La terra dei Bronzi

Milena Becci: poche parole per presentarvi. Cos’è Catartica Care, chi siete e da quando siete attivi nel territorio calabrese? Con quale mission?
Catartica Care: Catartica è un progetto culturale nato nel 2013 a Cataforìo – piccolo borgo della Vallata del Sant’Agata nella provincia reggina – come collettivo informale di musicisti, artisti, storici e critici d’arte. Dal 2016 siamo un’associazione culturale no profit che si pone l’obiettivo di attivare nuove riflessioni tramite i linguaggi artistici contemporanei per stimolare una conoscenza attiva su varie sfaccettature, sociali e culturali, in primis legate al territorio d’appartenenza. La nostra base operativa rimane Cataforìo, riuscendo a coinvolgere gli abitanti del borgo che ci aprono sempre molto volentieri le case e gli spazi ormai abbandonati (effetto della classica spopolazione che colpisce soprattutto i paesini) per realizzare mostre, workshop, incontri e proiezioni; ma non ci poniamo confini d’azione territoriali.

Milena Becci: Panorama è il titolo del wall painting che sarà oggi presentato al pubblico di Reggio Calabria. Vuoi raccontarci a quale fatto è ispirato e qual è stata la tua esperienza personale a riguardo?
Flavio Favelli: Mia madre mi portò a vederli a Firenze nel 1981 e sui francobolli sono fra i pochi dittici, cioè due pezzi diversi uniti fra loro che ne fanno una coppia che forse ben rappresenta una specie di equilibrio, sono due santi inediti, caso più unico che raro di antichità diventata realtà. Forse nessuna città vanta questo uso così intenso su delle opere d’arte (non a caso qualche anno fa è uscito proprio un libro sulla questione che però ha il limite di ospitare testi che alla fine non vanno in fondo alla faccenda). Il fenomeno dei Bronzi è fondamentale per capire la Calabria e il Meridione e quindi è compito dell’artista operare, in ambito pubblico, sulle questioni complicate. Anche se li avrei lasciati in fondo al mare.

Milena Becci: Questo non è il primo murale che realizzi in Calabria. Cosa ti attrae di questo territorio e cosa, a tuo parere, è cambiato in ambito culturale dopo la scoperta dei Bronzi? Siamo rimasti nel dubbio espresso dal giornalista negli anni Ottanta, indeciso nel considerare le code fuori dai Musei sintomo di un risveglio culturale o di un divismo analfabeta?
Flavio Favelli: La Calabria è un fermo immagine, a volte raffinato a volte selvatico, che partecipa, non saprei in fondo perché (insieme alla Sicilia e non alle Puglie ad esempio) al mio immaginario personale. Fa parte del Viaggio in Italia che mi fece fare mia madre quando ero bambino e siccome si rivelò un’esperienza ambigua, come lo è l’idea di turismo e di viaggio anche colto, l’ambiguità genera sempre riflessioni profonde. Non so se sia cambiato qualcosa, ma il lavorare e vivere in qualche modo dei momenti in questo territorio ai confini dell’Europa per me è ricostituente. Alla fine non so se la scoperta dei Bronzi sia stata positiva, ho forti dubbi, forse non ci voleva proprio scoprire due belli come dei.

Intervista pubblicata su Exibart il 22 novembre 2019.

L’arte giovane

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Si è parlato recentemente di un fondo a sostegno dell’arte contemporanea attraverso il quale il Comune di Bologna acquisterà opere di giovani talenti da destinare al MAMbo. In questi anni le opportunità per i giovani nell’arte non si contano, del resto i concorsi e premi sono quasi solo per under 35. Ma c’è un vizio di fondo: se i giovani vanno aiutati è perché si pensa che i meno giovani ce la possano fare e se nel mondo del lavoro può essere vero (ma uno dei grandi problemi oggi è la collocazione gli over 50), nell’arte non si può ragionare in questo modo. I non giovani sarebbero così quelli che vendono, come se il corso naturale del fare arte e il suo scopo fosse vendere con una galleria ed avere un mercato (certo è la realtà, ma perché poi tutti si lamentano oggi della commistione fa arte e mercato?) e quindi si dà per scontato che siano arrivati, cioè che solo il mercato sia il fine dell’arte, per cui una volta raggiunto, siano tutti appagati. Un altro vizio è quello dell’idea di profitto: i giovani sono un investimento; se questo ragionamento può tenere per il collezionismo (che non è mai mecenatismo e a cui piace la scommessa) per l’ente pubblico suona male anche perché il soggetto dovrebbe essere solo l’opera dell’artista e non un ragionamento sull’età che in sostanza ricalca il pensiero imprenditoriale. Se invece il motivo fosse la novità, cioè il giovane ha idee più nuove, come nel mondo del lavoro, questo non ha nessun riscontro nell’arte. La produzione dell’artista non ha regole e non può essere presa in considerazione rispetto all’età. In Italia vivere di arte non è semplice considerando che non c’è nessuna agevolazione nel Paese dell’Arte dove, fra l’altro, tutta la politica ad ogni inaugurazione dichiara sempre che l’arte è la linfa e il simbolo del paese. Se le gallerie, i collezionisti, molti artisti e il sistema pensano al mercato, l’istituzione diventa l’unica isola di salvezza di una situazione che in fondo tutti, almeno a parole, detestano. Sostenere solo i giovani è un procedimento del tutto simile al processo di investimento e di capitalizzazione tipico dell’impresa, ma che non può essere applicato all’arte.

Popolo e rusco

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

A Savigno, recentemente, sono stati sostituiti i nuovi cassonetti per la raccolta differenziata della plastica. Rispetto a quelli di Cosea, i nuovi di Hera non si aprono a pedale, ma hanno due bocche fisse, ognuna poco più grande di un foglio protocollo. Questo nuovo modello obbliga a mettere solo un pezzo di plastica alla volta, presupponendo una popolazione gaia e spensierata che nella giornata non ha un tubo (di che materiale?) da fare se non quello di inserire con attenzione e precisione magari una dozzina di bottiglie, qualche flacone, un po’ di recipienti, una pila di vaschette, una manciata di barattoli, rigorosamente pezzo per pezzo (e nemmeno lasciando cadere, ma pure spingendo per superare le strisce di gomma frangivento ed antipioggia). Operazione che prima si risolveva con un unico gesto: mentre il piede spingeva il pedale, un apriti sesamo inappuntabile, si buttava con grande sollievo, in men che non si dica, un solo sacco pieno di plastiche attentamente raccolte in settimana. Considerando che la spesa della tassa sui rifiuti, il tempo per separare i diversi materiali e il loro (ri)confezionamento per poi portarli nei gran bidoni finali, sono dei doveri privi di ogni interesse e piacere, il passare da un gesto liberatorio ad uno lungo (e se piove?) noioso, disagevole e scomodo compito (il barattolo ha sempre qualche goccia di gelato, il flacone di detersivo, la bottiglia di succo di frutta che nel trasporto si versano l’un l’altro in una miscellanea di colori e viscosità), comporterà sicuramente un grande e gravoso impegno. I cartelli informativi sono chiari, uno in alto e uno in basso, con due icone tanto morandiane quanto globali, che rappresentano il flacone universale e la bottiglia di plastica e indicano che solo quei due formati vanno inseriti nelle bocche così suggerendo che tutti gli altri tipi andranno nell’indifferenziata. Ma i savignesi, forse scarsi di usta, non l’hanno compreso, poichè giacciono da giorni molti sacchi pieni di plastica varia, buttati là, proprio davanti ai nuovi cassonetti gialli.