fine Giugno Giardino Saliceto

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fine Giugno Giardino Saliceto
Un video per il quarantennale della Strage di Ustica

In occasione del 40° anniversario della Strage di Ustica, per tutta la giornata di sabato 27 giugno 2020, sarà visibile il video d’artista fine Giugno Giardino Saliceto, realizzato da Flavio Favelli e Luca Mattei nel 2007.
Il video fu girato in presa diretta presso il Giardino Saliceto di Bologna il giorno in cui il relitto del DC-9 Itavia fece il suo definitivo ingresso nel Museo per la Memoria di Ustica.

A fine Giugno 2007, l’ultima parte dell’aereo fu calata con la gru, nell’edificio del Museo per la Memoria di Ustica di Bologna. Dopo avere volato nel più alto dei cieli e conosciuto gli abissi più profondi, dopo essere stato recuperato, allestito in un hangar militare vicino Roma ed esaminato a lungo, dopo avere viaggiato su camion fino a Bologna, per l’ultima volta la parte posteriore del DC-9 avrebbe visto il sole per poi diventare monumento e opera d’arte.
Non sapevamo bene il giorno e l’orario dell’ultimo atto e avvenne tutto velocemente una mattina presto e già molto calda di fine Giugno.
Cercammo di fare coesistere la relazione tra due figure anonime, che parlavano misteriosamente e tiravano al pallone, con i suoni della gru, i rumori dei lavori, mentre il grande evento rimaneva sullo sfondo: l’ultimo momento d’aria della coda bianca, con la freccia colore rosso pompeiano, dell’aeromobile DC-9 Mc Donnell Douglas sigla I-TIGI della compagnia Itavia. (Flavio Favelli)

Idee per il futuro

Idee per il futuro è la nuova rubrica di exibart, per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, oltre che per provare a capire come realizzarlo, dopo l’emergenza Covid-19: l’appuntamento di oggi è con Flavio Favelli.

Flavio Favelli (Firenze, 1967), dopo la Laurea in Storia Orientale all’Università di Bologna, prende parte al Link Project (1995-2001).
Ha esposto con progetti personali al MAXXI di Roma, al Centro per l’Arte Pecci di Prato, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, alla Maison Rouge di Parigi e al 176 Projectspace di Londra. Partecipa alla mostra Italics a Palazzo Grassi nel 2008 e a due Biennali di Venezia: la 50° (Clandestini, a cura di F. Bonami) e la 55° (Padiglione Italia a cura di B. Pietromarchi). Nel 2008 realizza Sala d’Attesaambiente permanente nel Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna che accoglie la celebrazione di funerali laici. Nel 2015 l’opera Gli Angeli degli Eroi viene scelta dal Quirinale per commemorare i militari caduti nella ricorrenza del 4 Novembre.
Nel 2017 il progetto Serie Imperiale vince la seconda edizione del bando Italian Council. Nel 2019 tiene la mostra personale “Il bello inverso” a Ca’ Rezzonico, uno dei musei della Fondazione Musei Civici a Venezia, ed esce libro d’artista Bologna la Rossa edito da Corraini Edizioni. Scrive per La Repubblica edizione di Bologna dal 2014.

La parola agli artisti

Tre cose che chiederesti per far fronte al futuro, come professionista dell’arte (Denaro? Possibilità di esporre? Studio gratuito? Minori imposte sulla Partita Iva? Abbassamento dell’IVA per chi decide di investire in arte? Creazione di un sindacato?…)
«Darei questa possibilità: facendo la somma del reddito degli ultimi 3 anni dell’artista, si calcola la media mensile e si divide per due. La cifra che risulta sarebbe lo stipendio mensile che lo Stato dovrebbe all’artista. Senza tasse. Dopo un anno, se l’artista ha venduto di meno della cifra annuale percepita dallo Stato è tutelato, se ha venduto di più, il resto andrà allo Stato. Ogni anno si rivedrà il parametro. Io sarei pronto, vorrei vedere chi ci sta. Perché se si chiedono soldi poi il problema è: a chi vanno? Tutti diventerebbero artisti, scenografi, creativi, e in questo momento populista molti direbbero E perché? A chi? A quelli che fanno la banana o il taglio sulla tela? Nel caso che ipotizzo si verrebbe ad un patto: una reciproca relazione con l’istituzione con cui vorrei avere degli scambi, come l’Italian Council. Con questa proposta/patto vorrei essere preso in considerazione, vorrei, più che essere tutelato, un riconoscimento che lo Stato dovrebbe darmi e altre iniziative (come la possibilità di partecipare a incontri con le amministrazioni). Credo che vada riconosciuto in qualche modo il lavoro dell’artista che mi sembra, -certo bisognerà fare delle distinzioni-, l’unico attore capace di creare senza uno studio di mercato, senza una previsione, senza un piano prestabilito. Anni fa ho esposto una grande opera, dopo mesi di lavoro, in un capannone in disuso vicino a casa sull’Appennino Bolognese. Feci una specie di inaugurazione, dove nel grande spazio di circa 300 metri quadrati si trovava l’opera. Un imprenditore mi disse: e tu tieni questo grande spazio solo per esporre un’opera?».

Ci puoi dire un motivo per cui, secondo te, ancora oggi in Italia si fatica a riconoscere i diritti degli artisti come categoria professionale?
«Giorni fa l’assessore alla cultura di Bologna ha detto che in Italia il lavoro culturale non viene riconosciuto. Già questa è una risposta. Figuriamoci gli artisti. Anni fa avevo scritto questo testo per fare capire la situazione: ci sono tanti fattori. Colpa anche degli artisti stessi. La faccenda è molto seria, certo non è semplice rifiutare possibilità di guadagno, ma si fanno troppe cose a carattere illustrativo e commerciale e questo alla fine pesa. Io stesso mi sono amaramente pentito di un progetto per un gadget di tanti anni fa, cosa che non rifarei. Gli artisti stessi accettano sempre usi e costumi che non fanno altro che mantenere un’idea ferma di un mondo spesso percepito, nonostante tutto, come noioso (ma chi va più alle presentazione dei libri e cataloghi d’arte?) Al The First Morning Fest of Unreasonable Acts nel 2018 a Bologna a cura di Antonio Grulli e Keren Cytter io e Luca Bertolo facemmo una discussione pubblica senza alcun mediatore. Mi sembra che sia stata una cosa unica nel suo genere. Di solito l’artista, se mai parla, viene sempre scortato e moderato dal curatore che appunto lo cura perché evidentemente va curato. D’altra parte gli artisti parlano poco, leggono poco, scrivono poco e, avrebbe detto mia nonna, non sanno nemmeno stare zitti, perché anche quello a volte è importante. L’artista non esprimendo nessun pensiero e presa di posizione (faccio un esempio: in passato non ho accettato di partecipare a due progetti legati alla Chiesa, per il semplice motivo che in quell’ambiente l’opera viene sempre letta in modo univoco e l’artista sembra sempre un messaggero, anche se non se ne rende conto, della bellezza del creato) verrà sempre visto come colui che si accontenta del rapporto che gli offre la società, cioè solo commerciale e questo necessario mezzo, se si tramuta in solo scopo, non può essere altro che scontato; ed è così, in fondo, che l’arte contemporanea viene percepita: come una mera faccenda di mercato. Il problema è che raggiungendo il successo commerciale automaticamente si raggiunge la fama (chi fa soldi è sempre importante) e quindi si entra di diritto nel pantheon degli artisti illustri che, a loro volta, per mantenere tale popolarità, non possono fare altro che ripetere il loro stile, per renderlo riconoscibile, come una firma di successo. Mi sembra che il recente esempio del Tricolore di cartone, plastificato, l’opera d’arte commissionata ad un artista famoso e regalata ai lettori del Corriere della Sera, in pieno periodo di virus a corona, vada in questa direzione».

Parliamo dei danni, oltre a quelli morali. A che progetti stavi lavorando prima di questo isolamento, ma soprattutto prevedi che si concretizzeranno o dovranno essere abbandonati? 
«Mah, tante cose, il punto è che fuori dal mondo dell’arte, il rapporto con aziende ed enti pubblici sarà sicuramente difficile da riprendere. Già prima era arduo, figuriamoci ora, non vedranno l’ora di dire … non è il momento, ora ci sono cose più urgenti».

Intervista uscita su Exibart il 23 aprile 2020.

Monologhi al telefono

Nel suo monologo al telefono Flavio Favelli racconta due vicende che riguardano la sepoltura dei suoi genitori. L’artista manifesta la volontà di voler progettare un monumento funerario ma, richiamando il ricordo di un progetto per un cimitero mai realizzato di Arnaldo Pomodoro (incontrato in un seminario quando era giovane) rivela, la possibilità che anche questo suo progetto potrebbe rimanere solo un disegno sulla carta.

File audio pubblicato su Artribune il 23 aprile 2020.

L’eterno ritorno

Bologna, 2006

Mi hanno invitato a “Strade Blu”, una mostra collettiva di arte contemporanea nella Provincia di Bologna, mi hanno proposto, per esporre la mia nuova opera, il giardino della GAM di Bologna e mi è stato chiesto di trovare un critico che scrivesse sulla mia opera. Ho pensato ad Anna Maria Franchini e a Lisa Bentini. Con la prima farò un breve dialogo; la seconda, invece scriverà un testo sull’opera inedita Villa.

Ho chiamato Anna Maria Franchini e le ho parlato della faccenda. Mi ha manifestato qualche dubbio, mi ha confessato subito che le questioni contemporanee non l’hanno mai molto interessata e che forse si sente un po’ distante da certi argomenti. Ho replicato che da qualche anno molti sostengono che il tempo attuale sia attraversato da continui sconfinamenti, ibridazioni, contaminazioni e contatti vari e poi un dialogo è certo più semplice di un testo. Ha accettato.

Esporrò Villa che sto facendo in questi giorni. Sarà una grande costruzione senza tetto, più alta della figura umana, circa tre metri e mezzo. Lunga sui sei metri larga sui tre. Quasi diciotto metri quadri di erba verde, perimetrati da vecchi ferri, o ferri vecchi. Villa è costituita da tante parti di ringhiere, balconate, cancellate, inferriate che ho raccolto in questi anni. Una specie di recinto parlante di decori e i disegni di tanti pezzi di ferri battuti, scampati all’ecatombe della guerra, alla voracità della Patria, ai nuovi recinti zincati. Erano di ville di campagna, di case che dicono di storie complesse di famiglia. Ho deciso di farlo rosa, rosa antico, cenere, quei rosa desueti, degli intonaci delle case severe che ho visto in Liguria, con le ortensie nel giardino. Ecco, così… che te ne sembra?

A prima vista mi appare come un terribile strumento di tortura. Mi si sdoppia, non è più a terra ma alto contro il cielo. Ora lo vedo chiaramente: sono due uguali appese ai bastioni prima della porta di una città medievale dalle mura possenti. Penso ora ad una voliera di uccelli rari. O a un forziere sottomarino, un relitto, la cui parte di legno si è sciolta e resta un esoscheletro. Comunque la si guardi questa grande gabbia è interessante perchè non è frutto di regole precise, geometriche legate a tecniche ubbidienti a numeri o ad angoli fissi. Come dici sa di ville di campagna che erano recinte da bellissime cancellate.

Hai sempre dedicato molto tempo, nella tua vita, all’arte. Hai visitato musei di mezzo mondo, monumenti, aree archeologiche. Una grande passione per l’arte. L’arte antica; l’arte moderna meno, vero? E perché?

Fino all’ottocento l’arte è copia della realtà: tanto più ritrae il vero illudendolo, tanto più piace. Che dire dell’arte contemporanea? E’ una ricerca per denunciare, affermare quasi gridare agli uomini tutti e all’umanità intera la presente realtà molto amara. Scomporre, divedere, segnare, evidenziare qualcosa è assai lontano dalla normale comprensione. E’ più difficile leggere il messaggio dell’arte moderna: troppo spesso l’analisi mi incute tristezza, perfino paura, mentre l’arte dei miei studi mi placava, mi dava pace e serenità; mi pareva di poter entrare nel suo mistero, nuova Alice in un mondo magico. Ora mi sento fuori, un poco sprovveduta e rattristata: provo dentro di me tutti i mali del mondo come se stesse per giungere la fine. Dirò di più talvolta davanti a certe opere mi chiedo il perchè di tanta tristezza e vorrei che almeno qualcuna fosse un inno di gioia, inneggiasse alla vita, ci strappasse un sorriso o una speranza e invece no, ci indicano con gesti decisivi un nero futuro verso abissi e una catastrofica fine.  Almeno questa tua opera che pure è fatta di ferri, col suo delicato colore, mi è dolce e mi porta a pensieri sereni e a un passato lontano e felice.

Della Franchini ho trovato poi molti fogli scritti a mano, non sempre numerati, su vari supporti – brogliacci precari, bloc-notes di fortuna, retro di calendari, qualunque dietro di fotocopie preesistenti – spesso simili. Questo testo che segue mi è sembrato uno dei più interessanti, scritto attorno al 2001.

… chissà perchè la mia voce al telefono o quando leggo, ancora piace: capto che se è un uomo all’altro capo del filo, è interessato, crede in una voce giovane, accattivante, perfino piccante che promette una donna senz’altro giovane, bellina, forse sexi, comunque da “coltivare”; invece ero una ragazza scialba, bruttina all’acqua e sapone con poco seno, magra e per nulla sexi, neppure piacevole; perchè? ero curiosa: desideravo, sognavo “cultura” sotto ogni sua forma: prima l’arte del parlare, conoscere bene la propria lingua, ogni soffio di grammatica e poi da lì il salto al latino, il greco, il tedesco, lo spagnolo, tutte lingue robuste, ricche di sintassi: poi la filosofia come studio dello spirito, la ricerca dell’anima o almeno della psiche… i perchè sempre insoluti della vita e della morte. Conoscere la psicologia, come nascono i pensieri, il buono e il cattivo, il bene e il male che covano nella mente che talora esplodono con violenza, proprio contro chi più si ama e se si crede di conoscere un po’ la psiche, ecco il desiderio di sapere tutto sul corpo: la medicina come fisiologia, ma anche come l’insorgere del male fin dalle cellule: e ti appare un mondo al microscopio. Di lì poi ti viene voglia del telescopio e dello studio delle stelle come altri mondi. Ecco ed ero (e lo sono in parte ancora) convinta che per “fare” una donna occorrano sei-otto uomini. Vedevo i miei amici studenti troppo spesso vanesi, disinteressati o meglio tesi ad ottenere il massimo voto col minimo sforzo… desiderosi di arrivare alla laurea per poi fare soldi. Non ho mai conosciuto ( e ne conoscevo tanti) un ragazzo che amasse come me quello che studiava per puro amore di conoscenza. Intanto leggevo tutto quello che mi capitava, andavo in biblioteca… per il greco misi gli occhiali ed allora divenni ancora di più “tipo zitella”. Ora invece -fuori tempo- gli occhiali piacciono. Eppure ero così ricca “di dentro” ma non sapevo né vestirmi e né pettinarmi. L’abito non fa il monaco, altroché, ne fa cento, mille. Guardate come tutte le signore che frequentano per varie ragioni la tivvù godano delle cure preziose di schiere di visagisti, massaggiatori, parrucchieri, estetisti… escono sulla scena per il gran pubblico ringiovanite, appetibili e con almeno l’illusione di dieci anni di meno. Come passa veloce il tempo: se appena mi alzo, incontro per casa uno specchio grande, mi aspetto di vedermi con i capelli neri folti e ricci… non è che mi sia appena risvegliata da un sogno, è che proprio talvolta “sento” di essere quella di una volta: quella ragazza tenace e decisa che voleva seguire il liceo classico Galvani, continuare all’università la facoltà di lettere e poi partire per una zona archeologica lontana, dopo aver seguito le magiche lezioni della L.L. sul Perù arcaico. Qualche volta quando, dicevo, mi vedo allo specchio, cerco me stessa e non mi ritrovo. Chi è quella donna già anziana (che veste in colori troppo spesso chiari, luminosi, come ancora amante del sole e della luce) che mi guarda con occhi cerchiati di rughe di capelli radi e tinti? Se è tanto cambiato “l’involucro”, anche l’anima dentro, i pensieri, i ragionamenti, la stessa intera personalità sarà mutata! Non sei più tu, povera amica mia, chi ti ha cambiato così? Perchè ti sei arresa, hai chinato il capo, ti sei lasciata mettere il giogo come un povero animale da tiro, vinta da un’altra razza più potente? Hai ceduto, perché? Dove sono finiti i sogni che eri ben decisa a realizzare? Tutto d’un tratto ti sei accorta che il bisogno più impellente era quello di un figlio tuo da mettere al mondo perché durasse dopo di te, ed essendo maschio, forse, gli sarebbe stato più facile realizzare i suoi pensieri forse affini ai tuoi. Che fatica trovargli un padre: su questo, vista la gente che mi trovavo intorno, le mie idee già allora erano assai simili a quelli della star Madonna, solo che io non ero nessuno e l’epoca molto prematura. Così trovai il “meno peggio”: bastò che apparisse (chissà se lo era davvero) un poeta, o almeno uno scrittore autodidatta e lo sposai. Così ho capito meglio la forza e l’eternità dei versi e dei grandi: da Omero a Dante: per esempio l’addio di Andromaca (certe volte ti senti tu Andromaca). Questi grandi hanno saputo esprimere i tuoi sentimenti e così impari che proprio i sentimenti, le gioie, i dolori sono gli stessi nei millenni, anche se razionalmente o socialmente invenzioni o scoperte mutano e migliorano la società, però tu, “dentro nel tuo io”, sei simile all’uomo o alla donna del passato; si dice: il cuore non mente! C’è ad esempio quel ciclo di due libri del Verga: I vinti cioè I Malavoglia  e Mastro don Gesualdo. Ebbene anch’io sono una vinta dalla vita. Cosa ho fatto o concluso? Ho detto prima che non ho avuto una vita felice. Chissà poi cosa s’intende per felicità, forse è solo una pretesa, un lusso che difficilmente si può spartire con qualcuno. Conoscersi e gioire dei propri pensieri. Insomma lavorare mentalmente sul proprio io, così da essere soddisfatti di sé. Infine: bastare a se stessi; e ciò non è facile, considerando che si è spesa una vita socialmente e farebbe tanto piacere scambiare idee e pareri, oppure talvolta silenzi con una persona che ti capisce e che almeno in qualche momento possa diventare un tuo “alter ego”. Ho saputo che molti vecchi muoiono senza accorgersene nel sonno. Ma che bella e placida uscita dal mondo! Di ciò parenti e amici si dovrebbero rallegrare perchè poi una buona morte, dopo una lunga vita giusta e positiva dovrebbe essere una festa per il ricongiungimento di quella bell’anima al padre, alle origini, alla vita vera. A che dunque lacrime, funerale tetro? Una bella festa con vesti bianche, inni, cori di grazie e tante preghiere serene e gioiose di accompagnamento da parte di parenti e amici, sperando di avere in cielo un “essere propizio”, un avvocato presso dio padre… non si sa mai! Insomma quasi una festa di sposalizio o almeno la gioia terrena che vede un fratello-sorella sistemato per sempre nella luce, nella felicità, nell’amore ultraterreno del padre.

Anna Maria Franchini (Bologna, 1931-2016) si è laureata nel 1956 in Lettere Classiche e poi nel 1958 in Lettere Moderne all’Università di Bologna. Compie subito vari viaggi attraverso l’Europa. Per quasi quarant’anni ha insegnato alle scuole statali. È stata mia madre per quasi 50 anni, è morta a fine marzo del 2016.

Dico è stata mia madre, non perché adesso non lo sia più, ma perché dopo la sua morte è stato tutto più leggero, non ho più quel pensiero della sua presenza, così ingombrante, pesante, quasi indicibile, direi anche ossessivo e come se anche la parola madre avesse perso il suo ruolo. Direi che è stato un rapporto di tipo santo, giusto per intendere non ascrivibile alla realtà umana, riconducibile a una strana setta, nonostante tutto lontana dal cristianesimo, ma meno distante da certe forme di devozione e attaccamento tipiche dello shiismo islamico, dove certi estremi si avvicinano e dove regna, anche nel più spensierato momento quotidiano, in fondo una consapevolezza di ingiustizia, sconfitta e fallimento.

Testo pubblicato su Antinomie il 22 aprile 2020.

Il ruolo dell’arte in Italia, a parte il Covid

Tu vuò fà l’americano…ma sì nato in Italy, diceva una canzone. L’America è messa male per il virus, ma sta facendo qualcosa. Cioè l’esatto contrario di quello che avviene in Italia, loro danno i soldi agli artisti, mentre qui invece si chiede agli artisti di donare le loro opere per l’emergenza.

Nonostante l’ospedale a Central Park, le fosse comuni e il record di morti per il virus, in America l’arte contemporanea si sostiene. Che sia una scelta poeticapatriottica o economica, i fatti (e i soldi) sono questi. Si afferma così che gli artisti visivi contemporanei sono un’eccellenza di un Paese. Che una parte della classe dirigente, nell’era di Trump, riesca in qualche modo a comprendere che c’è un’arte contemporanea (che non è certo quella del gusto popolare e condiviso dalla gente, della TV e dei media generalisti) che va comunque difesa e sostenuta, vuole dire che, nonostante tutto, è ancora un Paese dove ci sono idee chiare sulla cultura e ci condanna a essere una provincia: proprio noi, che eravamo il paese dell’arte.

Certo, si dirà che loro non hanno un passato come noi oppure che ci sono grandi differenze non sempre positive (tanti milioni di poveri) ma il punto è che delle fondazioni private prendono in considerazione gli artisti (tutti inclusi) come delle persone reali, mentre invece qui vengono visti con diffidenza e solo come una strana eccezione a cui chiedere idee nei momenti del bisogno.

Che l’unica iniziativa per l’arte a un pubblico ampio, in questi anni, sia stata la richiesta agli artisti di produrre un’opera gratuitamente per il supplemento La Lettura del Corriere della Sera, è la conferma di questa distanza. Nemmeno La Repubblica si è azzardata ad avventurarsi in tale audacia: per un suo Robinson speciale dedicato al tempo del virus Corona, ha chiamato giusto degli illustratori, tanto gli artisti sono dei marziani, deliziando i suoi lettori con Zagor che ammazza il virus, Dylan Dog con la mascherina e Zerocalcare che dice «Daje» (e che deve mai dire Zerocalcare, il nuova vate della sinistra?).

Nello scorso Affari e Finanza de La Repubblica, è apparso un titolo dalle previsioni non rosee: «Cambio di rotta delle Fondazioni: meno cultura, più welfare e sanità» e sopra una foto – quasi metà pagina – della mostra “Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna” a Milano, un bel biglietto da visita della collaborazione Banca Intesa-Cariplo. Scelta curiosa, perché si rappresenta la cultura (che è il soggetto della notizia) con la bellezza per antonomasia, con la foto del gran salone di Piazza Scala con i capolavori dei due scultori. E forse è proprio vissuto così, dal Paese, il senso della cultura, giusto da vedere e ammirare con meraviglia.

Vicini al precipizio che ci attende, si può cercare di comprendere il significato di quell’accostamento che ha qualcosa di profetico: non ci è dato di sapere se il senso della pagina vada inteso come «di quelle mostre ne vedremo sempre meno» oppure «di mostre ne vedremo sempre meno»tuttavia è interessante che si rappresenti la cultura, prima della cura da cavallo, con un’immagine di una bella sala, di una bella mostra, con delle belle statue su dei bei piedistalli che sembrano di velluto.

È questo che rappresenta la cultura e l’arte? “Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna” è accompagnata dal video La fabbrica della bellezza che, in fondo, racconta una storia di sfida e successo di due artisti che per esaudire le richieste dei signori di tutto il mondo, si misero a fabbricare la bellezza, nei loro atelier a Roma, proprio come avviene oggi negli studi di Jeff Koons e Damien Hirst (nominati nel video in questione). Il grande cambiamento fu l’idea di riprodurre le opere d’arte per soddisfare il mercato. Come suggerisce il filmato, sembrerebbe che il fine di tali armonie e grazie, panneggi e coroncine, amorini e corpi sospesi, sia l’idea di moltiplicarli per farne una produzione seriale, una catena di montaggio. Una grande storia di impresa del lusso.

Articolo pubblicato su Exibart il 15 aprile 2020.

Zuppa Inglese Bandiera (Zuppa Inglese Flag)

Zuppa Inglese Bandiera (Zuppa Inglese Flag) è il vessillo di uno stato inesistente, che prende i suoi colori da un dolce della tradizione bolognese, rimanda alla memoria del passato per esorcizzare il presente.

«Ricordo che c’era una questione inglese in casa dai nonni materni e questo si capiva subito perchè l’unico piatto non bolognese che cucinava mia nonna era la carne all’inglese, il Roast-beef, il rosbif , come lo chiamava lei. Il riso al burro, o all’inglese, invece, non si faceva mai o se si faceva era perché qualcuno era malato e quindi non poteva rientrare nei piatti rispettabili, perché la faccenda del cibo era seria, in pratica si viveva per mangiare. E poi c’era la Zuppa inglese, dolce bolognese come il Fior di latte, e la Torta di riso, con tre strati: biscotti savoiardi bagnati nell’Alchermes, cioccolato e crema e come ogni famiglia tradizionale, mia nonna aveva la sua ricetta personale, tramandata in un quaderno. Nonostante il carattere ricco e grasso della cucina bolognese, quella di Tosca aveva qualcosa di netto, quasi minimale in un ambiente abbondante, ripieno e farcito; la Zuppa inglese di casa Landi Franchini era densa, compatta e decisa.»

Nella foto: Flavio Favelli, Zuppa Inglese Bandiera (Zuppa Inglese Flag), 2020, bandiera in tessuto, 210 x 300 cm
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, © dell’artista

La croce e il nulla. Una dimenticanza straordinaria

Venerdi, 27 marzo, il Papa, in una Piazza San Pietro vuota, chiede la fine del male e concede la benedizione eucaristica Urbi et Orbi con la proclamazione dell’indulgenza plenaria. Papa Francesco è solo, sotto un baldacchino, rivolto alla piazza e dietro, alla sua destra, il crocifisso ligneo miracoloso di San Marcello che ha sconfitto la peste di Roma del XVI secolo.

In questi giorni si viene a sapere che l’opera ha subito molti danni per la pioggia – è fatale l’umidità sul legno antico – e si indaga sulle responsabilità. Si dice che, con maggiore accortezza, si poteva mettere il crocifisso al riparo. In un momento dove una scure inimmaginabile (giusto il cinema dopo avere fatto decine di film su sfighe catastrofiche su ogni possibile male, l’ha indovinata) e ancora imprevedibile segna una frattura epocale, dove vengono falciate, da più di un mese, nell’Occidente Cristiano, migliaia di persone in modo improvviso (il toscano ha un temine efficace, la morte secca), il vicario di Cristo celebra, con dei simboli chiari, una funzione inedita, mai vista prima. Papa Francesco parla di tenebre, afferma che siamo perduti e dichiara: con la tempesta è caduto il trucco, compreso quello del crocifisso di legno, con lo stucco dipinto che si scioglie alla pioggia del temporale e forse anche di tutte le rappresentazioni sante e sacre.

S’intrecciano varie immagini in pochi minuti: la facciata del baraccone finto tempio greco della Basilica di San Pietro, l’edicola nova-baracchina a faretti led, le due figure arcaiche e antiche, il crocifisso della peste e l’icona bizantina della Madonna e un Papa con le scarpe da mercatone che alla fine sarà pure un po’ scaruffato. A causa della pandemia – una peste senza colore, trasparente, una peste 5.0 -, il Sommo Pontefice dà la benedizione Urbi et Orbi, atto unico nella storia perchè fuori dalle tre occasioni previste e si offre al mondo con un gesto, con l’ostensione del corpo di Cristo, che compare anche riprodotto in legno, a prendere l’acqua, alla base del colonnone, sofferente, un po’ incartapecorito, con la corona di spine, inchiodato alla croce. In questo contesto, segnato dal clima poco clemente e da un cielo tempestoso, la dimenticanza della preziosità del capolavoro è forse dovuta alla straordinaria situazione dell’evento: mai siamo stati così vicini alla morte terrena dall’ultima guerra mondiale.

Cosicché, in quel momento, nessuno avrà pensato alla conservazione, all’idea che quel Cristo sia anche un’opera d’arte (e in fondo sempre cattiva imitazione) da proteggere e a cui prestare cura e considerato giusto come un semplice mezzo e non come un fine. Un atteggiamento decisamente diverso dalle altre fedi, quella della conservazione del patrimonio, dell’arte, della bellezza che salverà il mondo, della cultura (ma l’angelo appare ai pastori e ai mandriani emarginati e analfabeti) e quella del possesso-investimento del verbo delle case d’aste.

Articolo pubblicato su Exibart il 30 marzo 2020.

Via del Corso

L’ultima volta che vidi un Papa fu il 18 aprile 1982, avevo 15 anni, ero appena uscito dalla stazione dei treni di Bologna, di ritorno da Firenze e l’auto col Santo Padre poco dopo passò dai viali. Furono stampate delle cartoline fra cui una bizzarra, ora introvabile, un fotomontaggio con Wojtyla sopra il Palazzo dei Notai che saluta Piazza Maggiore, come un grande Godzilla. Mia nonna, solitamente abbottonata, in quei giorni si lasciò andare a un Evviva il papa!. Il Papa è sempre in chiesa o alla finestra o su un aereo o in piazza San Pietro fra la folla. Non si era mai visto un Papa da solo, per la strada, sul marciapiede.

Testo pubblicato su Doppiozero il 28 marzo 2020.