L’epopea della famiglia Favelli. Una conversazione

Gli piace pensare a progetti che nascano dal suo immaginario personale. Gli dicono che è malinconico, ma lui ha bisogno di partire da lì: il rapporto con suo padre, con la madre. Se gli chiedi quale artista ha fatto parte della sua formazione ti dice mio padre che si sentiva un artista, “perché l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.” E poi c’è il nonno. È lui che collezionava i francobolli e quando Flavio era un nipotino, tutti facevano la collezione di francobolli. Se vendevi quelli giusti, erano molti soldi, era un grande investimento. Suo nonno ci restaurò il palazzo di famiglia, dopo che una bomba lo scavò in due parti senza esplodere, e adesso i francobolli invenduti li ha tutti Flavio anche se non gli piace collezionare. Serie Imperiale nasce proprio da qui, si tratta di francobolli emessi durante il Regno d’Italia in uso fino al 1946 con il volto di Vittorio Emanuele III e la scritta 50 cent. sopra. Su uno dei due lavori esposti in mostra, a sfregiare il ritratto campeggia la scritta Zara, quasi come una cancellatura. Queste sovrastampe sancivano il cambio di Stato di appartenenza del francobollo e in questo caso l’occupazione tedesca di Zara nel 1943. La gigantografia muraria in una stanza della Casa del Popolo di Bazzano ricorda proprio la storia di questo francobollo: l’esistenza di uno Stato Italiano, delle sue Poste e il presagio di una lenta mortificazione politica sancito da un timbro di occupazione. Più guardo questo lavoro e più penso al marchio di abbigliamento spagnolo Inditex, Zara sembra ora manifestare la sua supremazia usando la modalità di censura dei writers. Nei lavori di Flavio sono immancabili le associazioni di idee, i riferimenti storici e le connessioni contemporanee di una cultura delle immagini in perenne movimento; associazioni che generano spunti, si accendono in testa come i neon di diversi colori nella casa della madre di Flavio, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Una casa-museo-cimelio dove non ci vive più nessuno, non ci sono mobili né oggetti e le pareti sono quasi spoglie, ad eccezione anche qui delle gigantografie murali di Flavio, una per stanza. Non si tratta di francobolli, ma ricordi di carta trovati per casa, come la pubblicità dello spumantino “Top”, il codice fiscale della madre di Flavio e un suo biglietto aereo. E poi ancora la confezione di Tavor con il triangolino rosso anni ’90 e una banconota da un pound della Repubblica del Biafra. Lavori di questo tipo rivelano il potenziale di un’archiviazione visiva che nasce dal biografico per toccare le vite private di alcuni di noi, stabilendo un rapporto inaspettato tra il fruitore e l’immagine: la riproduzione ingrandita dei dettagli grafici smorza l’intimità di appartenenza del ricordo, sottolineando invece la testimonianza culturale che alcuni dettagli rivelano. Flavio ci porta a ragionare su simboli, su rappresentazioni, indaga la storia dei paesi a partire dal suo, prendendo in prestito dall’arte pop la sua sfacciata manifestazione iconica: l’immagine c’è, c’è, c’è, c’è ed è grande così. Ad eccezione dei golfi partenopei che rivestono le sale di alcune pizzerie, commissionare murales interni non è però oggi una pratica così usuale, soprattutto per un collezionista: se cambio casa, dove la metto? L’essere nomadi e precari, non poter più marchiare un luogo con la ricchezza di famiglia – ormai sperperata – è una lenta consapevolezza sociale e per l’arte di Flavio non è un problema: alimentata da contraddizioni e conflitti, la sua pratica non si interessa di salvaguardare i luoghi dei suoi interventi. Per lui è importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione. È per questo che in Serie Imperiale ha ingaggiato un restauratore ancora prima di iniziare il murales; a chiusura della mostra, lo strappo come operazione concettuale sancirà il passaggio dal muro alla tela, conservando sì il dipinto e il suo significato, ma anche quei calcinacci che verranno via insieme alla loro storia, la casa del Popolo o la Coop dismessa sono il luogo della politica e del mercato: due spazi che contraddistinguono la società occidentale, dove le persone – ora pubblico – rivestono un ruolo principale.

In una recente intervista pubblicata sul tuo sito affermi che “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra tu non abbia una buona considerazione del pubblico, sostieni anzi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”? 

Il pubblico è una convenzione: ci deve essere, ma è come se non ci sia. In tutte le foto delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai le persone; considero il pubblico come gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e ho imparato presto a conoscere quanto possa essere ignorante. Non ho una grande considerazione di loro. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status. Quando penso a un luogo lo penso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte credo sia lontana da queste cose.

Ma agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario. Dove e cosa è l’arte per te?

L’arte è preziosa, perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario. È il luogo della legittimazione dell’alterità, una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Quando i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata, presupponendo che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male.

Quindi che ruolo deve avere l’artista oggi?

Deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere di arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere, ma non c’è niente da fare. L’artista deve porre delle questioni complicate, deve essere la fonte principale per la sua opera ed è necessario che il suo punto di vista sia ancora importante. Nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti, dovrebbero essere gli unici a eseguire prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella nostra società che davanti alla tela, al pavimento o al muro pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing o di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti.

A Flavio il collezionismo non va giù. Vede il collezionista come un playboy con le donne, che vuole stare con tutte ma non sta con nessuna. Dice che menomale che i suoi lavori non hanno un prezzo di mercato così alto; si sentirebbe in difficoltà se una sua opera venisse venduta a cifre spropositate, inadatte a giustificare un’esistenza di lavoro ma capaci di sfociare in una condizione di ricchezza per la ricchezza. Il sistema dell’arte che ripone il suo acme nelle fiere, livella l’impatto percettivo di ogni lavoro e del suo artista. Abbassa gli istinti di fascino verso quello slancio passionale del volere tutto a tutti i costi oppure lo amplifica a tal punto da rendere l’esperienza di fiera unica e irripetibile, proprio perché si pensa di poter avere tutto a tutti i costi. Opere diverse su pareti di cartongesso omologate quindi per l’occasione, fino a che non arriva Univers una sorta di Temporary Store in Fondamenta Sant’Anna: Flavio durante la 57esima edizione della Biennale di Venezia ha messo in vendita opere d’arte per un prezzo fisso di venti euro: un manifesto contro il collezionismo o per incentivarlo? La sua più grande delusione è stata quando gli acquirenti gli chiedevano l’autentica o pretendevano di acquistare più di un oggetto, mentre le regole del negozio vietavano entrambe le cose. L’artista crea un’opera d’arte a partire da un conflitto, senza conflitto non c’è arte, mi dice Flavio. E quando il prodotto di un conflitto viene acquistato in tirature di multipli a prezzi spropositati, vantando sempre la stessa firma, la guerra è finita e probabilmente è stata vinta dal capitalismo finanziario, che aspira a godere della musica classica, ma indossa Zara e canticchia J-Ax.

Conversazione pubblicata su Arte e Critica, numero estivo, 2018

Dialogo con Flavia Montecchi

Flavia Montecchi
Che fine fanno i luoghi della tua arte una volta terminata la mostra?

Flavio Favelli
Non so e non ci penso. Alla fine credo sia importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione e il suo significato. Sicuramente i luoghi che scelgo sono importanti per molti motivi, sempre comunque motivi poetici.

FM
In una recente intervista pubblicata sul tuo sito, affermi che: “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra che non hai una buona considerazione del pubblico, affermi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”?

FF
Il pubblico è una convenzione. Ci deve essere, ma è come che non ci sia. Un po’ come quando da bambino giocavo dall’altra parte della casa, era importante che ci fosse mia madre, ma non doveva poi rompere le scatole. In tutte le foto di documentazione delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai delle persone e questo vorrà dire qualcosa. Il pubblico, poi, oggi è la gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e va coi profumi di gran marca. Solo vivendo da quasi vent’anni in un paesino dell’Appenino ho capito la profonda ignoranza e idiozia della gente. Non ho una grande considerazione del pubblico. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status e poi quando penso ad un luogo lopenso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte è lontana da queste cose.

FM
Sempre mantenendo il tema del rapporto tra pubblico e artista, rivendichi in varie occasioni la presenza dell’artista contemporaneo e la sua chiamata in causa in manifestazioni di carattere culturale, che prendono spunto dall’arte senza però poi effettivamente coinvolgere gli artisti (la passata edizione del Festival di Filosofia, come citi tu stesso).
Indipendentemente dalla contraddizione che noto (vedi la domanda precedente), secondo te perché non si interroga l’artista?

FF
Distinguerei comunque il mondo dell’arte oramai assuefatto dalle mostre e dalle fiere ed eccitato solo dalle aste, dalle preview e dagli aneddoti e curiosità sugli artisti e un pubblico che partecipa a dibattiti e conferenze con interesse. Nell’esempio che ho fatto ho notato che si è invitato un imprenditore (di idee conservatrici sull’arte) e non un artista perché si dà per scontato che l’artista possa parlare solo con le sue opere. Nelle conferenze e dibattiti – quei pochi che ci sono – c’è sempre un moderatore che appunto modera l’artista che a sua volta parla come un curatore noioso: gli artisti oggi blaterano qualcosa fra l’apocalittico e il rivoluzionario, ma poi lavorano programmati e precisi per rifornire le gallerie che fanno una dozzina di fiere l’anno e questo non può non incidere su una categoria che è diventata solo imprenditoriale. Quindi un po’ è colpa degli artisti, un po’ della società della cultura che è interessata all’artista solo quando è un maestro. Poi tutti a citare Pasolini (saranno almeno una ventina gli artisti che hanno fatto opere su PPP) dimenticando che allora si criticava e litigava a viso aperto mentre oggi più dei sorrisi tirati dei vernissage non si va…
Non dovrebbe, il suo lavoro, essere già esplicito se inserito in un contesto espositivo selezionato e attento, con una direzione artistica di referenti reali? Mi spiego: nel caso del festival della Filosofia, mancava forse una direzione artistica nella selezione e organizzazione delle mostre temporanee. O no?

FF
L’artista pone delle questioni complicate e deve essere la fonte principale per la sua opera; il suo punto di vista deve essere ancora importante: nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti dovrebbero essere gli unici che eseguono prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella società di oggi che davanti alla tela, al pavimento o al muro, pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing, senza la preoccupazione di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti. Il frullatore degli eventi nell’arte travolge tutto e all’artista deve essere data la possibilità di discutere e parlare del suo punto di vista che non può essere completamente sostituita da quello della direzione artistica. La situazione è comica: da più parti si evoca il ritorno dell’artista-scienziato del passato e dall’altra si fa partecipare l’artista solo alla mostre. (Voglio ricordare una specie di ritornello che spessissimo viene pronunciato da artisti, critici e vari professori quando qualcuno sottolinea il fortissimo potere del mercato che travolge ogni cosa nell’arte: l’arte – la sentenza inizia sempre così – è sempre stata in mezzo alla moneta e al mercato, leggete le lettere dei grandi del passato, parlano sempre di soldi… (il famoso Libro dei Conti del Guercino). E’ ovvio che questa è una grande sciocchezza, in quale campo ci comportiamo come se vivessimo nel 1600? Questi si sentono moderni, ma vogliono gli usi e costumi dei tempi del passato. Il critico (e ovviamente il curatore) è il garante che certifica che l’opera è d’arte ed è colui che la colloca in una tradizione di storia dell’arte, ma questo non può essere l’unico punto di vista sull’opera.

FM
Queste domande – e quelle che ti ho posto durante il nostro incontro – evidenziano come il tuo fare arte sia ricco di contraddizioni, istanza per me molto stimolante e sinonimo di movimento.
Sei con il pubblico e in mezzo al pubblico, ma ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario – per certi versi. Agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Che tipo di artista ti definisci? Ma soprattutto, quando hai cominciato a chiamarti e o a giudicarti “artista”? Parlami del ruolo che ha per te questo nome, consapevole del fatto che non leghi l’arte alla politica.

FF
Beh non è vero che non lo lego alla politica. Non lo lego ad un significato politico preciso, ma la questione politica è ampia con grandi confini. E’ più politico Santiago Sierra o Giorgio Morandi? Solo un pubblico poco attento e superficiale può dire con certezza il primo. L’arte è preziosa perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario, è il luogo della legittimazione dell’alterità, è una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Se i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata e così presuppongono che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male. Il mio progetto Gli Angeli degli Eroi riassume il mio punto di vista. Da un’immagine di mio nonno militare, dalla mia attrazione per le divise – che tengo a distanza – indago il mondo della guerra che ioncontro l’immaginario dello Stato e del Presidente della Repubblica: l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.

FM
Che ruolo deve avere l’artista oggi?

FF
Beh deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere sull’arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere. Niente da fare non lo danno. Ecco che ruolo deve avere quello che non gli permettono di essere.

FM
C’è un artista con cui sei cresciuto e che ti senti abbia fatto parte della tua formazione?

FF
Mio padre per il fatto che si sentiva artista, si sentiva un poeta. Ma poi, come si dice, ha perso la testa, ammesso che gli artisti non la debbano perdere. Dico questo perchè voglio sempre riportare tutto alla mia famiglia, alla mia storia privata che sono le mie immagini e che sono le immagini del mio tempo, perchè l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.

Versus. Il dibattito tra partecipazione e introspezione

Riparte la rubrica Versus con un nuovo ciclo di doppie interviste ai protagonisti del contemporaneo in Italia. La prima sfida vede contrapposti Marinella Senatore e Flavio Favelli: da un lato il tentativo di orchestrare processi creativi collettivi, dall’altro un approccio fondato sul ricordo e sull’autobiografia.

A proposito dell’opera di Marinella Senatore, Hou Hanru (in Marinella Senatore. The School of Narrative Dance Roma, Nero Publishing, 2016) ha scritto che: “È un progetto in divenire che punta all’impegno sociale attraverso le azioni artistiche e il cui nucleo è la partecipazione”. Flavio Favelli invece, in un’intervista rilasciata ad Antonio Grulli e pubblicata su Flash Art nel 2012, dichiarava: “Nell’arte – mi sa più che nella vita – si è soli. Non c’è nessuna parte da tenere se non fare i conti con se stessi”. Due artisti con idee e concezioni opposte: nello spirito di Versus, lo scontro e la discussione sono pretesti per conoscersi meglio e cercare punti di contatto.

Vincenzo Merola: Partiamo da una questione fondamentale. Entro quali limiti è possibile (se ritenete sia effettivamente possibile) la condivisione delle esperienze creative? Il pubblico dovrebbe affacciarsi rispettoso sulla sfera intima e privata dell’artista, oppure avere un ruolo attivo nella costruzione dei significati?

Marinella Senatore: Ovviamente la mia pratica testimonia non solo che la condivisione dell’esperienza creativa è possibile, ma soprattutto che per alcuni artisti non è interessante l’aspetto solitario della ricerca, bensì la condivisione dei processi e delle esperienze. Ciò non significa annullamento della propria personalità e delle proprie idee; penso piuttosto a un sistema analogo a quello dell’orchestra, in cui tutti suonano lo stesso pezzo, ma con una partitura differente e con il timbro peculiare di ogni strumento. Non si tratta di ridimensionare la creatività o il pensiero dell’artista, ma di esaltare competenze e desideri nella pluralità. Per quanto mi riguarda, poi, non ritengo minimamente interessante che ci sia una gerarchia da osservare o una particolare forma di rispetto verso una persona che accende e istiga un processo di tipo creativo. È proprio il contrario: l’artista ha un ruolo nella società al pari di qualunque altro essere umano e ci sono tante dimensioni in cui il lavoro artistico può generarsi e svilupparsi.

Flavio Favelli: Penso che l’arte sia elitaria per sua natura. D’altra parte l’opera comunque fluttua e attraversa, anche se è stata pensata in solitudine e senza nessuna preoccupazione riguardo ad un ruolo attivo. Nessun artista vive in una torre d’avorio e così le immagini in qualche modo rilasciano significati multipli e inediti che si posano nei fiori più aperti; l’opera d’arte è condivisa e attiva per sua essenza, così come l’artista consapevole partecipa al suo tempo. Il pubblico è una faccenda mentale, in realtà non esiste o forse sarebbe meglio che non esistesse.

V.M.: Meglio lavorare con le persone o con gli oggetti? Qual è la materia prima ideale per un artista? Cosa accade quando l’uomo diventa insieme destinatario e significante dell’opera?

Marinella Senatore: Credo che individuare negli esseri umani la materia prima di un intervento artistico non sia esattamente congeniale a quello che si intende come arte partecipativa o socially engaged, perché sostituire una materia con un’altra prevede comunque un ruolo dominante e implica un mero utilizzo da parte dell’artista, e trattandosi di persone può essere pericoloso e fuorviante. Nei progetti partecipativi e corali che mi interessano, i linguaggi credo che siano la vera materia prima.

Flavio Favelli: Credo che l’artista lavori con le immagini e credo anche che sia una questione di esigenza e di fine. Posso dire, al di là di nobili propositi, che il vero motore per me è un’eccitazione che sta fra il piacere e lo smarrimento, la soddisfazione di risolvere un’immagine e la profonda estasi di comprenderne il nuovo significato. Tutto ciò può essere visto come semplice egocentrismo, ma la realtà è diversa. Ad esempio un mio progetto sul mondo militare, nato da immagini irrisolte di mio nonno e senza avere intenti di condivisione, è stato omaggiato dal Presidente della Repubblica perché per lo Stato e i familiari delle vittime è stato capace di rappresentare tutti i militari caduti. Senza prescrizioni e scopi precisi, l’opera va da sé.

V.M.: Trovo molto interessante la scelta delle parole nelle vostre risposte: linguaggi e immagini. Più che materie prime, almeno semilavorati. Non pura forma, ma segno completo. Vorrei approfondire il discorso relativo alla genesi dell’opera. Chiederei a Flavio se si sente artefice, se riconosce pienamente il suo ruolo di autore o preferisce quello più sfumato di mediatore, in un processo continuo di rielaborazione delle immagini. Invece mi piacerebbe analizzare con Marinella, che rifiuta un’impostazione gerarchica e modelli calati dall’alto, le strategie da lei adottate affinché i partecipanti ai suoi progetti percepiscano la sua figura come quella di un semplice “attivatore di energie”, senza avvertire pressioni o limitazioni.

Flavio Favelli: Sento e credo che quello che ho vissuto nel mio passato, una storia familiare non facile, e la mia reazione a questo, oltre a occupare ancora la mia mente, sia un qualcosa di generativo. E anche paradigmatico della storia italiana negli anni ‘70 e ‘80. Considerando che questa storia è globale, perché l’Italia è sempre stato un paese globale, allora le nuove immagini e situazioni che compongo e ricompongo da questo mio pantheon creano differenti possibilità. Interpreto una parte, che oltre ad essere la mia, appartiene ad un ruolo che è quello dell’artista che fa sì che, ad esempio, ciò che è biografico diventi in qualche modo pubblico. Sta al pubblico poi comprenderlo. La funzione dell’opera, ammesso che ne abbia o ne debba avere una, è quella, semmai, di accendere qualche scintilla.

Marinella Senatore: Il mio rapporto con i partecipanti è innanzitutto basato su una relazione vera, su una condivisione di tempi e di spazi molto diversa da quella meccanica dell’arte relazionale storicamente da noi conosciuta. Credo che questa sia già una differenza abissale: conoscere e vivere per un tempo, anche relativamente lungo, con le persone con cui collaborerai è sostanziale. Io costruisco piattaforme dove non mi sento meno autore in quanto poi la creatività è condivisa con altri, anzi! Nel mio essere attivatore tutta la mia energia ed autorialità si esprimono al massimo. È un processo molto naturale, forzarlo porterebbe a risultati dannosi e deludenti. Non credo che opere la cui genesi è quasi opposta parlino esclusivamente ai propri autori, basti pensare alla storia dell’arte! Le nostre piattaforme sono davvero aperte e c’è la possibilità di “sbagliare”. Il mio ruolo è quello di entrare e di uscire anche come partecipante e di essere estremamente flessibile.

V.M.: In definitiva, al di là del gioco degli opposti, sappiamo bene che la ricerca della solitudine e il bisogno di socializzare sono componenti irrinunciabili nell’ambito creativo come nella vita quotidiana. Vorrei concludere questa chiacchierata parlando di emozioni e di sentimenti, lasciando da parte ogni intellettualismo. In quali circostanze cercate il contatto umano e cosa vi spinge invece ad allontanarvi da tutti? A prescindere dalla pratica artistica, vi considerate persone riservate o espansive?

Flavio Favelli: Credo che la mia scelta, diciamo autobiografica, sia per tentare di portare il dentro, fuori. E quindi la mia ricerca è intrecciata da una questione privata e intima che ha delle distanze con l’intellettualismo perché parte da questioni sentite. Ritorno sull’opera Gli Angeli degli Eroi: mettere insieme il fascino marziale dei sacrari, la bellezza delle uniformi e la presa di distanza da un mondo reazionario di cui, nonostante le belle parole, siamo complici da sempre, proviene da un sentire ambiguo, per nulla idealista, che considera l’arte su un differente piano da quello delle scelte civiche e politiche. L’arte non è giusta o sbagliata, proprio come la nostra anima. Per risponderti: sono espansivo solo se parlo della mia riservatezza.

Marinella Senatore: Credo di essere una persona molto espansiva o quantomeno una persona che ha bisogno di condividere la propria energia. Non mancano i momenti in cui ho bisogno anch’io di fare un percorso più solitario, anzi direi che capita sempre dopo un’esperienza di tipo collettivo. A volte riesco a lavorare con migliaia di persone cercando di costruire nei mesi una reale vicinanza o quantomeno uno scambio ed è quasi un’urgenza poi aver bisogno di rientrare in una propria intimità. in questa fase lavoro molto per esempio col disegno, che è quasi terapeutico perché mi aiuta ad elaborare una quantità infinita di cose, o mi capita di scrivere. Dunque credo che in realtà la ricerca dell’isolamento e la necessità della socializzazione dell’esperimento creativo collettivo siano facce della stessa medaglia.

Conversazione pubblicata su Artribune il 14 gennaio 2018.

Fami male

Neve Mazzoleni: Hai una capacità rara nel cercare, soffermarti sul dettaglio dimenticato, raccogliendolo e riattivando intorno ad esso un significato e una storia spesso a sfondo personale, comunque profondamente umana. Cosa ti ha portato alla Stazione Marittima di Messina?

Flavio Favelli: In estate vado spesso in Calabria, ma non per andare al mare, per andare in bassi Itaglia come si dice in Emilia. L’anno scorso ero a Reggio Calabria, sullo stretto, uno dei pochi luoghi che sento esotico, un po’ come andare a Baghdad. Sono andato per vedere e vivere certi contrasti, certi paesaggi poco ortodossi, certe insegne di negozi, certi incarti di pasticceria… ma soprattutto per tutte le cose abbandonate, rotte, sbragate, cadenti con le loro macerie, come certi palazzi delle città vecchie insieme a quel poco di natura che riesce a crescerci dentro che crea una magnificenza semi artificiale. Amo la desolazione, quel degrado a tinte nobili che trovo solo nel Meridione. Sono visioni di un passato consunto, quelle che il Nord non si può più permettere, situazioni sconcertanti, una parte di mondo sfasciato che permette spettacoli sublimi, fra il pittoresco e l’orrido, il catastrofico e l’apocalittico, perché l’apocalisse è bellissima quando si è solo spettatori. Una mattina ho preso l’aliscafo e sono andato a prendere un caffè a Messina. Sono stato colpito dalla stazione di Messina Marittima: una bellissima architettura fascista semideserta a pochi metri da Messina Centrale. L’edificio è ad arco con un enorme muro in travertino con un camminamento sopraelevato che attraversa i binari. Sembrava un quadro metafisico con la parete avorio altissima. Anche se c’era rumore – traghetti, treni, auto, annunci lontani – c’era un silenzio di fondo. Ho visto, ritmate, delle scritte esili a matita blu, dei versi gracili che si svolgevano lungo il muro.

NM. In un luogo solitario, immobile rispetto al flusso del presente, intercetti una scritta ripetuta, fragile, diversa da un marchio, unica. Perché ti è piaciuta?

FF. Prima per il suo ordine, il suo aspetto formale composto, leggero, appena percettibile e poi il significato, sconcio, sguaiato e sensuale allo stesso momento. Oltre alla sua dolcezza: so baciare… so fare l’amore, fami male. La cultura dominante la bollerebbe come volgare e scurrile. La volgarità è un abisso complesso da cui si tengono alla larga solo gli stolti e gli ignoranti oltre a quelli che aspirano alla santità e ai seguaci del sacro. Sono 11 stazioni di una via crucis misterica dove si intrecciano talmente tanti termini, molti inventati, che solo a pronunciarli evocano immagini molteplici… assomiglia ad una nenia che inizia sempre allo stesso modo – cerco – una specie di rito – preghiera nella speranza di trovare un giovinetto rigorosamente di 20-19 anni.

NM. Come arriva nella tua pratica?

FF. La mia pratica coincide con tutto ciò che mi piace e tutto quello che piace ad un artista è per sua natura articolato, complesso e ambiguo. Mi piacciono le scritte, i termini sboccati e quelle che il costume chiama le cose spinte, perché se non si spinge si sta fermi. Forse peccato solo che quel giorno non fosse sabato.

NM. Una forma di epigrafia contemporanea, legata al tuo bagaglio di storico, dove ti sei preso la briga di catturare la scritta dal travertino e studiarla. Da lì hai fantasticato su chi possa esserne l’autore.

FF. Leggendo questa via crucis avvengono tante cose: immagini, pulsioni, processi onomatopeici, ricordi. Parole masticate, sbocconcellate, impastate da stati tanto poveri e grezzi quanto ebbri e dionisiaci. Un beracazo: un bel ragazzo o un bel cazzo? Sofre lamore: so fare l’amore o soffre l’amore? So baciare: già, so baciare? È molto probabilmente una persona di sesso maschile o multiplo o forse è solo una persona di sesso e basta che cerca beracazi. Faceva caldissimo con una luce abbagliante. Von Gloeden non fotografava i ragazzi da queste parti a Taormina che è poco più giù?

NM. Tu dici “Amo la desolazione, quel degrado a tinte nobili che trovo solo nel Meridione”. Contrasti e stratificazioni. La malinconia gioca un ruolo nella tua ricerca.

FF. Fra Scilla e Cariddi in uno dei luoghi più densi del pianeta dove si intreccia non la nostra storia, ma la storia del mondo su un bellissimo edificio fatto dal fascismo ma lercio e offeso da tag indifferenziate, quasi abbandonato, in una desolazione assordante e un degrado concreto, ho trovato questi messaggi intensi e letterari. Tutto ciò, visto il contesto, il clima e gli odori – non c’è quello di zagara, ma ancora quello della ferrovia con le traversine ancora vergini dalla TAV – è commovente, è tragico nel senso di sublime. È una grande opera complessa.

NM. Mi hai raccontato dei tuoi viaggi da bambino, abitudine che non hai perso.

FF. Ho ancora una bellissima foto di quando ero bambino avrò avuto 7 anni con un arancino (o arancina) e una bottiglietta in vetro di Chinotto Levissima sul traghetto sullo Stretto. Mi ricordo questi viaggi con mia madre; a volte penso che mia madre al di là per la passione del Bello e dell’Arte, mi abbia – a volte forzatamente – portato a fare viaggi perché alcune cose bisognava vederle e viverle, come una specie di compito. E il Meridione andava visto, si doveva vivere il più possibile perché era la Bellezza vera, senza mediazioni.

NM. Perché portare questo intervento proprio in The Open Box?

FF. È da quando ho visto queste scritte, che voglio in qualche modo presentarle; questa è stata l’occasione. Delle 11 stazioni ne ricopierò tre sui tre muri di The Open Box.

***

Neve Mazzoleni: You have a rare capacity for seeking out and lingering over the forgotten detail, treasuring it and reactivating around it a meaning and a story often with a personal and in any case profoundly human background. What took you to the Stazione Marittima in Messina?

Flavio Favelli: I often go to Calabria in the summer, not for the seaside, but to go to bassi Itaglia as Southern Italy is somewhat vulgarly known in Emilia. Last year I was in Reggio Calabria, on the strait, one of the few places I feel to be exotic, a bit like going to Baghdad. I went to see and to experience certain contrasts, certain somewhat unorthodox landscapes, certain shop signs, certain pasticceria wrappings… but above all for all the abandoned, broken, ragged things, crumbling into ruins like certain buildings in the old towns together with what little that is natural that manages to grow in them to create a semi-artificial magnificence. I love the desolation, that noble decadence I only find in the South. These are visions of a threadbare past, those which the North can no longer afford, bewildering situations, a broken part of the world that permits sublime spectacles, ranging from the picturesque to the horrible, the catastrophic and the apocalyptic, because the apocalypse is beautiful when you are just spectators. One morning I took the hydrofoil and went for a coffee in Messina. I was struck by the Messina Marittima station: beautiful, semi-deserted Fascist architecture just metres from Messina Centrale. The building is arched with an enormous wall in travertine featuring a high-level walkway crossing the tracks. It looked like a metaphysical painting with that soaring ivory wall. Even though there was noise – ferries, trains, cars, distant announcements – there was an underlying silence. I saw thin, rhythmic writings in blue crayon, graceful verse running along the wall.

NM. In a solitary place, immobile with respect to the flow of the present, you intercepted a repeated, fragile script, different from a mark, unique. Why did you like it?

FF. Firstly for its order, its composed, light, barely perceptible formal aspect and then for its meaning, dirty, vulgar and sensual all at the same time. As well as for its sweetness: so baciare… so fare l’amore, fami male (“I know how to kiss… how to make love, hurt me”). The dominant culture would label it as tasteless and smutty. Vulgarity is a complex abyss ignored only by the stupid and the ignorant along with those who aspire to sanctity and the followers of the sacred. There are 11 stations on a mystic via crucis in which so many terms are entwined, many of them invented, they need to be pronounced to evoke multiple images… It is like a lullaby that always begins in the same way – I’m looking for it – a kind of ritual-cum-prayer in the hope of finding a young man of no more than 19-20 years old.

NM. How did it arrive in your practice?

FF. My practice coincides with everything I like and everything an artist likes is by its very nature articulated, complex and ambiguous. I like the writings, the filthy terms and those that public decency would see as hard core, because if you don’t push you stand still. Perhaps it’s just a shame that that day wasn’t a Saturday.

NM. A form of contemporary epigraphy, tied up with your historian’s baggage, in which you have taken the trouble to physically capture the script on the travertine and study it. From there you’ve pondered on whom the author may be.

FF. Reading this via crucis provokes many things: images, pulses, onomatopoeic processes, memories. Chewed up, mangled words, kneaded by states as poor and rough as they are inebriated and Dionysiac. A beracazo: a “bel ragazzo” or “beautiful boy” or a “bel cazzo” or “fine cock”? Sofre lamore: “so fare l’amore”, “I know how to make love” or “soffre l’amore”, “suffers love”? So baciare: right, “so baciare”, “do I know how to kiss”? Very probably the author is of the male or multiple sex or perhaps just a person of sex looking for beracazi. It was baking hot with a dazzling light. Didn’t Von Gloeden photograph the boys from around here at Taormina, just a little further down?

NM. Your say “I love the desolation, that noble decadence I only find in the South”. Contrasts and stratifications. Melancholy plays a role in your research.

FF. Between Scylla and Charybdis in one of the densest places on the planet where it is not our story that is woven but the story of the world in the form of a beautiful building constructed by the Fascists and now filthy and insulted by indiscriminate tags, almost abandoned, in a deafening desolation and all too real decay, I found these intense and literary messages. However, given the context, the climate and the odours – not that of orange blossom but there is still that of the railway with the still virgin sleepers of the TAV – it’s moving, it’s tragic in the sense of sublime. It’s a great and complex work.

NM. You have told me about your trips as a child, a habit you have never lost.

FF. I’ve still got a beautiful photo of when I was a child; I would have been 7 years old with an arancino (or arancina) and a glass bottle of Chinotto Levissima on the ferry over the strait. I remember these trips with my mother; at times I think that apart form a passion for the beautiful and for art, she took me – by force at times – on trips because some things had to be seen and to be experienced, as a kind of assignment. And the South was to be seen; one had to experience as much as possible because it was true beauty, without mediation.

NM. Why have you brought this project in particular to The Open Box?

FF. Ever since I saw these writings I’ve wanted to present them in some way; this was an opportunity. Of the 11 stations I’ll be copying three on the walls of The Open Box.

1
CECO UN BE RACAZO ANI 20-19
MI PIACE REDELA IN PULE E NI BOCA
LO FACIO CODERE MELU INCUIU TUTO
FINA

2
RACAZO ANI 20-19
FACIO BI POPINI
C MI PACE PREDELA
NI CULO E NI BOCA
ME LO NI CUIO TUTO
FINO A LUI – NACOIA
MI FACIOROPERE LI QULO
TUTO DENRO
MI FACIO BACIARE CON – LALIQUA
LI SABATO – SONO QI – DALE -23-AMEZANOTE – 100
TUTI I SABATI

3
CERCO UN BERACAZO ANI 20 19
CON CAZO ROSO-E DURO – AFAMI
MALE –IO RRIDO TUTO NI PULO E NI
BOCA ME LO NI COIO – LOSURO FINA – UTIMA BOCA
SONO PILI SABATO SERA DALE 23 FINA MEANOTE -100
SE VIEI – CI DI VETIAMO – MI FCIO BACIARE NI BOCA CON NI PUA
C QARO BEI PONPINI TUTII

4
CERCO UN BERACAZO ANI 20 19
CON LI CAZO ROSO – E DURO A FAMI MALE
LAPRENDONI BOCA – E NI – PULO
CON LI RISUHIO LICALOBELO DURO
MI FACIO SBURENIBOCA
SONO – TUTI SABATI –DALE ORE 23-FINOAMELANUTT 100
ASPETANIIUI

5
CERCO UN-BERACAZO -ANI 20-19
CON LI CAZO ROSOE DURO A FAMIMALE
LORENDO –NIBOCA –E-NIPULO –TUTODERO
MINCOIOLOGUROFINO AL UTIMACOJA
MI FACIO BACIARNIBOA CONLALIQUA
SONO-QUI-LI SABATO SERA-DALE -23- FINO –AMEZANOTE-100
SE VIENI-TIFACIO DIVERTIRE TUTI – SABATI – S

6
CERCO UN BERACAZO ANI 20 19
CON –LICAZO ROSO –CEMI FACIACODERE
LA PRERNDO IN BUA E IN PULO – MI PACE LO SBUO
MEOU – COIO –EINO ALUTIMA COIA
BI FACIO BACIAR NI BOCA
SONO LI A TE –SERA LE 23-FINO –MEZANOTE -100

7
CERCORACAZO ANI -20 19
CON LICAZO ROSO –E DURO AFAMIMALE
E O PRENDO NI BOCA ENI PULO MI NI COIO LO.SURO
CON LI RISUHIO BIFACIO CODERE
E VOLIO ROFO LI PULO – LOVOLIO RO ROSO E DURO
AFAMIMALE – LO RENDO ONIBOCA – MIPIACELOSUPO
MEOLO NICOIO – FINO A LUTIMA COCIA
SONO QUI DALE 23 FINO ALE I -100

8
CERCO UN BERACAZO –ANI 20-19
CON LI CAZO ROSO E DURO A FAMI MALE –LORENDO –NIBOCA
E –NI PULO –MINI COIOLOSBURO FINO ALUTIM COCIA LO FIO CNLIRI SUCHIO
SO-BACIARE – SOFRE LAMORE SONO QUI DALE 23 ALE 100

9
CERCO UN RACAZO CON LI CAZO ROSO – ANI 18-19
CE MIFA CIA CODERRE LARENDONI PUO ENI –BOCA
MI NCUIO LO BUO FINO A LUTIMACOIA
LO PULISCO CONA BOCA SONO QUI SABATO DALE 23 FINO A MEZANOTE – 01 L UNA E MEZA
SE VIENI CI DIVETIAMO –
CI VEDENO ALA MARITIMA DALE- SCALE

10
CERCO UN –BERACAZO – ANI 20-19
CON I CAZOROSO – E DURO A FAMIMALE
LO RENDO –NI BOCA – ENI – PULO – MIPIACE – OSBURO
ME LONI COITUTO –BI FOIO CODERE – SOBACIARE
MECLIO – UNA DONA – MIFACIOLEARE TUTA PURE LI BUCO-DEPULO
SONO QUI DALE -23 ALE UNA 100

11
CERCO   CERCO – UN- BERACAZO ANI 20 19
CONLI CAZO ROSO-E DURO -AFAMIMALE
IO PENDO – IN – PULO – E –NI BOCA MINI COIO – LO SURO FINO ALUTIMA COIA
FACIO BEI – POMPINI CON LORISUBIUO MELA FACIO METERE NI PULO – MI FACIO SBURADEMRO
MI FACIO – ROPERE LI PULO A UCIRE SAPUE VOLIO ROPOLIULO
SONO QUI DALE – 23 ALE – 100

Peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti

Luca Bertolo
Il tuo articolo su “Artribune” di qualche tempo fa rimane la cosa migliore che ho letto riguardo alla querelle attorno alla mostra sulla Street Art a Bologna. Nel frattempo però c’è stata questa cosa di Blu, il nostro più affermato street artist, che con un blitz ha cancellato tutti i suoi wall paintings bolognesi. E si è sollevato un polverone – come è giusto che sia… Nella valanga di post e interventi pro o contro quel gesto mi pare che l’unica cosa che nessuno mette in discussione sia il significato/movente di quel gesto: la protesta.

Flavio Favelli
Mi piace questa cosa di resettare tutto, di annullare tutto, più che distruggere e cancellare. Avesse dato una mano di nero – lutto censura – invece è grigio come il muro di prima, una specie di fondo. Dopo la nostra telefonata, “Repubblica, ed. Bologna” mi ha chiesto un parere su Blu. La cosa che non mi piace degli scritti apparsi su “Artribune” e anche di Michele Serra, è questa specie di legge-tabù per cui l’opera è diventata per statuto pubblica e non si può più toccare. E poi le regole non sono fatte per essere infrante?
Nell’arte c’è anche negatività, contrasto, questioni che dividono, angosce che sono la poetica che pesa come una casa e segna un’intera esistenza e questi vogliono l’opera e basta per la città col cordone rosso davanti…

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Luca Bertolo, Quello che non è #1, c-print, 2012

La faccenda è che c’è un problema con la società, con quello che passa il convento e la mia preoccupazione non è quella di andare né nei musei, ma nemmeno di fare felice
la gente… anzi questo è proprio l’ultimo dei problemi, mentre sembra essere il primo per chi s’interessa d’arte. È vero come dici, è una sacrosanta protesta.
Blu vuole antagonismo con la sua arte perché è antagonista.
Lui si è sentito con le spalle al muro e compie un gesto estremo, ma che non leggono come profondo, come gesto importante, forse perché è proprio Blu che non vuole essere artista e allora si trova in un vicolo cieco. Blu non può fare un gesto d’artista perché non vuole esserlo…
E poi c’è questa roba della Street Art che non si regge… nel sito della mostra su Bansky & Co. c’è scritto:
… perché queste esperienze artistiche – oggi più di ieri – influenzano il mondo della grafica, il gusto delle persone, l’Arte intera di questo secolo.
Non è vero, casomai il contrario.

Luca Bertolo
Il tuo articolo “Lo strappo del velo” è bello: limpido, inquietante, non consolatorio – roba che in effetti ci azzecca poco con giornali e televisione… Tornando a quello che dicevo prima vorrei aggiungere che se nessuno mette in discussione la dimensione di protesta del gesto autolesionista di Blu, forse è perché quella risulta una categoria fin troppo disponibile in cui incasellarlo. Come artisti, il minimo che si possa fare è uno sforzo d’interpretazione un po’ più creativo. E così a un certo punto mi è venuta in mente la parola POTLATCH. Da wikipedia:

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Luca Bertolo, Quello che non è #2, c-print, 2012

Il potlatch – talora scritto anche “potlach” – è una cerimonia che si svolge tra alcune tribù di Nativi Americani… Il potlatch assume la forma di una cerimonia rituale, che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone, in cui vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati “di prestigio”.
Durante la cerimonia vengono stipulate o rinforzate le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi grazie allo scambio di doni e altri riti. Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale distribuiscono o fanno a gara a distruggere beni considerevoli per affermare pubblicamente il proprio rango. Contrariamente ai sistemi economici mercantilistici, infatti, nel potlatch l’essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli. La logica dell’economia di mercato è quindi completamente invertita (la sottolineatura è mia).

Dopo tutto i wall paintings possono essere visti come dei doni, no? Doni eccessivi, certo, come dimostrano il cittadino medio e l’amministratore medio che li considerano un semplice imbrattamento. Belli (come quelli di Blu) o brutti (come la maggior parte) che siano, i wall paintings sono doni per la comunità intera, per il singolo ignoto e ignaro passante… Come nel caso del potlatch, il gesto di Blu risulta incomprensibile perché illogico dal punto di vista della logica capitalista, una logica che pure prevede la distruzione in chiave di maggior profitto, come quando si distruggono migliaia di tonnellate di arance per stabilizzarne il prezzo o si bombarda un paese del terzo mondo per poi mandare le nostre imprese a ricostruirlo. La distruzione di un dono che noi stessi abbiamo fatto esorbita da ogni categoria interpretativa… A me pare che in questa vicenda ci sia una dimensione tragico-epica, una dimensione del tutto assente dalla nostra arte attuale. Anche per questo, forse, ne sono così toccato.

Flavio Favelli
Sì, è vero. È tragico, ma questa tragicità non viene percepita, perché non è nemmeno concepita, immaginata: qui si bada al sodo e ci si dimentica di quello che è stata l’arte nel secolo scorso.
Ribadisco la questione del conflitto fra l’arte e la società; io non faccio arte perché voglio rendere le città più belle… come invece dichiarano alcuni graffitisti.
Non è che le opere si fanno a tavolino, tutto non è mai così chiaro, così lineare: dono, città, cittadini, pubblico, bello… Ci sono anche zone oscure, ombre, rifiuti, rigetti, non è tutto così scontato. La città e i funzionari pretendono solo. Non so se Blu ne sia consapevole, ma il fatto che è successo è così anti tutto, anti epoca, anti logica.
Più interessante come gesto d’arte, ma ho l’impressione che loro (Blu e Wu Ming) lo vogliano collocare più come gesto politico.
Io tendo a separare, nel senso che quando penso come artista non penso al bene e al male, non penso come cittadino, né come persona impegnata. Non faccio arte per motivi politici, per me la questione è più personale e credo più seria, più profonda e se vuoi anche più noiosa.

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Flavio Favelli, Luigi Marulla, 2015, 6,5×5 mt., Viale della Repubblica – Cosenza

Luca Bertolo
Sono perfettamente d’accordo, si tratta pur sempre, almeno inizialmente, di una questione privata… Ma rimanendo sul livello politico, è interessante che Potlatch sia stato anche il titolo di un bollettino pubblicato per qualche anno, a partire dal 1954, da un gruppo di giovanotti autonominatosi “Internazionale Lettrista” (tra cui naturalmente figurava il giovane Guy Debord ). Beh, l’azione di Blu mi pare molto in linea con la dimensione provo[catoria]-situazionista… Sia come sia, hai ragione tu a distinguere: la differenza fondamentale tra un writer e un artista non passa dalla tecnica, dal soggetto e nemmeno dal luogo dell’opera. La differenza, quando c’è, sta nell’orizzonte d’attesa. Credo che ogni artista debba prima o poi fare i conti con l’ambiguità essenziale della sua pratica, con la polisemia irriducibile di un’opera d’arte. Per questo, tra l’altro, propaganda e arte vanno poco d’accordo… Con questa “Grande Autocancellazione” Blu si colloca, consapevolmente o meno, in una tradizione concettuale di tutto rispetto nel panorama dell’arte contemporanea. Suppongo che a Blu importi poco o nulla di questa risibile “promozione”, ma a me sì. Nel 1970 John Baldessari bruciò tutti i suoi quadri dipinti dal 1953 al 1966 rendendo pubblico (e con ciò rendendo opera) questo gesto.

Lo chiamò “Cremation project”. Eppure, per quanto pieno di pathos, il gesto di Baldessari non aveva quella dimensione “epica” che ha il gesto di Blu: una questione privata che diventa pubblica, assumendo così una dimensione anche politica. Inoltre, è anche un gesto che funziona anche se slegato da un tempo e un contesto definiti, che assume dunque una dimensione esemplare… Di sicuro questa vicenda mi ha colpito in un punto debole. Da tanti anni sono affascinato dall’idea (dall’immagine) della cancellazione. Ci scrissi su la mia tesi all’accademia di belle arti, con tanto di lunga intervista a Emilio Isgrò. La mia prima mostra, nel 1997, s’intitolava “Pittura e cancellazioni” (ancora)…

Flavio Favelli
La questione della cancellazione, una cosa che c’era e non c’è più, è un leitmotiv costante. Sottrazione, censura, privazione, oscuramento, copertura, tamponatura, sono cose dure, eppure mi sono care, e comunque in qualche modo fanno rima con conflitto. In un territorio che sembra oggi di esclusiva pertinenza di integralisti islamici, la cancellazione ha per me qualcosa di attraente e una grande piacevolezza estetica. Ma qui si apre un bivio deciso fra chi la percepisce come piacevole, interessante, a volte commovente, e chi no. Qualche volta in Meridione ho incontrato delle stazioni di benzina chiuse, con le insegne oscurate, col nome-logo coperto da una plastica nera. Davanti a questi segni ho sempre avuto un sussulto: riconosco una complessità formale da indagare, ma soprattutto da contemplare, li avvicino alla mia idea di bellezza. Ma che sia solo una questione chimica? Forse solo genetica? Come certi popoli che vedono diverso lo stesso soggetto dagli altri? È come un dialogo fra chi ha la fede e chi no, direi inutile, a maggior ragione oggi. Vedere e percepire qualcosa di complesso e generativo in placche di plastica sovrapposte è forse solo una presunzione, un disturbo psicologico proprio come chi vede la Vergine Maria che piange su un ulivo secolare? Non saprei, ma forse stiamo parlando di sottigliezze.
Dopo la cancellazione la tribù di Blu ha scritto alla base del muro qualche riga, fra queste c’è: peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti. Lo trovo drammatico e vero.

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Flavio Favelli, One Pound, 2013, banconota cercata

Apprezzo questa scritta. Con questo intervento di Blu sono emerse tante immagini che mi hanno colpito e attirato e, anche se diverse, le ho collegate a questa pratica: lievi, nella loro durezza, scalpellature sopra bassorilievi egizi, damnatio memoriae raffinatissime o la copertura-annullamento di Christo del Reichstag del 1995, forse una delle immagini più decise e decisive degli ultimi decenni. Da tempo raccolgo francobolli sovrastampati: i paesi invasori – o quelli invasi che riprendevano il controllo –, usavano i francobolli dei nemici e li vidimavano, ridavano loro corso stampandoci sopra o cancellando parte dell’originale. Una specie di griglia-copertura, ma credo concettualmente simile alla cancellazione. Apporre una correzione più o meno completa, parziale o totale è uno svelamento di un conflitto, di un disaccordo, di una violenza, o come dici tu, di una protesta.
Ma anche certe tamponature, segni lasciati da ciò che c’era prima (un cartello, un pannello) apparsi senza volontà, ma solo come incuria e dimenticanza, simili alla nuova opera di Blu, sono di una bellezza devastante. Alla stazione Centrale di Milano sul muro sopra la porta principale c’è la traccia di un grande tabellone.

Luca Bertolo
Peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti: sì, è roba forte. Cartelli o scritte cancellate (come anche i francobolli di cui parli) sono sempre inquietanti, forse perché, come certi mostri, sembrano contenere in sé una cosa e il suo contrario. Nel 2013 ho fatto una mostra intitolata “Quello che non è”, una serie di fotografie che ritraevano muri “cancellati”. Per una curiosa coincidenza, quelle foto furono scattate in buona parte a Bologna. Queste cancellazioni stradali fanno parte del banale paesaggio quotidiano, insieme alle tags, agli stickers e ai cartelloni pubblicitari. Eppure, riviste in quella sequenza di piccole stampe allineate orizzontalmente su un lungo tavolo, quelle cancellazioni creavano un effetto un po’ sconcertante, oltre che assomigliare a un campionario involontario di pittura gestuale… Parli di damnatio memoriae e mi fai tornare in mente un testo di Franco Fortini letto molti anni fa. Fortini racconta di aver potuto confrontare due copie, una integrale e l’altra censurata da Stalin, di una medesima pellicola contenente la documentazione cinematografica di un intervento di Lenin ad un congresso della Terza Internazionale nei primi anni ‘20. Nella copia censurata alcuni volti sono coperti da macchie. Tra i volti scomparsi c’è anche quello di Karl Radek, comunista di sinistra condannato nelle purghe staliniane del 1938.

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Tempio di Karnak

Allo zelante cancellatore sono però sfuggite le mani di Radek, che si agitano nel vuoto accanto a quelle di Lenin. A questa immagine Fortini ne accosta subito un’altra, spostandosi da Mosca a Ravenna, per trovare i segni d’una epurazione di quattordici secoli prima. “Teodorico, goto e ariano, aveva ordinata l’esecuzione di mosaici in Sant’Apollinare Nuovo. Una trentina d’anni più tardi Giustiniano cattolico riconsacrava la chiesa a San Martino di Tours, ‘martello degli eretici’, e faceva cancellare le immagini di Teodorico e della sua corte effigiate nell’atto di uscire dal Palatium. Sostituendovi tendaggi ed elementi architettonici, i mosaicisti dell’arcivescovo Agnello dimenticarono alcune tracce delle figure. La ‘condanna della memoria’ ha lasciato contro le colonne qualche mano sospesa a mezz’aria, come quelle che si vedono svolazzare nelle sedute spiritiche”… Chissà. Forse è proprio di ogni immagine e non solo delle cancellazioni il fatto di nascondere evocando.

Flavio Favelli
Chiudi con ‘evocare’ che è un bellissimo termine perché parla soprattutto a chi è in ascolto. A pensarci bene sto passando quasi tutta la mia esistenza a cercare – e trovare – cose capaci di evocare. Una delle poche incisioni che ho fatto è l’immagine di una sterlina, One Pound, che riprende quella originale di una banconota con errore. Proprio sul viso della Regina, probabilmente nella stampa c’è stata una strana piegatura e l’inchiostro non ha colorato parte della faccia. Proprio un’effigie censurata casualmente, come se un velo senza colore, dello stesso tono della carta avorio, coprisse Elisabetta II. È così folle che sembra un artefatto; prima del mio acquisto era un semplice errore-varietà in ambito numismatico. Questa immagine conduce inevitabilmente alla copertina del disco “God Save the Queen” dei Sex Pistols, forse una delle più forti in assoluto, con gli occhi e la bocca della Regina censurati, quasi un negativo di certi costumi della donna nell’Islam. Quando ho fatto il murale a Cosenza sul calciatore è successo forse la cosa opposta dell’operazione di Blu: ho proposto un’immagine cancellata – una figurina senza calciatore – e i tifosi la volevano riempire. Blu ha cancellato per protesta: forse noi stiamo cercando di dire che la cancellazione rimane sospesa attorno a qualcosa che in qualche modo ha a che fare col piacere.

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Conversazione con Cristiana Perrella

Cristiana Perrella: Il tuo lavoro è fortemente radicato nel territorio da cui provieni e nella tua storia personale. I materiali che utilizzi più frequentemente sono quelli legati all’immaginario della tua infanzia borghese nell’Italia degli anni  Settanta – armadi, tappeti, specchi, bottiglie, lampade, cartoline – che trovi da robivecchi della zona dove vivi e riassembli attraverso un meticoloso lavoro artigianale,  per rincorrere ed esorcizzare il  tuo passato, ricostruendone l’atmosfera. Dici di trovarti benissimo nella solitudine del tuo studio, a Savigno, un piccolo paese dell’appennino tosco–emiliano, circondato dalle cose che raccogli e che, prima o poi,  trasformerai in opere. Hai però, soprattutto negli ultimi anni, accettato diverse residenze: sei stato a Roma (all’Accademia Americana), Cuba, Palermo, ora a Istanbul. Come e perché affronti queste esperienze? Cerchi l’uguale o il diverso, una possibilità di fuga rispetto al tuo mondo, che è così immersivo, oppure cerchi sempre, anche in luoghi lontani, qualcosa che ti assomigli?

Flavio Favelli: Per me è importantissimo partire ma quando devo farlo non mi va mai, e ogni volta è una fatica. Credo comunque nella forza delle immagini e quando si va in giro ci sono sempre nuove immagini che si mischiano con le proprie… tutto quello che ho visto a Palermo e Istanbul è poi mescolato in nuove opere. Certo, lo sguardo con cui osservo una realtà nuova è il mio, ed è uno sguardo italiano. In un’intervista su questa mia residenza in Turchia, ho detto che è Istanbul che diventa Favelli, non Favelli Istanbul; il ruolo dell’artista è quello di interpretare col suo mondo il mondo.
Spesso mi sento dire che la mia opera è troppo bella, troppo barocca, so Italian. Ma se si guarda le opere dei giovani artisti internazionali, noto spesso uno spirito del luogo, un’attinenza con certe particolarità della loro provenienza.
Questa bellezza è una specificità italiana sempre riconoscibile che mi porto, volente o nolente, dietro, perché uso immagini italiane.

P.: Le residenze sono quindi per te un esercizio con cui ti forzi di uscire dal tuo mondo, e allo stesso tempo un’occasione per ritrovarlo oltre i tuoi confini. Come scegli i luoghi in cui vai? Se penso a Palermo, Cuba, Istanbul, e anche Roma, mi sembra abbiano una certa affinità: città in cui la memoria del passato è molto forte, nella stratificazione delle cose ma anche nella decadenza. Le hai scelte o ti sono capitate? Faresti una residenza, ad esempio, in una metropoli orientale?

F.: Alla fine tutto capita. Ultimamente sono stato in Cina, a Pechino e Shangai e a Dehli. Sono sempre stato interessato alla Cina e alle Indie, perché nella nostra cultura è sempre stato presente un gusto per l’esotico, un’ammirazione dell’Oriente, che però si risolveva solo quasi nei vasi cinesi. Oggi è ovviamente molto diverso. Più lontano si va più è tutto molto più nuovo e quindi interessante, ma devo dire che il treno sgangherato che ho preso dall’aereoporto alla stazione di Palermo, è stato un viaggio molto eccitante, anch’esso fortemente esotico, non a caso in quella città c’è una Palazzina Cinese.
Nel mio lavoro recentemente stanno emergendo degli elementi nei confronti dei quali nutrivo in precedenza un po’ di timore: i marchi, i loghi e la pubblicità che hanno una storia fortissima in Italia. Quando a scuola giocavo a nomi, cose e città, mi piacevano soprattutto le marche: quando ero bambino dietro ogni prodotto per presentarlo si costruiva una storia, un vero teatro. Ultimamente ho letto che il brand più riconosciuto al mondo è la Ferrari, che in Italia non è più così forte, ma nel mondo sì. Abito vicino a Modena e nelle campagne passano spesso dei prototipi di auto da corsa. Se penso alla Ferrari, però, mi vengono in mente gli occhiali da mezzo cieco di Enzo o la tragica storia del cavallino rampante di Baracca, ognuno ha i suoi riferimenti… ma le auto da corsa mi hanno sempre fatto tristezza, non ho mai creduto nel motore, fin da bambino non ho mai messo piede al Motor Show di Bologna. Vado sempre alla ricerca di nomi della pubblicità, dietro cui ci sono delle storie che spesso sono molte diverse dal mondo che vuole la pubblicità stessa. Molte persone dicono che lavoro sulla memoria: è un parola pesante, che non mi piace, perché nel nostro paese ha a che fare con la guerra e con questioni ancora irrisolte. La memoria della pubblicità a volte è fatta per sostituire la memoria storica, alcuni prodotti sono nati per cambiare l’esistenza.

P.: A questo proposito mi torna in mente un libro di Aldo Nove del 2000, Amore mio infinito, in cui l’idea del marchio è molto presente. Racconta gli anni ’70 e ’80 italiani attraverso alcune marche e prodotti caratteristici del periodo, con un tipo di scrittura all’epoca nuova: sembra una sorta di Bret Easton Ellis italiano, ma non in versione yuppie.

F.: Ultimamente Guccini ha fatto due libri sulle cose perdute. Ne ho letto uno velocemente ma mi ha interessato poco: essendo di un’altra generazione, non ho nessun appiglio nei confronti di quelle cose. E’ spesso quindi una questione di generazione. Le cose sono importanti, prima, dagli anni 60 agli 80 c’era più improvvisazione, spontaneità con dei risultati sorprendenti. Voglio dire c’erano sottomarche e piccole realtà che proponevano il loro mondo, copiando dalle grandi marche. Forse mi sembra che in quegli anni fosse tutto più bello, ma non perché erano quegli anni o perché sono passati (quando i mulini erano bianchi..) ma perché ero un bambino e poi un ragazzo che doveva cibarsi di queste cose per salvarsi, questi segni erano gli unici appigli rispetto a quelli che mi proponeva la famiglia, per altri bambini forse erano solo giochi, per me erano compagni immaginari da contrapporre a quello che subivo. Erano delle realtà della psiche. Sandokan, il telefilm con Kabir Bedi, la Fanta con quella bottiglia di vetro arancio scuro con anelli, Roger et Gallet, l’acqua di Colonia di mio nonno, Le Ore e Le Ore Liete, due nomi simili, uno di un giornale porno, l’altra dei biscotti Perugina, erano immagini ambigue che si intrecciavano in un mondo sospeso pieno di speranze, una specie di attesa escatologica.
Voglio dire che da qualche parte ho la consapevolezza che certe immagini sono depositarie di tanti significati e aprono porte differenti, sono multiple e quando le trovo e le rielaboro provo una gioia immensa che però è ambigua, non è solo piacere, è anche dolore. E’ un piacere non sereno.

P.: Il rapporto con gli altri artisti della tua generazione, e anche il tuo ambiente di formazione, è stato importante. Io frequentavo Bologna in quegli anni, e ricordo che c’era un gruppo abbastanza coeso intorno alla galleria Neon e varie altre situazioni, come il centro sociale Link dove tu lavoravi.

F.: Ho sempre fatto molto per conto mio. Nell’arte si è soli. Non mi è semplice rapportarmi con le persone, anche per le cose che ho detto prima, c’è chi si interessa alla dimensione dell’architettura nell’arte e chi si sofferma su un pavimento di una casa piena di questioni.
Il clima che c’era al Link non era dei più tranquilli.
Per la prima volta vedevo opere di artisti in cui c’era tantissima normalità e soprattutto freddezza, la stessa che avvertivo quando andavo alla galleria Neon. Riuscivo a percepire soltanto l’arte che raccontava la contrapposizione ad un sistema di arte, ma forse questo era anche un mio limite. Artisti del momento molto presenti come Eva Marisaldi e Luca Vitone non mi hanno mai smosso nulla. Forse non possedevo gli strumenti, ma non riuscivo a comprendere bene cosa stesse accadendo. Scelsi il Link perché era uno spazio in cui si poteva sperimentare. Non venivo dall’arte, non avevo fatto né istituto d’arte né accademia; all’epoca non c’era ancora internet, ho dovuto creare la mia consapevolezza per conto mio in tanti anni. Non sapevo nulla del mondo dell’arte, in quattro, cinque anni ho dovuto masticare tutto molto velocemente.

P.: Come ti ha formato l’esperienza del Link? Cosa ti sei portato a casa di quegli anni?

F.: Ancora oggi ci sono delle incomprensioni. Ho sempre sentito da qualche parte che ero visto in modo differente per il fatto che ero l’unica persona che proveniva da una famiglia borghese. I gruppi avevano idee molto chiare: l’opera in sé andava superata; erano preferiti gli eventi e le performances, al massimo le installazioni. Inoltre c’era una fede veramente forte nelle nuove tecnologie che a me dicevano poco. Internet avrebbe dovuto rivoluzionare tutto… Io feci delle operazioni come quelle di allestire un bar, una stanza che si chiamava Sala di attesa: un ambiente tutto in vetro molto freddo. Usai lo stesso titolo anche quando feci la stanza per i funerali (al Pantheon alla Certosa di Bologna).
C’era diffcoltà a fare mostre di opere.
Ancora prima del Link seguivo la Socìetas Raffaello Sanzio, poi tanti gruppi… Fanny, Kinkaleri, Teatrino Clandestino, Terza Decade… poi il teatro mi ha stancato. Il grande problema di queste esperienze è che senza fondi pubblici facevano fatica ad andare avanti. Al Link di arte visiva se ne è sempre fatta molto poca, perché c’era la questione dell’opera che andava tenuta a distanza. Comunque non era un centro sociale come altri, era molto più soft ed aperto.

P.: Il tuo lavoro non si è mai occupato della dimensione sociale o politica. Anche il tuo approccio alla storia è mediato da un rapporto personale con le cose (penso al discorso su Ustica, a quel piccolo ma significativo lavoro sulla stella delle BR). Da poco sei reduce da una residenza in Turchia, un paese che conosce una situazione politica e storica eccezionale. Quali spunti ti ha offerto la permanenza in questo paese? Ti ha suscitato emozioni trovarti là in questo momento storico?

F.: Sì, è tutto molto complicato e delicato. Ma forse mi sento molto occidentale e quindi volutamente impreparato. Credo ci siano delle barriere insuperabili. Voglio dire che la concenzione dell’individuo e le sue questioni fondanti, in Turchia e in altri paesi a maggioranza Islamica, diciamo che sono in minoranza rispetto alla gerarchia e alla totalità. Detto questo paesi del genere per me non hanno nessuna questione interessante, se non estetica e quindi esotica. Un po’ come a Palermo: un luogo bellissimo, con grandi contraddizioni e immagini abbaglianti, strane, particolari, desuete, dove la bellezza stordente è un grandissimo piacere, ma non può essere che un luogo esotico. Nessuno andrebbe a vivere a Palermo o Istanbul semplicemente perché non sono luoghi liberi e i luoghi non liberi, anche se belli, possono essere solo solo esotici. Ricordi Cristiana il primo maggio a Istanbul? Forse quarantamila poliziotti con le facce stanche, ragazzi giovani con la divisa appiccicata, uno ogni 10 metri in tutte le strade del centro. Una città occupata.
Molti giovani che ho incontrato vogliono lasciare il paese (almeno tutti i giovani legati al mondo dell’arte) e stiamo parlando di un paese con un economia in grande crescita.

P.: Tuttavia la stessa ascesa al potere di Erdoğan ha segnato in qualche modo una rivoluzione, perché prima di lui l’idea di un Islam moderato al potere era impensabile: l’esercito era il guardiano della laicità, e dopo tre colpi di stato il margine era molto ristretto. Anche se adesso sembra orribile dirlo, in ogni caso Erdoğan ha dato voce a una parte enorme del paese che era stata completamente privata della possibilità di avere un peso, una parte anche molto produttiva.

F.: Sì certo sono cose vere, ma come dicevo tremendamente lontane e difficili da capire. L’impressione è che questa enorme parte del paese abbia solo due desideri: un matrimonio ricco e ben addobbato e la fine del Ramadam con un lauto banchetto, non vorrei essere superficile, ma purtroppo non sono la persona giusta: ho la repulsione per le abitudini della famiglia Italiana (che oramai non esiste più), figuriamoci per quella Turca. Basta vedere la faccia del Premier e come si veste, è una faccia vecchia che assomiglia alla maggioranza degli uomini turchi. Anche noi abbiamo categorie forti, ma ci sono più visioni, più aree neutre, più zone franche. Loro, poi, islamizzandosi, sono nel 1435, non nel 2014 e qualche cosa vorrà pure dire.
Una delle cose più belle che ho visto nell’ultima settimana è a Como; c’è un’insegna luminosa in plastica che recita “Bevete Coca-Cola”. È veramente vecchia, sembra una cosa decrepita. Sarà un caso, una cosa banale e superficiale… Alla mostra di Istanbul ho esposto una bottiglia della Coca-Cola decorata con l’Occhio di Allah che è onnipresente, ma è più pagano che Islamico. Una delle prime cose che ho fatto è andare nei supermercati, per vedere se ci sono anche altre Coca-Cole turche. La Coca-Cola è una delle presenze più solide nel paese da cinquant’anni: non c’è più il califfato ma c’è la Coca-Cola. Gli oggetti sono talmente legati alla società e alla politica da poter produrre spostamenti. Ultimamente, commentando la presenza di una stella in una mia opera, qualcuno l’ha letta in chiave politica: certo è la stella politica, ma è anche la stella rossa della San Pellegrino. E’ tutto insieme, e va preso tutto insieme, come un’esistenza, che è fatta di prodotti, di cose banali, di aspirazioni e di ideali.

P.: Poi c’è forse anche l’esigenza di sapersi destreggiare in una lettura dei segni contemporanea. Per esempio l’immagine da cui hai tratto il titolo della mostra, Grape Juice, è oggetto di una lettura molto complessa. Si tratta dell’etichetta di una bibita di produzione industriale – della Coca-Cola Company tra l’altro – dietro la quale tu vedi una serie di contraddizioni legate alla religione, all’idea dell’Islam, al marketing, a tanti altri discorsi. Ho l’impressione che il tuo lavoro si orienti sempre di più verso una lettura dei segni, quasi – per tornare all’ambiente bolognese – una certa attitudine alla semantica.

F.: Molti ultimamente hanno accostato il mio lavoro all’arte pop, per la sua attenzione nei confronti della pubblicità del marchio, tutti elementi apparentemente leggeri. Ma la questione è molto complessa, come anche la parola pop. In realtà ho compreso che dentro di me ci sono due mondi, legati alle figure di mia madre e mio padre. Il primo è connesso al concetto di arte come l’ho vista a casa dei miei nonni e di mia madre: il bello è solo quello del passato, il classico e quindi l’arte è solo quella del passato. Il secondo è quello di mio padre: è quello della la pubblicità, della società nuova.
Mio padre era un poeta, un uomo con la U maiuscuola, come diceva lui, un Uomo Nuovo che voleva bere Top ogni giorno. Il Top era uno spumantino della Gancia in una bottiglia piccola da 20 cl. E’ chiaro che c’era un mondo che apriva lo spumante solo la domenica o nelle feste comnadate, Top invece era per tutti i giorni! La pubblicità della Gancia recitava nei primi anni Settanta:
Arriva Top che contesta il vecchio brindisi.
Tutto ciò credo sia devastante, e ha innestato dei meccanismi diabolici.
Se tutto il giorno può essere festa, si perdono le regole e si fa fatica a comandare… Ecco perché oggi abbiamo una società liquida, è stata colpa del Top Gancia. Sono sempre stato sedotto da entrambe le visioni. Questi due mondi che si scontrano li ho vissuti attraverso la famiglia, li ho vissuti prima e capiti poi. Non sapevo mai da che parte stare, i miei genitori erano sempre in conflitto. Ancora oggi, dopo tantissimo tempo, questo scontro non è risolto. E’ tutto sempre amaro e dolce insieme…

P.: Possiamo dire che nel corso del tempo il mondo di tuo padre ha trovato sempre maggiore spazio nel tuo lavoro? L’entusiasmo per il nuovo, quindi le marche, la cultura pop, la televisione, adesso sono sempre più evidenti: l’ingresso della parola e del logo, di un immaginario legato al mondo delle merci che all’inizio non c’era.

F.: Sì, certo, è sempre più evidente. Però si tratta di cose che si compenetrano in modo differente. Ad esempio, molto banalmente, le cose che facevo prima sono molto più complesse da realizzare, mentre le ultime sono tecnicamente più semplici, ma credo più forti, più potenti. Anche se il mondo di mio padre ha potere perché in contrasto con quello di mia madre. E’ la storia di questo paese, direi unica, con estremizzazioni folli…. perché nel nostro sud, una delle parti più belle al mondo, si è prodotto uno scempio inimmaginabile? E’ questo contrasto che è fortissimo. Abbiamo conservato rigide regole nel cibo che rimane una grande tradizione (i dolci di Messina non si trovano a Catania che sta a 90 chilometri) e hanno sbragato ville liberty per fare posto a palazzi di sabbia e cemento.

P.: Da questo punto di vista la Turchia ha operato un passaggio traumatico nella modernità, facendo tabula rasa di tutto, anche dell’abbigliamento. Tra le varie riforme c’è stata infatti anche quella che vietava l’uso del fez e del pantalone alla turca, e obbligava all’abbigliamento occidentale.
Il lavoro centrale della mostra è un grande container che mette in moto nel visitatore un’esperienza di tipo spaziale: girandogli intorno si ha la percezione di un grosso volume, ma guardando le foto dall’alto ci si rende conto che si tratta in realtà di un grosso contenitore, un grande vuoto al centro. L’idea di una cosa chiusa, allo stesso tempo capiente e vuota, torna in molti tuoi lavori. Ti interessava l’idea di riempire questo vuoto? Era un container o no? Me lo sono chiesta vedendo quella foto.

F.: No, a me piacevano semplicemente questi pannelli arancioni. Probabilmente se non ci fosse stata la terrazza da cui fare le foto non si sarebbe capito.

P.: Quest’idea di un elemento centrale e chiuso mi aveva rimandato al tuo lavoro sul mausoleo di Teodorico. Era interessante il fatto che Teodorico fosse stato educato a Istanbul – cioè a Bisanzio – per dieci anni; quando poi torna a Ravenna lo fa con un bagaglio, per lui barbaro, di cultura classica. Significativo è anche il passaggio della cultura classica attraverso l’Oriente, la cultura romana vissuta a Istanbul da un barbaro.

F.: Ravenna è sempre stata un crocevia folle di culture. Hai colto perfettamente il punto. Il mausoleo mi aveva colpito da bambino, lo vidi con mia madre, avrò avuto 8 anni.
Era strano perché era da solo, in mezzo all’erba. Sinistro, spettrale, anche triste, non aveva nulla dei colori e dell’oro dei mosaici. Alla fine ricordo sempre di più le cose tristi.

P.: L’idea di una sorta di monolite, che fa quasi venire in mente la Mecca – un volume centrale chiuso a cui girare intorno – fa pensare a un tipo di cultura molto distante dalla nostra. Quando invece si entra in mostra si viene accolti da un’immagine stereotipa dell’Oriente e della Istanbul storica, con il profilo delle moschee e di Santa Sofia. In generale penso sempre ai tuoi spazi come spazi chiusi, dove l’esterno entra poco, anche se sono abitabili. Penso a tue istallazioni relativamente recenti come quella alla galleria Sales, in cui ci sono spazi che non lasciano nessun contatto con l’esterno, oppure, al contrario, che tu non penetri, come questo di Istanbul, o quello dedicato al mausoleo di Teodorico. L’idea della permeabilità esterno-interno data dalle aperture viene nel tuo lavoro solitamente negata. Mi interessava poter ragionare con te su questi temi, e su figure come quelle della finestra e della tenda.

F.: Alla conferenza di presentazione del progetto di residenza ho tracciato una differenza tra gli studenti universitari e me, ovvero chi ha le tende in casa e chi no. Prima una casa senza tende era impensabile: mia nonna, ma nemmeno mia madre, avrebbero mai pensato a una casa senza tende, adesso invece…
Per un certo periodo mi hanno chiesto di fare progetti per bar e ambienti con un possibile uso, ma a me non è mai interessato l’uso, è solo una coincidenza.
Questa cosa dell’uso piace alla critica perché forse apre a più implicazioni, ma non è corretta rispetto alla mia idea.
Per anni ho abitato in un piano terra molto buio, ma anche dove vivo ora in campagna ho l’abitudine di non aprire gli scuri. E poi ci sono le tende, all’interno è una casa di città, più che di campagna.

P.: Inoltre c’è una distinzione tra i paesi del Sud e del Nord Europa, secondo la quale i primi hanno sempre avuto le tende, i secondi no. Non si tratta soltanto di una questione di luce, ma piuttosto di cultura. Ad esempio in Olanda non avere le tende è sintomatico di non avere niente da nascondere, una moralità trasparente e manifesta, che è un aspetto molto lontano dal nostro sentire.
A questo tema è collegata anche l’immagine della cartolina, che tu hai usato spesso (nel lavoro su Teodorico, in quello sulla palazzina cinese a Palermo): l’idea dell’esterno che arriva nel tuo lavoro soltanto come messaggero di parole. Nel caso di questa mostra però la cartolina è ingrandita: è un’operazione che avevi fatto altre volte?

F.: Sì, in occasione di una mostra all’American Accademy avevo fatto un collage e ingrandito una cartolina in bianco e nero di piazza San Pietro, e al MACRO avevo esposto una ingrandimento di una catolina spedita da Ravenna con l’Imperatrice Teodora.

P.: In questo caso però si tratta forse della prima volta in cui la cartolina diventa quasi una visione – una veduta più che una visione – tornando ad avere quasi un rapporto di scala, simile a quello che si ha con il paesaggio quando lo si guarda dall’esterno. Mi sembrava in qualche modo il segno di uno spostamento.

F.: Sì, forse nei due casi citati l’immagine è sempre una cartolina ingrandita, qui invece è un panorama, come un fotogramma di cinema fermo, una grande veduta di un tramonto, forse è la sola immagine di noi occidentali che vogliamo vedere di Istanbul, una città affascinante che fa rima con le Mille e una Notte, forse una delle poche cose, anche se è un clichè, che ci piace di quel mondo lontano.
Le cartoline, i francobolli, sono sempre stati molto importanti, perché per tanti anni hanno rappresentato il tramite di comunicazione con mio padre. Non ci si telefonava, perché lui non poteva, e quindi gli mandavo delle cartoline. Dovunque si andava c’era l’obbligo di mandarle (ai nonni…) come forma di saluto e di ricordo, nel senso che anche se si andava fuori e lontano, bisognava forse dimostrare che il legame era forte.

P.: Prima accennavi al fatto che i tuoi lavori recenti sono più facili da realizzare. Quanto conta per te l’aspetto artigianale? Tu fai da solo gran parte del tuo lavoro. Immagino però che la tua formazione non abbia previsto nessun insegnamento a proposito della dissezione dei mobili, del taglio del vetro…

F.: Il Link è stato in questo una grande palestra, poi ho acquistato delle macchine, ho imparato a tagliare il vetro con cui faccio gli specchi. Insomma mi sono inventato un po’ tutto. Ho preso uno studio in cui sono praticamente autonomo e quindi riesco a risolvere molti problemi, non sopporteri ricorrre ad un artigiano tutte le volte.

P.: Che importanza ha per te il fatto che sei tu a fare tutte queste cose?

F.: Ha importanza perché così posso passare un’intera giornata, dalla mattina alla sera, in cui lavoro autonomamente.

E’ una liberazione il mio lavoro, perché ripenso alle cose della mia psiche, penso sempre a me e questo è una grande cosa.
Parto spesso da forme già preesistenti, perché non m’interessa creare delle forme nuove. Detesto le forme nuove, come detesto le forme organiche, che amano molti artisti, ma non c’è più nulla di artificiale e lontano dalla natura dell’arte contemporanea…
Ecco, un altro grande tema è che non creo mai forme nuove ma prendo sempre qualcosa di già fatto che appartiene ad un periodo. Una delle cose preziose che possiedo ancora è la bellezza di lavorare da solo in studio. Questo aspetto del lavoro è molto importante, come pure la prova della visione dell’opera: posiziono sempre le mie composizioni – sia i collage che le composizioni tridimensionali – davanti a un muro bianco, poi mi allontano e cerco di guardarle. Il mio desiderio è quello di trasferire un’immagine psicologica a chi guarda l’opera. Credo che questa psicologia in qualche modo passi, però a volte non accade perché è ovviamente del tutto personale. Ho degli investimenti psicologici su alcuni oggetti o su opere che altri evidentemente non hanno. Tuttavia cerco sempre un equilibrio formale, anche se qui siamo nel campo dell’indicibile: non si può spiegare quando per me una cosa è in equilibrio. Il decoro della vecchia scatola di Twinings mi trasmette equilibrio formale perché è tanto semplice (una scatola di tè) quanto complesso perché è investito dalle immagini di mia madre. E poi il tè inglese Prince of Wales o China Black seduce, c’è l’esotico e ricordi delle colonie, che è un ricordo molto potente.

P.: Una volta hai affermato che molte delle tue opere erano costituite di elementi come lampadari o pavimenti perché erano le cose che guardavi maggiormente, quelle che ti permettevano di distrarti da quello che c’era intorno, cioè fondamentalmente le persone, le storie…

F.: Sì, mi sono accorto di questo. Quando mi hanno chiesto se il pavimento o i lampadari avesse a che fare con l’architettura, col design… ho capito che non potevo dire le solite cose di circostanza. Di tutte le case dove ho vissuto, ricordo i lampadari e i pavimenti in modo deciso, mi incantavo o mi distraevo o semplicimente non guardavo ad altezza persona, era spesso tutto troppo pesante.

P.: Pensando alle similitudini fra il lavoro di Teodorico e quello di Istanbul, vi è anche l’uso di materiali da costruzione.

F.: Sì, nel primo assi gialle usate da cantiere per casseforme, nel secondo pannelli di ferro arancioni per ponteggi. Mi piacciono i materiali industriali usati, mi danno un senso di distanza dalla natura, con quei colori così intensi, quelle forme geometriche pulite quadrate e rettangolari, mi danno anche un senso di solidità psicologica.
Alla fine credo che la civiltà che abbiamo tirato su, con tutti i suoi punti orribili e deboli, nonostante tutto, sia una cosa niente male. Che dovevamo fare? Farci mangiare dai leoni per preservarli? Non inventare i vaccini per rispettare i virus? E’ una battaglia sanguinosa, ma negli interstizi ci sono momenti di grande intensità e libertà.
Nella ex scuola greca quando ho assemblato il container di ferro dipinto di arancione, ma che lasciava intravvedere una precendente vernice blu, sul pavimento in graniglia a stelle, ho visto una continuità fra domestico e industriale, due mondi che mi sono vicini, il primo per esperienza, il secondo per idea, molte volte ho messo degli oggetti di industria pesante in casa.
Ho sempre pensato all’arte come estremo artificio, come mezzo per evadere le leggi senza scampo della natura. Noi siamo post Cristiani, è stato il Cristianesimo a dare continuità all’Ebraismo che nella Bibbia da qualche parte dice: …siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare…

Dopo Cristo quindi c’è Andy Warhol e forse io.


* Conversazione pubblicata nel libro di AA.VV., Grape Juice, Maretti Editore, 2014

Quando in volo siamo dei

Conversazione con Flavio Favelli
di Michele Dantini

| MD: Questa nostra conversazione inizia in modo casuale e insieme inevitabile, proprio da questa rubrica. Quasi come una reminiscenza. Tutto ruota attorno alla figura dell’anello. Appare in alcuni piccoli ready-mades di Piero Manzoni, e ne ho scritto su doppiozero qui. All’imbatterti in questo mio articolo tu stesso mi scrivi di avere un rapporto potente con l’anello, tanto da inserirlo in alcune sculture o fotografarlo nel Museo della memoria di Ustica, nei pressi dell’aereo abbattuto. E che la coincidenza ti sorprende…

FF: L‘anello ha a che fare con il corpo, con i tessuti della pelle, come quando è al naso del toro. E’ legato ai sensi, alla precisa sensazione che da qualche parte qualcosa sia legato per così dire nella carne. Forse è una sorta di lapsus, per quanto mi riguarda. L’anello ricorda che da qualche parte queste sculture hanno un legame remoto con il corpo, legame che non voglio tuttavia manifestare in modo aperto.

MD: Curioso: coltivi il segreto e al tempo stesso desideri misurarti con la Grande Storia, il Trauma Pubblico, l’evento condiviso. Ti consideri più un “pittore di storia” o un ermetico?

FF: E’ strana la vicinanza di questi anelli che ho trovato al relitto del DC9; sono sulle colonne del vecchio edificio industriale che ospita l’aereo dell’Itavia. Tante cose mi legano a quel tragico avvenimento, a quel tempo, a quella linea aerea, è una storia che ho vissuto, è un vincolo dolce e amaro allo stesso tempo. E’ un po’ come il piercing, quando lo si maneggia ci sono vari gradi di piacere inscindibili dal dolore.
Preciso che questo piacere, visto che la vicenda dell’Itavia è un avvenimento grave e doloroso, è riferito all’aspetto “formale” dell’evento, al suo aspetto simbolico e al suo significato che spontaneamente gli ho dato, visto i suoi molteplici appigli visivi e psicologici, forse ho trasformato l’aereo in una sorta di Gradiva, una pietra magica, che riflette i mie desideri, le mie paure e i mie sogni. E’ un totem, un capro espiatorio immolato nel conflitto fra due mondi, quello Occidentale e del Patto di Varsavia o se si vuole fra due visioni differenti…
La mia immaginazione si è legata a queste immagini forti ed evocative: l’aereo, il logo ITAVIA così moderno e nuovo, la tragedia, il mare, gli abissi, il mondo militare, il mondo politico e la folle storia di questa carcassa che è essa stessa un’opera d’arte, come i Bronzi di Riace, tirata su dai fondali, ricomposta in un hangar militare, rismontata e rimontata e restaurata in un museo… Ho incontrato questa tragedia, in diretta, sul giornale prima e sul TG1 poi, e ho instaurato un rapporto direi di natura amorosa, perché questo aereo è una cosa che ho investito di un grande potere. Forse le linee aeree così artificiali e moderne, coi loro inutili ma squisiti gadgets, coi loro nomi così nuovi, sono la quintessenza dell’umano che vuole sfidare questa dannata Natura con le sue leggi ingiuste ed inesorabili. La safety card delle linee aeree è un cartoncino con informazioni sulla sicurezza in caso di pericolo, un pericolo mai veramente reale perché nessuno prenderà mai in considerazione la possibilità che l’aereo possa cadere quando è in volo. Posseggo una safety card con in copertina un aereo della Pan Am e sullo sfondo un affascinante tramonto con una scritta “Just in case…”. Non è un raffinatissimo sbeffeggiamento della Natura? Quando siamo in volo, fra un drink e una salvietta profumata, siamo dei nuovi uomini che se ne sbattono delle leggi di natura e del mondo, siamo dei. Sembra una carcassa di aereo ripescato dal mare, ma in fondo non lo è. 

MD: Per Manzoni l’anello equivale a un punto interrogativo dada-metafisico: pone domande, si chiede chi o che cosa verrà ad abitare l’opera, va in cerca di fantasmi che possano ormeggiare. E’ una sorta di concezione figurativa di un dubbio professionale. In te suppongo che l’anello abbia implicazioni meno tecniche, e invece più personali. Sbaglio?

FF: Beh, questa cosa che dei fantasmi possano ormeggiare mi sembra molto bella e profonda. Sì, spesso, per usare un termine che hai posto nella prima domanda, ho delle reminiscenze che amo sviluppare ed estendere in nuova forma. L’anello è un appiglio per stare a galla, per cercare di fissare, trattenere qualcosa, una specie di cippo, come forse tutte le mie opere che servono da appiglio, da ponte, per legare il mio prima ed il mio ora e in mezzo ci sta tutto quello che ho creato. Appiglio per rimanere lontano dagli abissi dell’oblio.
A un certo punto della mia vita si sono presentati questi ricordi così forti, ma anche ingombranti e dolorosi del mio passato che ho dovuto ricomporre e reinterpretare. Ho (è il caso di dirlo) inanellato immagini su immagini per ricostruire un mondo certo passato, ma per me eterno. Questo mondo che richiamo in vita è ambivalente: mi dà dolore e piacere allo stesso tempo. Come quando da bambini i denti da latte “scossavano”: usciva sangue, ma era un dolore dolce, un dolore che annunciava una nuova fase, un sangue buono.

MD: In un tuo breve testo descrivi l’anello come qualcosa che accenna a una “schiavitù”: proprio la sua oscura capacità di attrazione e asservimento, riconosci, ti “rassicura e [mi] dà stabilità”. Cosa temi che ti sfugga? Qual è la perdita di cui desideri scongiurare il dolore.

FF: Ho paura che mi sfuggano le immagini che ho riconquistato. Ho sempre una penna con me per scrivere certe visioni che “tornano su” come dei rigurgiti che per puro caso affiorano, come si tiene anche una penna sul comodino per i sogni. Alcune volte succede che certe immagini germinino dal nulla e sono sempre immagini del passato, conosciute, vissute… strano, anni va ho partecipato alla mostra “La Storia che non ho vissuto”al Castello di Rivoli, ma ero l’unico artista che aveva ricordi chiari del periodo a cui facevano riferimento le opere.
Credo anche che le cose da dove parto, che quasi sempre sono oggetti preesistenti, possano esaurirsi e per questo ne acquisto in quantità. Il rapporto con queste forme del passato non è da confondere con un semplice gusto per l’antiquariato o una scelta vintage, come spesso avviene. Il rapporto con certi oggetti che ritrovo, ricerco, smonto e ricompongo mi dona un piacere immenso e mi rassicura. E’ un rapporto di natura amoroso, psicologica che ha precisi riferimenti, legami, significati. E’ come ritornare nella propria camera quando si è via da tanto tempo, solo che questa camera credo che non sia solo la mia, ma una finestra su un luogo e su un tempo che per me appartiene al mito, non trovo altri termini. Un luogo e un tempo dove mio padre era un poeta, un Uomo con la U maiuscuola, come diceva lui, un Uomo Nuovo che voleva bere Top ogni giorno. Top era il nuovo spumante in piccole bottiglie, diciamo da uso quotidiano. La pubblicità della Gancia recitava: “Arriva Top che contesta il vecchio brindisi”.

MD: Perché credi che questo luogo e questo tempo della tua esistenza, l’infanzia e i primi anni Settanta, appartenga al mito? Sarei anche felice che tu potessi descrivere meglio il tuo rapporto con tuo padre, che appare conflittuale.

FF: Perché vedo che continuamente sono i miei riferimenti visivi e immaginari, percepisco e sento delle vere tensioni, comunico con gli oggetti legati a quel tempo sospeso; tutta la mia arte è legata a questo dialogo con queste immagini, ho ancora bisogno di relazionarmi a loro, di passare del tempo con loro; penso sia ancora un conto aperto con questo periodo che arriva fino alla fine degli anni 90, anzi come ho scritto una volta forse la fine di questa tempo dorato è il 1993, su tutti i cartelloni per la strada c’era la pubblicità della Fiat: “La risposta. Punto.” Per la prima volta i fari posteriori dell’auto sono messi in alto, verticali, tutto è cambiato da lì, l’anno prima c’era stata Capaci, con le Croma sbragate, le ultime ammiraglie. Mi hanno sempre infastidito quei fanali alti, capii che stava iniziando a finire tutto.
Per la verità il conflitto è stato con la famiglia, prima fra i mie genitori ed io in mezzo; fra mia madre, moderatamente aperta, convinta che la Cultura e l’Arte (del passato) potesse salvare il mondo, mio padre, che si sentiva poeta, un misto fra un soggetto Marinettiano e un playboy di Montecatini, ma con gravi disturbi mentali (ad oggi, da una decina di anni sono il suo tutore perché è interdetto) e i miei nonni materni travolti da questa situazione grave.
Dopo tanti anni, ho potuto leggere meglio le due figure maschili della mia vita. E’ stato un conflitto crudele, mio nonno materno, ex ufficiale tornato dalla Campagna di Russia, anticomunista, amante dell’ordine, filatelico, numismatico, elegante e sobrio sempre con l’impermeabile Burberry, quando Burberry voleva dire stile che solo l’Impero Britannico –la perfida Albione- poteva dare, ha annientato mio padre, un uomo fragile e realmente schizofrenico (è il termine usato dalla perizia psichiatrica) che si sentiva poeta e voleva vivere appieno il “logorìo della vita moderna”.
Ma ho l’impressione che non riuscirò mai ad avere una comprensione obiettiva della faccenda; è stato tutto così pesante, ingombrante, a volte quasi irreale… Mio padre oggi mi parla ancora di mia madre come se fossimo nel 74, a volte mi chiede “che si dice in giro?” e so che si riferisce ai circoli, agli ambienti letterari, alla poesia, come se fossi ancora un bambino a Firenze.
Mio padre ha sempre vissuto come speciale il suo tempo e tutti i suoi momenti: quando si è artisti si vive sempre con un faro acceso addosso, un occhio di un dio dietro le spalle, lo sguardo del mondo che ti segue sempre, una platea seduta e composta sempre attenta.

MD: Ho un rapporto ambivalente con la tua opera, considerata nell’insieme. Ne apprezzo la potenza, al tempo stesso resisto alla sua chiusura interna. In un celebre libro lo storico delle idee Isaiah Berlin contrappone la volpe e il riccio per illustrare due diversi temperamenti o caratteri umani. La volpe esemplifica il temperamento curioso e esplorativo. Il riccio il temperamento tragico. La volpe, per Berlin, è in parte un emblema dell’intelligenza illuministica, mobile, acuta, mercuriale. Il riccio invece dell’individualità romantica, risolutamente posta a protezione di sé stessa e della propria unicità. Ti annovererei tra i ricci: senza indugio. Quali rapporti, a tuo parere, l’arte intrattiene con l’arcano, il lutto e la memoria? Tu corteggi la dimensione mistico-esoterica, quasi devozionale. Credi che l’arte possa giocare ancora la carta della profondità?

FF: Chiamerei anch’io devozione la cura che ho per i luoghi e per gli oggetti che continuamente ripropongo. Credo molto nell’opera che traduco a volte con ambienti e altre volte con cose. Ritengo di presagire qualcosa prima, già in un’oggetto stesso, perché questo si “carica” ai miei occhi di immagini e pensieri volontari e involontari. Si carica come per effetto di una reazione chimica. Tento allora di assecondare questa impulso, continuare questa catena, anello dopo anello… Accosto, metto insieme, congiungo, attacco e ricompongo. L’arte ha un grande potere. Intendi la “profondità” che può portare a cose più complesse e vitali o perfino agli inferi? Senza passare per gli inferi non si va da nessuna parte. La dimensione mistica-esotericia cui alludi è pagana: sono l’adepto di una religione con molti dei, dove le cose parlano e lo spettacolo della seduzione prevede scene grandiose. Alla fine tutte le immagini profonde e complesse seducono, non so se l’arte sia cattiva imitazione, per anni ne sono stato convinto, ora forse sono più morbido, credo che abbia una sua autonomia, non mi sento mancante di qualcosa quando sono fra le mie immagini. Diffido invece di ciò che chiami “l’arcano”: presuppone conoscenze esoteriche che non cerco né possiedo. Magari invece mi perdo per anni a provare e riprovare dei pezzi di pavimento su un mobile tagliato. O a mettere insieme delle vecchie bottiglie di Fanta… Con la memoria non ho un rapporto semplice. A volte sono stato sempre indicato come quello che si interessa alla memoria, ma questa ha un’accezione sempre troppo pubblica e questa cosa non mi piace. Voglio essere chiaro. Non desidero migliorare la società con la mia opera, non me ne voglio occupare, non mi sono mai posto il problema se l’opera sia dalla parte giusta, abbia qualche scopo positivo o peggio ancora un fine. Se c’è qualche memoria, c’è solo quella mia personale. A volte si unisce poi alla memoria del mio Paese.

MD: Alcuni scatti documentari che mi mostri ritraggono l’aereo abbattuto a Ustica, oggi conservato nel Museo della memoria. A lato dell’aereo è una colonna, e dalla colonna pende un anello. Quanto è rischioso, per un artista solitamente così ritroso come tu vuoi essere, oltrepassare l’ambito dell’esperienza personale e commentare circostanze di rilievo pubblico?

FF: Date a Cesare quel che è di Cesare… forse è il modo più equilibrato per amministrare il proprio rapporto con le circostanze di rilievo pubblico. La strage di Ustica mi si è imposta come tema alcuni anni fa (memoria involontaria?), è emersa come il cadavere di uno dei passaggeri dell’aereo nella celebre e tragica foto che apparve sui giornali due giorni dopo il 27 giugno 1980. Nel 2007 fui invitato a proporre un mio progetto per la mostra Ambient Tour, organizzata alla Fondazione Sandretto a Torino e dedicata a temi ambientali. Pensai al mare e mi apparvero i cadaveri dei passeggeri dell’aereo. Avevo visto la celebre foto dei passeggeri morti in mare nella mia casa di Pavana, il paesino sull’Appennino Pistoiese dove abita anche Francesco Guccini. L’avevo vista pubblicata sul Resto del Carlino quando avevo 15 anni e, come tutte le estati, ero là in vacanza con la famiglia – o quantomeno con quello che rimaneva della famiglia. La casa di Pavana è un villino degli anni Trenta preceduto da dodici tigli: i grandi alberi ci affiancano se saliamo la lunga rampa di gradini. Questa casa è una specie di santuario della mia vita, là riposano reminiscenze, echi, che rimangono sospesi perché nessuno tocca nulla, ci sono negli armadi con ancora i vestiti dei nonni che sono defunti da tempo… Forse il vedere quella foto sul giornale in bianco e nero, il cadavere chiaro e il mare nero, come fosse un pozzo, un pezzo di abisso, ha reagito con l’ambiente carico di immagini reali e psichiche che mi circondavano e si è ammantato di una carica grave, carica di tanti significati…
Un secondo episodio associato a Ustica: è la partita pomeridiana del 5 luglio 1982 Italia-Brasile in Spagna per il Mondiale. Ero da solo nello stessa stanza a Pavana, nello stesso divano dove, due anni prima, avevo visto la foto dei passeggeri del volo Itavia. Era tutto molto strano perché la partita era al pomeriggio, c’era il sole sia fuori che in campo, certo le partite del campionato erano sempre al pomeriggio, ma mai in televisione, di solito le partite in diretta della Nazionale erano alla sera. Allora ogni cambiamento lo percepivo con inquietudine, con malassere. Mia madre e i nonni mi avevano lasciato solo. Si capiva l’importanza dell’evento dal tono del cronista e dalla solennità dello spettacolo con le formazioni scandite dalle scritte sovraimpresse con un carattere digitale freddo come quelli del videogioco Space Invaders. Non so perché rimane quasi tutto sospeso e quasi immacolato nel ricordo, ma il fatto che sia successo nella casa di Pavana mi conferma che quella casa è per me un luogo segnato. Contiene età preziose che non trascorrono mai e che rimangono chiare e ferme.
Questi due episodi che ti ho raccontato mi lasciarono un profondo senso di solitudine e dolce amarezza che ancora oggi riconosco e spesso ritorna. Gli abissi del mare nero forse non erano i soli: anche fuori dal mare c’erano profondità buie. Una volta scrissi dei pensieri sulla casa di Pavana: “i ragni urlano nelle siepi”. Purtroppo non erano solo paure di brutti sogni, ma vicende reali di mondi che si scontravano, di epoche, di mentalità: la mia famiglia è stata un grande campo di battaglia.
Il silenzio della casa, dell’estate mai spensierata di Pavana era quasi più forte dell’audio della partita che vedevo come una grande festa pagana e maschia, piena di tensione. Il Brasile! Le tifose ballerine in costume sugli spalti, i coriandoli in un catino rovente con i gladiatori sudati. Quella partita, poi, ha cambiato la storia del calcio.

MD: Come descriveresti il tuo rapporto con la storia dell’arte, in particolare con la storia dell’arte italiana antica? Questa o quell’immagine del passato mantiene ai tuoi occhi la capacità di preservare misteri o dispensare segreti?

FF: Spesso provo un deciso rifiuto per tutto ciò, quando sento “storia dell’arte” non riesco a non pensare a mia madre. Lei ha usato la storia dell’arte, “il bello che salva” per fuggire dalla situazione difficile della famiglia, ha cercato una specie di rifugio nella storia del passato. Fin da bambino mi portava con sé: da Ravenna a Roma e poi tutta l’Italia e tutta l’Europa. I Bronzi di Riace esposti a Firenze… Questa iniziazione forzata mi ha talmente segnato che mi è difficile metterla da parte. Ho una solida memoria visiva e le immagini della storia dell’arte italiana per me vogliono dire gite organizzate per vederla dal vero.
Quante volte ho visto mia madre implorare il custode di turno, di solito a pranzo, per aprire la chiesa, il chiostro, il palazzo altri tempi. Ho fatto un intero progetto sul Mausoleo di Teodorico, esposto anni fa a Pesaro, forse una delle architetture più misteriche e sinistre che ci siano… Ma lo vedo in quel modo perché – ritorna sempre questo della cosa che non è al suo posto che mi manda in crisi – abituato al centro delle città – sono nato a Firenze e poi ci trasferimmo a Bologna, ma sempre nel centro storico – vidi per la prima volta il monumento in mezzo a un prato incolto, una specie di piana desolata e triste, in periferia che non nascondeva il suo passato di palude. Non ero pronto a vedere un’opera d’arte che sembrava abbandonata. Quando dici misteri e segreti, non posso fare a meno di pensare all’Egitto. Le immagini della scoperta della tomba di Tutankamon mi hanno sempre scosso. Le trovai in uno dei primi libri che ho letto. Solo dopo molto tempo ho capito che il ritrovamento di una tomba quasi completa che svelava queste immagini di uno strano magazzino-archivio-cantina con un ordine complicato, un disordine organizzato, per me era stato importante. Oggetti così diversi fra loro, banali attrezzi e preziossime suppellettili. Cose d’uso quotidiano, estremamente semplici in apparenza, provviste però di un senso rituale, quasi magico. A fine anni Novanta iniziai non a caso un ciclo di opere dal titolo Archivio.

MD: L’anello rimanda a un’enigmatica scelta di fedeltà: a una condizione “intransigente”, come tu stesso mi scrivi, in cui non si può essere altrimenti da quello che si è. E’ una condizione solo individuale, oppure storica, geografica, di classe, generazionale? Accetteresti di considerarti testimone o interprete di una vicenda collettiva? I tuoi “assemblaggi” di mobili antichi destano in me un effetto di antica sacrestia: tutto è silenzio, indeterminatezza, sospensione e sacro. Attorno aleggia la tua ironia.

FF: Alla fine tutto insieme. La mia condizione individuale è caratterizzata ovviamente da tutte le altre cose, nessuno vive in una torre d’avorio. E’ interessante che nomini la classe. A volte qualcuno mi ha fatto capire che avevo sbagliato classe e non eravamo di certo a scuola. Diciamo dannatamente individuale, con un abbondante contorno di una famiglia dilaniata da conflitti di classe e mentali.
Dicevo della mia condizione segnata anche da una bella “spinta” storica, dai luoghi, da una città-museo (Firenze) e dalla “luce” dell’università di Bologna. Bologna è anche però la città del tortellino, la grassa, città orale. La mia nonna materna Tosca ha incarnato tutto questo nella sua vita: il gusto, la cucina, il cibo, una vita tesa verso il complesso cosmo del cibo.
Essere nato poi alla fine del 1967 ha il suo significato: posso dire di avere esultato per l’Italia campione del Mondo nel 1982 e di aver vissuto quel senso di benessere, certo effimero, ma importante di quel decennio. Gli anni Ottanta sono stati anni difficili e tragicamente intensi per me, diabolici, magnifici. Ho visto, in un momento storicamente gentile, due cose assolutamente magiche: nel 1981 la salma imbalsamata di Lenin a Mosca e nel 2012 quella di Mao a Pechino. Possiedo anche un Grochi Rosa e tante cose da arredare un’intera tomba.

MD: Un’ultima domanda secca, per una risposta altrettanto secca. Morandi o i CCCP (o entrambi)?

FF: Non posso rispondere in modo deciso perchè ho un dubbio: non so se intendi Giorgio o Gianni, in entrambi i casi sono accostamenti stranianti. Se fosse il primo apprezzo questo raffronto tutto emiliano fra pittura difficile vs musica facile (dico facile forse perché non mi è mai piaciuta la voce di GLF o perché in fondo quel genere di musica non mi ha mai interessato) e senza dubbio sceglierei l’artista di via Fondazza che ho percorso per più di trent’anni; se fosse il secondo, mi astengo.

* Conversazione pubblicata su Doppiozero.com