologico, introspettivo e anche nella generale introduzione della mostra nel sito web si legge dell’autore come uomo schivo e taciturno. Fino a che non ci si imbatte nell’ultima sala per un gran finale che trasforma un’opera del solitario artista in un facile prodotto da provare, come in uno scaffale del supermercato. Il quadro scelto come immagine della retrospettiva, Second Story Sunlight, quello forse più hopperiano e americano, con due donne sul balconcino di una casa, è riprodotto con una proiezione su un muro. Per uno strano marchingegno il visitatore disinvolto può diventare parte del quadro stesso sostituendosi alla donna seduta sulla sedia. Ognuno diventa soggetto e autore insieme. In particolare la donna anziana potrebbe avere a che fare con la moglie che viene usata spesso come soggetto, vera è propria ossessione di Hopper e questo particolare, per nulla di secondo piano, sottolinea ancora più la complicata natura del rapporto col genere umano del pittore, quasi a dirci che forse è proprio l’opera, e solo lei, a dare voce a quello che non può fare l’artista nelle relazioni della vita. L’immagine dipinta è così barattata per lo sfizio del visitatore che entra nella tela, e svilita dalla pratica più banale e indotta dell’ultimo decennio: il selfie. Il neo autore-usurpatore si porterà via in qualche modo il suo ritratto che storpia il dipinto originale in nome di un comunismo artistico con biglietto a pagamento. Tutto ciò sarebbe stato impossibile se l’artista fosse vivente, semplicemente perchè nessun autore degno di questo nome permetterebbe un’operazione del genere su una sua opera. Tale intrattenimento ha un approccio al quadro casual e volgare inteso proprio come si legge sulla Treccani: del volgo, degli strati socialmente, culturalmente ed economicamente inferiori della popolazione, anche se questa trovata non è nata dalla gente, ma pensata da chi crede che l’arte sia un po’ pesante e vada ravvivata con qualche coup de théâtre a tinte personalizzate. Non so se ci sia un quadro nella nostra storia occidentale che abbia un titolo più complesso e raffinato, ma oggi, hanno deciso, che La luce del secondo piano è forse troppo noiosa per vederla e basta.