Nella recente intervista l’ex Magnifico Rettore dice soprattutto una cosa – o lo dice il titolo dell’intervista -: che l’arte fa molta fatica e bisogna investire e anche che si sta perdendo la cultura e l’artigianato. Ne parla come se tutte queste cose appartenessero ad un unico ambito, condiviso. Ci sono invece almeno tre grandi emisferi distanti fra loro, con diversi linguaggi e modi di pensare che a volte s’incrociano, ma sono spesso in conflitto: quello dell’arte del passato, del gusto classico, conservatore contro la generale volgarità dell’oggi, quello diciamo neo-positivista (Chiesa compresa) dove l’arte, tutta, ha un valore col segno più: bellezza ed eccellenza vanno sempre a braccetto con utilità e lavoro: l’arte serve per un generale benessere e accompagna il successo e si intreccia col design e l’artigianato (e qui pure col cibo). E quello dell’arte contemporanea, più consapevole, che oscilla fra la lezione delle Avanguardie e del Novecento e le Biennali in giro per il mondo, ma sempre tallonata (definitivamente?) da gallerie snob e vip cards. Detto questo, considerando che il tempo popolare e populista (non è il momento della Street Art?) ha il suo peso, non si può pensare che la questione sia se il turista vada o meno a vedere il Cimabue o Il Compianto (ma è veramente così percepibile l’effetto sul territorio delle folle che tutti i santi giorni invadono la Cappella Sistina o gli Uffizi? E così Roma o Firenze non dovrebbero essere di conseguenza investite da tale lucente cultura invece che essere rispettivamente simbolo di degrado e di provincialismo nobil-bottegaio?) perchè questi rappresentano soggetti improponibili all’oggi e rimangono solo come svago piacevole senza bucare la nostra esistenza. Il magnetismo dell’immagine sacra-arcaica su fondo oro oppure del Cristo morto (c’è oggi un soggetto più scarico e desueto?) o delle donne che piangono, giacciono in una griglia a comparti stagni che ci ostiniamo ancora a chiamare bellezza.
Categoria: Repubblica (ed. Bologna)
Piero Manai a Bologna
Nell’aprire la nuova stagione dell’arte bolognese le gallerie d’arte contemporanea P420 e CAR DRDE esporranno delle opere di Piero Manai artista locale morto nemmeno quarantenne nel 1988, l’anno delle medaglie di Alberto Tomba a Calgary. Dopo le mostre da Forni (1974), allo Studio G7 (1976, 1978, 1999), alla San Luca (1993) alla De’ Foscherari (1981, 1983, 1989, 1994, 2000 e 2010) e alla Otto Gallery (2000) oltre che alla GAM nel 1985 e 2004 e a Palazzo Pepoli nel 1988, le due gallerie di nuova generazione riprovano a lanciare sul mercato uno degli artisti più straordinari ed enigmatici degli ultimi decenni (è così che si legge da qualche notizia in rete insieme alla confortante affermazione di Umberto Eco “Manai, dopo Giorgio Morandi, stava continuando il discorso della grande pittura bolognese”, confermando così che l’arte a Bologna è pre o post Morandi e gli artisti continuano o meno la sua pittura). Questa nuova operazione si inserisce sicuramente in un tendenza degli ultimi anni a riscoprire artisti che non hanno avuto il successo che avrebbero meritato, anche se sicuramente c’è qualcosa di più: dopo quattrodici mostre personali in quasi cinquant’anni in cinque gallerie e due musei della città, se due recenti realtà commerciali ci riprovano forse vorrà dire che fino adesso l’artista bolognese non è stato presentato con la giusta immagine e che nell’epoca dell’arte globalizzata Manai non si è ancora affacciato. Ricordo nel 2000 che un critico romano davanti ad una sua opera disse: com’è datato! Sarà interessante capire se questo ipotizzato ritardo sia un peso o una caratteristica positiva. Del resto è una bella presentazione che crea valore all’opera e le due gallerie nel nuovo distretto della Manifattura delle Arti sapranno sicuramente fare emergere quelle qualità di Piero Manai che sono state, probabilmente per troppo tempo, nell’ombra.
Nero e Bianco
È interessante la scelta di mettere come foto rappresentativa della mostra “Ex Africa” quella di Man Ray Noire et Blanche del 1926. Il titolo dell’immagine già parla chiaro: non si può parlare di cose nere, senza le cose bianche, nemmeno quando il soggetto è l’Africa; non c’è nero senza bianco, come fa il biscotto Ringo. La maschera misterica è accompagnata dal viso ariano di una donna con un volto Anni Venti che si relaziona -per forza di cose- con l’oggetto scuro. Interessa poco, come e perché Man Ray abbia messo la fidanzata (Kiki) sognante vicino al manufatto, il punto è la scelta di un’immagine del genere a rappresentare una mostra che mira -o tenta – un diverso sguardo sull’arte del continente nero. Una mostra sull’arte dell’Africa ha un biglietto da visita con l’arte bianca, a mo’ di angelo custode, come una firma del genitore, un pass autorizzato, come un’autentica. L’opera nera non può andare sola, deve essere certificata da una viso di donna (una super donna) che si relaziona e contrappone due mondi, due culture, due tempi. Si mantiene così un punto di vista viziato, del resto non è questo un paese che ce l’ha avuta sempre coi negri (con l’eccezione di quando cantano e fanno gol) e con le loro facce? La foto fu pubblicata su Vogue nel 1926 col titolo Viso di madreperla e maschera di ebano (chissà come sarà arrivato il manufatto in Europa, dove iniziava a essere à la page collezionare l’arte africana) e rappresenta magnificamente l’eleganza, l’unica misura (del salotto) dell’Occidente per comprendere l’Africa. Se è stata scelta per attrarre pubblico (cosa c’è di più glamour della foto di copertina di Vogue France degli Anni Venti?) in un’esposizione pensata per vedere con sguardi differenti un mondo da sempre incompreso e frainteso, allora si è nel grossolano, se invece è venuta spontanea allora sembrerebbe un tipico lapsus freudiano.
L’artista non si laurea
A poche settimane dalla notizie del diploma honoris causa allo chef Massimo Bottura conferito dall’Accademia di Belle Arti di Carrara (Bottura aveva già avuto una laurea ad honorem in Scienze Aziendali dall’Università di Bologna nel 2017) e della nomina di professore onorario all’artista Maurizio Cattelan (già dottore in Sociologia nel 2004 elargita dall’Università di Trento) c’è stato il massimo riconoscimento in Scienze Storiche e Orientalistiche a Christian Boltanski nell’Aula Magna in Santa Lucia. Nel suo discorso da appena laureato, l’artista francese ha detto molte cose che spesso marcano la distanza fra il mondo dell’arte e quello accademico. Ha parlato di infanzia, di un tempo passato, di tragedie, di guerra in un sottofondo di attesa e tenue speranza. Ha raccontato del suo essere vecchio e del tempo inesorabile che passa. Come gli artisti consapevoli, Boltanski ha detto cose che un accademico non avrebbe detto, ed espresso in un tono -senza emozione – composto e fermo, con un lieve distacco, autorevole, il suo punto di vista personale -solo gli artisti ideologici pensano di non essere autobiografici-. Sembrava come se stesse parlando un capo pellerossa davanti ad un senato di giubbe blu.
Perché mai l’artista avrebbe bisogno di essere dotto(re)? Perchè mai avrebbe bisogno di un titolo, di una pergamena? Verrebbe capito e compreso meglio dalla società? Ma che se ne fa della corona di lauro, che è un segno che sta di casa sulle medaglie, sugli obelischi, stemmi e blasoni? E perchè mai dovrebbe sentirsi a suo agio in una istituzione che si chiama Alma Mater? Qualche artista ha mai avuto un rapporto regolare con la famiglia? Boltanski è Dottore in Storia (e non in arte) non perchè la sappia (e sicuramente la sa), ma perchè è un interprete della storia. Questo cambio di status, – l’artista è dotto in storia, non in arte -, permette forse all’istituzione di riuscire a comprendere un ambito più consono.
Si è avuto comunque l’impressione che l’artista con la toga, la stessa indossata da tanti eccellenti professori e professionisti, saggi, dottori e imprenditori che fanno viaggiare il mondo solo a diritto e dalla parte lucida, non sia un’immagine adeguata.
Il giorno prima Boltanski si è incontrato, all’Accademia di Belle Arti, con monsignor Matteo Zuppi nel tentativo di dialogare, di accostare fede, ricerca e arte. Anche se l’artista non ha fede e non ha titoli di studio, ogni tanto le istituzioni cercano un contatto, quando credono che l’arte si stia avvicinando ai loro valori e riferimenti. Starebbe forse all’artista marcare la distanza e a volte declinare l’invito, perchè è forse solo con la divergenza che si possono capire a fondo certe cose.
Per Arte Fiera
A causa di Arte Fiera o semplicemente per Arte Fiera è un interessante fenomeno che è entrato, nonostante il ridimensionamento dell’evento di Piazza Costituzione, nelle vene dei bolognesi. Decine di appuntamenti per celebrare arte, arti e variopinta creatività, concentrati in meno di una settimana si affiancano alla manifestazione madre per attrarre il suo pubblico. È così diventata una consuetudine, quasi una festa comandata che fornisce la scusa per ogni evento: moltissime mostre, appuntamenti ed esibizioni credo che non esisterebbero se non ci fosse l’alibi di Arte Fiera. Ed è inevitabile che l’evento prevalga sull’opera, già offuscata dalla pratica stordente del vernissage; ne consegue un gran fiorire dell’installazione, termine disgraziato che chiunque usa per qualsiasi opera d’arte che non sia su tela o di marmo. I recinti sono rotti e i buoi sono scappati da tempo e così siamo diventati tutti artisti, curatori e galleristi, tre occupazioni dove, in fondo, non ci vuole nessun corso, nessun tesserino. Se la grande rivoluzione del cibo ci sta facendo, alla fine, mangiare meglio, non se se si possa dire lo stesso per il gran movimento dell’arte contemporanea, che negli ultimi anni ha assunto un ruolo di assoluto status. La città, come il paese, è ancora comunque spaccata su una questione centrale: il concetto e il significato dell’opera. Tutti a chiedersi in ogni mostra ma cosa vuole dire? Qual è il messaggio? perchè da sempre ci hanno insegnato che è bello o brutto, giusto o sbagliato, bianco o nero. Qual’è il succo? Perché si vogliono risposte che non contemplano altre domande. In questo gran tour cittadino di cose colorate manca un’educazione, manca il tempo mentale di mettersi davanti all’opera, manca soprattutto un momento, necessario, per cercare di comprendere che l’arte vera del nostro tempo ci pone delle questioni che dobbiamo cercare in qualche modo di assumere. Rispetto all’arte del passato, l’arte moderna e contemporanea cerca di abbattere quel vetro, caro a certi, che permette allo spettatore di accostarsi ad un’immagine inedita e farla propria perché è fatta della stessa pasta del nostro vivere, permette al passante di vedere e capire meglio un contesto con una nuova opera che scombina un facile ordine. Che piaccia o no, sono i contrasti il certo soggetto del nostro caro tempo, dove il vero ha mille luci ed ombre che non possono e non devono ridursi ad una comoda eleganza.
I Totem
La lettera del signor Gianluigi Parmeggiani non coglie il senso ironico di quello che avevo inteso. Da più parti ci si è espressi per il ritorno delle sculture di Arnaldo Pomodoro in piazza Verdi. Anch’io sono d’accordo e proprio come il signor Parmeggiani le ricordo come integrate nella piazza (così integrate e vissute che erano coperte di scritte e manifesti). Pongo però, da artista, un problema: quelle tre sculture (si chiamano Cilindri o Colonne Pomodoro non è contento quando si chiamano Totem) non sono state progettate per quella piazza. Sono state messe lì, certo con criterio, lo stesso criterio che è stato usato per i container, cioè la scelta congiunta di artisti, architetti, urbanisti e tecnici che si pongono il problema, visto che è la loro professione, di dove collocarle. Credo che qualsiasi opera di arte moderna e contemporanea difficilmente si possa inserire in un contesto antico, pieno fra l’altro e a sua volta, di differenti elementi che solo il tempo ci ha convinto della loro bellezza. La penso proprio come i conservatori, l’arte moderna e contemporanea non c’entra nulla con le nostre piazze, solo che io credo che questo scarto, quello che fa gridare al cittadino medio e ai reazionari “non centra nulla col contesto!” sia un motivo di grande interesse che presenta immagini inedite su altre immagini. I tre Cilindri in bronzo con varie patine, non c’entrano nulla col contesto di piazza Verdi, sia perchè sono delle opere di arte contemporanea, sia perchè sono state fatte senza prendere in considerazione il contesto della piazza. Se tanti sono per il loro ritorno è solo perché le hanno viste lì da tempo (gli anni ’70 sono già Storia) e le percepiscono come parte del paesaggio perchè, volenti o nolenti, hanno partecipato alla Storia della città.
Il monumento al container
C’è un architetto che ha progettato per Piazza Verdi un luogo temporaneo con una delle più versatili e familiari strutture della nostra epoca: il container. Le feroci critiche (non centra nulla col contesto!) fanno parte di un punto di vista che vuole che il contesto rimanga sempre tale. Si considerano però il Crescentone (il suo audace decoro-disegno, ammesso che qualcuno l’abbia mai notato, non c’entra nulla) e le sculture di Arnaldo Pomodoro invece parte del contesto solo perchè le hanno viste per un po’, le hanno digerite. Non so se il giovane architetto, sebbene voglia dare scandalo, ne sia consapevole, ma chi progetta, visto che è il suo mestiere, vuole dare una visione e un significato. E allora se un architetto mette, per qualche mese, una torre di ferro di un colore approvato dai controllori del contesto, nella città delle torri, e si grida allo scandalo, allora bisogna iniziare a chiedersi delle cose. Una storiella, non proprio da buttare e da raccontare ai nipotini, potrebbe essere che questi benedetti containers che stanno negli interporti e nelle periferie (che sono brutte, mentre invece le piazze del centro sono belle) sono proprio il simbolo della globalizzazione e sono quelli che ci portano, come Babbo Natale, tutta la nostra cara merce che ogni giorno desideriamo che ci arrivi al pianerottolo di casa. E’ l’altra faccia della medaglia, insieme, ad esempio, alla condizione di quelli che ci lavorano o al contesto di enormi capannoni fatti per contenere tutti i desideri che arrivano col corriere. Se per una volta, per qualche mese, le cose che stanno nei posti brutti, vengono (riverniciate) nei posti belli, non sembrerebbe un gran scandalo, a meno che non si voglia mettere sempre la polvere sotto il tappeto. O sotto il Crescentone.
Il presente sempre inadeguato
Ho abitato in Via Guerrazzi per quasi trent’anni e il portico dei Servi è un’architettura familiare. Ricordo le strutture in pali di legno grezzo attorno alle colonnine esili, che sembravano puntelli di emergenza anche se rimanevano lì anni e che poi avrei rivisto nelle opere di Kounellis alla Salara nel 1995. E il portico immensamente largo dalla parte di Strada Maggiore, forse il più ampio della città. Ora su questo lato scorre una nuova balaustra in metallo, fatta per proteggere le esili colonne, e forse i ciclisti, dai bus e dalle auto. La vicenda di questa barriera-pista/non pista ciclabile ha avuto un cammino complicato fra regole, misure, vincoli e norme da rispettare. Questi telai di metallo bruno che s’illuminano all’interno di notte, appaiono come accessori minimali, discreti: la loro semplicità formale li affranca da qualsiasi relazione col portico e i suoi archi; è roba di altra epoca, altro materiale, altro disegno. Queste barriere sono state bollate negativamente come oltraggiose, sono state definite maniglie di valigia e brutti blocchi orizzontali che contrastano vistosamente con la verticalità del portico….
I termini usati fanno riferimento ad un pensiero e un punto di vista dove il presente, con le sue cose fatte oggi, è per sua natura sempre impresentabile, come se non fosse mai all’altezza, mentre le cose del passato sempre belle. Il termine le maniglia di valigia, usato come esempio di cosa quotidiana, moderna e quindi banale, oltre ad essere una grande invenzione-progetto (e uno dei punti chiave del design) è un vero e proprio simbolo col quale si potrebbe declinare la storia passata e il nostro presente. Dall’epoca di quelle cucite in pelle a quella del trolley, la maniglia di valigia ci accompagna inesorabilmente e sancisce la distanza fra il modo ricco da quello povero, il mondo delle vacanze da quello dell’emigrare per vivere e per mangiare. È questa l’epoca dei migranti senza valigie – e maniglie –, senza bagagli e senza cartoni (e senza lacci di spago). La maniglia di valigia è una complessa metafora sintomo di modernità e civiltà che semmai non può che arricchire di concetti e immagini una balaustra urbana. Il fatto poi che questa sia brutta e contrasti vistosamente con la verticalità del portico… denota un punto di vista quasi confessionale: se c’è un contesto del passato, un’architettura esistente, è per sua natura un canone da prendere come assoluto riferimento, come legge, come dogma. Nel caso del portico, la sua verticalità sarebbe l’unica chiave di lettura per qualsiasi intervento contemplato nelle vicinanze. Saremmo quindi solo capaci di avere un rapporto di sudditanza e riverenza con le forme precedenti. Questa fila di esili stanghettine di metallo grigio non fanno che aggiungere forse un senso di ordine e di pulizia al ritmo sghembo delle colonne dei portici tutti diversi in quel tratto di strada.
Un nuovo Nettuno
Per il restauro del Gigante ci vogliono ancora 150 mila euro da aggiungere ai quasi 700 mila di inizio lavori perchè il Nettuno, e la sua fontana, hanno problemi seri. Cifra anche contenuta considerando che a Firenze dal 2016 al 2018 spenderanno quasi il doppio per il maquillage di quello in marmo di Piazza della Signoria (meno male che il David di Michelangelo accanto è una copia). Visitando il cantiere del Nettuno bolognese si ha l’impressione, complice il pagamento di un biglietto e l’impalcatura-torre occultata da veli, di essere in una specie di grande teca che cela una reliquia a cui, amorevolmente, tecnici solerti si adoperano con infinite cure. La liturgia che sovrintende la santa pratica ha un intervallo di circa trent’anni, tempo limite – pena danni irriversibili – per la salma di bronzo e la sua fontana in marmi. Il restauro presente – si apprende – è più lungo del previsto perchè quello della fine degli anni Ottanta si è scoperto in parte inefficace: occorrono così nuovi balsami e unguenti. È un’eloquente vicenda, a tinte religiose, tutta italiana che impiega lavoro, analisi, studi e capitali per conservare e consolidare, disperatamente, contro pioggie acide, anidride solforosa, polveri sottili e assalti goliardici – epocale e scandaloso fu il bagno di massa con topless dentro la fontana nella notte Mundial del 1982 – un’idea di perferzione e bellezza. Sull’esempio del David, della statua equestre di Marco Aurelio e dei quattro cavalli di San Marco, si potrebbe invece fare una bella copia del Nettuno per evitare questo rituale dispendioso che continuerà in eterno e che non sarà mai risolutorio. Il monumento originale offrirebbe, poi, un’inedita possibilità: dentro uno specifico padiglione coperto, il complesso potrebbe essere collocato in periferia e comunque fuori dalle mura. Questa operazione avrebbe un’importante implicazione per cui la città acquisterebbe uno nuovo luogo-fondazione con un vecchio simbolo. Due nuove presenze, quindi, la copia nel classico luogo e l’originale in un nuovo centro. Forse non comprendiamo che il nostro impasse è proprio nei nostri simboli del passato che danno false sicurezze, vani appigli troppo comodi che da tempo hanno perso smalto e che oggi vanno ripensati. Si tratterebbe di rompere un incantesimo per rifondare una nuova origine con uno spostamento. Il nuovo padiglione col Nettuno –il prossimo anno saranno 130 anni dall’audace Expo dei Giardini Margherita- diventerebbe un punto differente capace di altre e diverse possibilità con echi internazionali. Resterebbe solo da aprire le danze del lungo dibattito sull’inedito spazio da individuare in periferia o, come si dice, fuoriporta.
L’arte e la fondazione (di Roma)
Un grande palazzo del centro ha aperto le porte della sua collezione con un nuovo allestimento della quadreria antica e moderna. Una classica quadreria di una fondazione bancaria (l’arte nelle fondazioni ha sempre un ruolo) che col possesso di opere forse cerca di alleggerire il suo compito decisamente materiale e disinvolto: i giuochi di luce di tutti i panni e panneggi dei vari personaggi antichi, compresi i santi, servono a supportare spiritualmente le grandi istituzioni della nostra civiltà. Le opere nella sede in una banca oltre a svelare l’indissolubile legame dell’ambiente del denaro e del potere con l’arte, intesa come investimento e celebrazione di un’idea di società e di cultura, sanciscono definitivamente la sconfitta di quest’ultima che non ha per nulla inciso, nonostante l’Italia ne sia piena, sulla storia moderna e contemporanea del Belpaese. Se c’è uno stato nell’Occidente lontano dalla cultura intesa come cura della conoscenza, dell’intelletto e dei saperi e soprattutto del loro riconoscimento cui l’arte mira, questo è proprio il nostro. Messa velocemente fra parentesi la figura dell’artista maledetto, solitario, reietto e scomodo, oggi, come il ieri dei Carracci, l’arte diventa giusto una conferma di potere e magnificenza. L’arte classica poi -quando qualcosa diventa classico diventa assolutamente innocuo- è finita per essere, nonostante i suoi significati originali, giusto un passatempo fra i divani del salotto del Buon Gusto dove si parla sempre del Bello e della Bellezza che un giorno, dopodomani, salverà il mondo. A forza di ammirare la luce dei Caravaggio, dei Guido Reni e dei Guercini che abbaglia perfino i camorristi, siamo diventati un paese con un rapporto problematico e sospettoso quasi di imbarazzo con l’arte del proprio tempo. Le quattrodici scene dei Carracci del fregio della Storie della Fondazione di Roma del grande palazzo bolognese forse ci confermano che nonostante siano tutti capolavori, le opere antiche, non si sa come e nemmeno il perchè, si prestano comunque oramai a supportare e a condurre a una visione ingessata e ferma nel tempo. Il racconto delle gesta e dei miti del passato– che nell’epoca moderna hanno fatto solo danni- narrati da altissima pittura non può che rivelarsi una storia, a volte storiella, comoda, amabile e giusto gradevole a cui siamo abituati da secoli. Solitamente le opere -ora è il momento del Nettuno- sono oscurate e sottratte alla vista del pubblico per il loro restauro. Si potrebbe invece coprire per un periodo, una specie di anno sabbatico, il fregio dei Carracci della sala delle Storie della Fondazione di Roma con una sorta di impalcatura, una struttura provvisoria, una grande fodera con legni che impedisca di farci sedurre dalle nobili gesta di Romolo, Remo, Amulio e Acrone. E che ci faccia comprendere, giusto per un anno, il senso illusorio dell’arte antica del quale il paese è da troppo tempo ammaliato.