La fiera dell’arte o Arte Fiera, un nome all’inglese e poi riconvertito in italiano, aveva un logo bellissimo, un sol levante quasi intero rosso-arancio, come sospeso, con una grafica pulita in un gioco di lettere vuote e piene. Non so bene se questa bellezza fosse tale perchè legata a certi momenti densi e drammatici della fine degli anni 70 -il dramma nei ricordi diventa spesso bello- o perchè fosse veramente nuova e audace, ma rimane una cosa del passato come l’indiscussa importanza della fiera stessa. Quando si entra da Piazza Costituzione c’è molto moderno, molto cemento e ferro; si notano subito le strutture e gli infissi dello stesso colore del sol levante rosso-arancio a ricordarci che una volta si andava per contrasti forti. La fiera dell’arte è diventata sempre più la fiera con l’arte intorno; famoso in un padiglione di anni fa il (grande) vetro dove dietro lavoravano le sfogline per un ristorante temporaneo con le pareti in cartongesso. E’ come se in qualche modo le patine lasciate dalle mostre dei motori, delle piastrelle e delle macchine agricole indebolissero le opere esibite, l’arte stessa, negli stessi casermoni e illuminate da faretti a luce gialla. Gli spot, i piedistalli, le moquette grige, i tavoli coi fiori, qualche stand (non c’è parola italiana decente per definire un’idea di stanza effimera marcata da cartelli, senza soffitto e con pannelli di compensato riverniciati) che prova a distinguersi con pareti nere o in tessuto ignifugo, tentano di guarnire in qualche modo un mercato coperto annuale dell’arte con un centro servizi. La fiera con la sua propaganda, oltre a riuscire a nominare della gente comune come VIP, è così autorevole che conferma in maniera decisa il valore dell’opera dell’artista. Il grande complesso riscaldato di piazza della Costituzione è stato uno dei primi luoghi al mondo dove, insieme ai panini della Camst e ai flute della maison di champagne che ha sempre il suo chiosco, si consuma uno dei più grandi drammi della nostra storia: l’opera d’arte moderna e contemporanea diventa l’unica merce capace di mantenere allo stesso momento opposte proprietà; l’opera può avere un alto valore commerciale ed essere di una natura esclusiva, à la page, un simbolo di distinzione e di classe e insieme mantenere inalterata la sua natura critica, bastarda, reietta ed estranea alle leggi mondane. L’opera d’Arte Fiera è l’unica cosa che incarna e abiura allo stesso istante, come se un brodo potesse essere sciocco e salato allo stesso tempo, le due leggi che muovono il mondo: la mercificazione della donna e il denaro. Negli spazi istituzionali, insieme agli stands di musei e fondazioni che cercano di captare gente, ci sono le banche, oramai di casa in fiera, con servizi di consigli per gli acquisti. E anche quella off che espone alla Stazione Autolinee, un altro spazio molto moderno che ora sembra quasi uno squat, si chiama con un nome inglese che fa rima con gli affari. Durante l’Arte in Città o Art City, la fiera dell’arte che si sposta in centro, spicca quest’anno Lo scintillante mondo di Murakami Takashi in Galleria Cavour, che è -ci informa il comunicato- la galleria dello shopping hight brand nel cuore di Bologna.