I Totem

La lettera del signor Gianluigi Parmeggiani non coglie il senso ironico di quello che avevo inteso. Da più parti ci si è espressi per il ritorno delle sculture di Arnaldo Pomodoro in piazza Verdi. Anch’io sono d’accordo e proprio come il signor Parmeggiani le ricordo come integrate nella piazza (così integrate e vissute che erano coperte di scritte e manifesti). Pongo però, da artista, un problema: quelle tre sculture (si chiamano Cilindri o Colonne Pomodoro non è contento quando si chiamano Totem) non sono state progettate per quella piazza. Sono state messe lì, certo con criterio, lo stesso criterio che è stato usato per i container, cioè la scelta congiunta di artisti, architetti, urbanisti e tecnici che si pongono il problema, visto che è la loro professione, di dove collocarle. Credo che qualsiasi opera di arte moderna e contemporanea difficilmente si possa inserire in un contesto antico, pieno fra l’altro e a sua volta, di differenti elementi che solo il tempo ci ha convinto della loro bellezza. La penso proprio come i conservatori, l’arte moderna e contemporanea non c’entra nulla con le nostre piazze, solo che io credo che questo scarto, quello che fa gridare al cittadino medio e ai reazionari “non centra nulla col contesto!” sia un motivo di grande interesse che presenta immagini inedite su altre immagini. I tre Cilindri in bronzo con varie patine, non c’entrano nulla col contesto di piazza Verdi, sia perchè sono delle opere di arte contemporanea, sia perchè sono state fatte senza prendere in considerazione il contesto della piazza. Se tanti sono per il loro ritorno è solo perché le hanno viste lì da tempo (gli anni ’70 sono già Storia) e le percepiscono come parte del paesaggio perchè, volenti o nolenti, hanno partecipato alla Storia della città.

Via Guerrazzi 21

Non c’è posto più fantasmatico di Via Guerrazzi 21.
Ho vissuto ventisette anni fra il primo e secondo piano in tre appartamenti di questo palazzo. Sono venuto qui nel 1974. Mettendo insieme tantissimi momenti direi che alla fine ho passato qualche settimana della mia vita a guardare il giardino interno, le palme a volte con la neve, i fiori del Calicanto e quelli della Magnolia sempreverde.
Via Guerrazzi 21, insieme alla casa di Pavana, è il luogo dove si sono consumate tutte le faccende della mia famiglia, una grande opera letteraria, dove sono stato un personaggio centrale; in fondo con me finisce tutta la storia. Figlio unico e da dieci anni tutore, quasi a difendere e custodire poeticamente e legalmente tutta questa roba.
Roba perché quello che rimane sono mobili, immobili, oggetti ed immagini di una vicenda infinita. All’ultimo piano delle scale ripide e buie, ora tinteggiate da un colore da Soprintendenza, non mi avventuravo mai perché abitava una strana persona, elegante e distinta, sempre con gli occhiali scuri anche se era buio; il Signor B. era invertito come ammoniva mia nonna Tosca. Nell’altro appartamento abitavano le Signorine S. due sorelle anziane quasi invisibili di Palermo che contribuivano al silenzio e all’idea che l’eccezione confermava la regola: in centro a Bologna ci abitavano i bolognesi.
Il primo grande appartamento aveva i pianciti con la veneziana e i soffitti altissimi, uno era affrescato e mio padre aveva messo due faretti colorati uno giallo e uno blu su un ripiano sopra lo stipite della porta, a smalto lucido avorio, per dare un effetto scenografico. Una volta mia madre fece un pranzo per cinque dei mie compagni della scuola media, anche se non ne capii mai il motivo. Da bere c’era spremuta fresca servita in una brocca-thermos con l’interno in vetro e l’esterno in sughero, lavorata e argentata.
Prima di versare mia madre mescolò per un’ultima volta e il vetro scoppiò, un vetro quasi specchio, marezzato con riflessi ottone. Una volta il nonno Carlo, marito di Tosca, mi rimproverò perchè stavo mescolando il tè in senso antiorario.
Non si mescola al contrario! mi riprese.
Tutto aveva un verso e un posto per lui, i piloni del mondo si reggevano con la precisa applicazione delle giuste regole fra cui mescolare in senso orario. Regole chiare di differenti provenienza: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze borghesi. Restai sempre col dubbio che mia madre quella volta mescolò in senso contrario, in modo invertito.

Il monumento al container

C’è un architetto che ha progettato per Piazza Verdi un luogo temporaneo con una delle più versatili e familiari strutture della nostra epoca: il container. Le feroci critiche (non centra nulla col contesto!) fanno parte di un punto di vista che vuole che il contesto rimanga sempre tale. Si considerano però il Crescentone (il suo audace decoro-disegno, ammesso che qualcuno l’abbia mai notato, non c’entra nulla) e le sculture di Arnaldo Pomodoro invece parte del contesto solo perchè le hanno viste per un po’, le hanno digerite. Non so se il giovane architetto, sebbene voglia dare scandalo, ne sia consapevole, ma chi progetta, visto che è il suo mestiere, vuole dare una visione e un significato. E allora se un architetto mette, per qualche mese, una torre di ferro di un colore approvato dai controllori del contesto, nella città delle torri, e si grida allo scandalo, allora bisogna iniziare a chiedersi delle cose. Una storiella, non proprio da buttare e da raccontare ai nipotini, potrebbe essere che questi benedetti containers che stanno negli interporti e nelle periferie (che sono brutte, mentre invece le piazze del centro sono belle) sono proprio il simbolo della globalizzazione e sono quelli che ci portano, come Babbo Natale, tutta la nostra cara merce che ogni giorno desideriamo che ci arrivi al pianerottolo di casa. E’ l’altra faccia della medaglia, insieme, ad esempio, alla condizione di quelli che ci lavorano o al contesto di enormi capannoni fatti per contenere tutti i desideri che arrivano col corriere. Se per una volta, per qualche mese, le cose che stanno nei posti brutti, vengono (riverniciate) nei posti belli, non sembrerebbe un gran scandalo, a meno che non si voglia mettere sempre la polvere sotto il tappeto. O sotto il Crescentone.

Versus. Il dibattito tra partecipazione e introspezione

Riparte la rubrica Versus con un nuovo ciclo di doppie interviste ai protagonisti del contemporaneo in Italia. La prima sfida vede contrapposti Marinella Senatore e Flavio Favelli: da un lato il tentativo di orchestrare processi creativi collettivi, dall’altro un approccio fondato sul ricordo e sull’autobiografia.

A proposito dell’opera di Marinella Senatore, Hou Hanru (in Marinella Senatore. The School of Narrative Dance Roma, Nero Publishing, 2016) ha scritto che: “È un progetto in divenire che punta all’impegno sociale attraverso le azioni artistiche e il cui nucleo è la partecipazione”. Flavio Favelli invece, in un’intervista rilasciata ad Antonio Grulli e pubblicata su Flash Art nel 2012, dichiarava: “Nell’arte – mi sa più che nella vita – si è soli. Non c’è nessuna parte da tenere se non fare i conti con se stessi”. Due artisti con idee e concezioni opposte: nello spirito di Versus, lo scontro e la discussione sono pretesti per conoscersi meglio e cercare punti di contatto.

Vincenzo Merola: Partiamo da una questione fondamentale. Entro quali limiti è possibile (se ritenete sia effettivamente possibile) la condivisione delle esperienze creative? Il pubblico dovrebbe affacciarsi rispettoso sulla sfera intima e privata dell’artista, oppure avere un ruolo attivo nella costruzione dei significati?

Marinella Senatore: Ovviamente la mia pratica testimonia non solo che la condivisione dell’esperienza creativa è possibile, ma soprattutto che per alcuni artisti non è interessante l’aspetto solitario della ricerca, bensì la condivisione dei processi e delle esperienze. Ciò non significa annullamento della propria personalità e delle proprie idee; penso piuttosto a un sistema analogo a quello dell’orchestra, in cui tutti suonano lo stesso pezzo, ma con una partitura differente e con il timbro peculiare di ogni strumento. Non si tratta di ridimensionare la creatività o il pensiero dell’artista, ma di esaltare competenze e desideri nella pluralità. Per quanto mi riguarda, poi, non ritengo minimamente interessante che ci sia una gerarchia da osservare o una particolare forma di rispetto verso una persona che accende e istiga un processo di tipo creativo. È proprio il contrario: l’artista ha un ruolo nella società al pari di qualunque altro essere umano e ci sono tante dimensioni in cui il lavoro artistico può generarsi e svilupparsi.

Flavio Favelli: Penso che l’arte sia elitaria per sua natura. D’altra parte l’opera comunque fluttua e attraversa, anche se è stata pensata in solitudine e senza nessuna preoccupazione riguardo ad un ruolo attivo. Nessun artista vive in una torre d’avorio e così le immagini in qualche modo rilasciano significati multipli e inediti che si posano nei fiori più aperti; l’opera d’arte è condivisa e attiva per sua essenza, così come l’artista consapevole partecipa al suo tempo. Il pubblico è una faccenda mentale, in realtà non esiste o forse sarebbe meglio che non esistesse.

V.M.: Meglio lavorare con le persone o con gli oggetti? Qual è la materia prima ideale per un artista? Cosa accade quando l’uomo diventa insieme destinatario e significante dell’opera?

Marinella Senatore: Credo che individuare negli esseri umani la materia prima di un intervento artistico non sia esattamente congeniale a quello che si intende come arte partecipativa o socially engaged, perché sostituire una materia con un’altra prevede comunque un ruolo dominante e implica un mero utilizzo da parte dell’artista, e trattandosi di persone può essere pericoloso e fuorviante. Nei progetti partecipativi e corali che mi interessano, i linguaggi credo che siano la vera materia prima.

Flavio Favelli: Credo che l’artista lavori con le immagini e credo anche che sia una questione di esigenza e di fine. Posso dire, al di là di nobili propositi, che il vero motore per me è un’eccitazione che sta fra il piacere e lo smarrimento, la soddisfazione di risolvere un’immagine e la profonda estasi di comprenderne il nuovo significato. Tutto ciò può essere visto come semplice egocentrismo, ma la realtà è diversa. Ad esempio un mio progetto sul mondo militare, nato da immagini irrisolte di mio nonno e senza avere intenti di condivisione, è stato omaggiato dal Presidente della Repubblica perché per lo Stato e i familiari delle vittime è stato capace di rappresentare tutti i militari caduti. Senza prescrizioni e scopi precisi, l’opera va da sé.

V.M.: Trovo molto interessante la scelta delle parole nelle vostre risposte: linguaggi e immagini. Più che materie prime, almeno semilavorati. Non pura forma, ma segno completo. Vorrei approfondire il discorso relativo alla genesi dell’opera. Chiederei a Flavio se si sente artefice, se riconosce pienamente il suo ruolo di autore o preferisce quello più sfumato di mediatore, in un processo continuo di rielaborazione delle immagini. Invece mi piacerebbe analizzare con Marinella, che rifiuta un’impostazione gerarchica e modelli calati dall’alto, le strategie da lei adottate affinché i partecipanti ai suoi progetti percepiscano la sua figura come quella di un semplice “attivatore di energie”, senza avvertire pressioni o limitazioni.

Flavio Favelli: Sento e credo che quello che ho vissuto nel mio passato, una storia familiare non facile, e la mia reazione a questo, oltre a occupare ancora la mia mente, sia un qualcosa di generativo. E anche paradigmatico della storia italiana negli anni ‘70 e ‘80. Considerando che questa storia è globale, perché l’Italia è sempre stato un paese globale, allora le nuove immagini e situazioni che compongo e ricompongo da questo mio pantheon creano differenti possibilità. Interpreto una parte, che oltre ad essere la mia, appartiene ad un ruolo che è quello dell’artista che fa sì che, ad esempio, ciò che è biografico diventi in qualche modo pubblico. Sta al pubblico poi comprenderlo. La funzione dell’opera, ammesso che ne abbia o ne debba avere una, è quella, semmai, di accendere qualche scintilla.

Marinella Senatore: Il mio rapporto con i partecipanti è innanzitutto basato su una relazione vera, su una condivisione di tempi e di spazi molto diversa da quella meccanica dell’arte relazionale storicamente da noi conosciuta. Credo che questa sia già una differenza abissale: conoscere e vivere per un tempo, anche relativamente lungo, con le persone con cui collaborerai è sostanziale. Io costruisco piattaforme dove non mi sento meno autore in quanto poi la creatività è condivisa con altri, anzi! Nel mio essere attivatore tutta la mia energia ed autorialità si esprimono al massimo. È un processo molto naturale, forzarlo porterebbe a risultati dannosi e deludenti. Non credo che opere la cui genesi è quasi opposta parlino esclusivamente ai propri autori, basti pensare alla storia dell’arte! Le nostre piattaforme sono davvero aperte e c’è la possibilità di “sbagliare”. Il mio ruolo è quello di entrare e di uscire anche come partecipante e di essere estremamente flessibile.

V.M.: In definitiva, al di là del gioco degli opposti, sappiamo bene che la ricerca della solitudine e il bisogno di socializzare sono componenti irrinunciabili nell’ambito creativo come nella vita quotidiana. Vorrei concludere questa chiacchierata parlando di emozioni e di sentimenti, lasciando da parte ogni intellettualismo. In quali circostanze cercate il contatto umano e cosa vi spinge invece ad allontanarvi da tutti? A prescindere dalla pratica artistica, vi considerate persone riservate o espansive?

Flavio Favelli: Credo che la mia scelta, diciamo autobiografica, sia per tentare di portare il dentro, fuori. E quindi la mia ricerca è intrecciata da una questione privata e intima che ha delle distanze con l’intellettualismo perché parte da questioni sentite. Ritorno sull’opera Gli Angeli degli Eroi: mettere insieme il fascino marziale dei sacrari, la bellezza delle uniformi e la presa di distanza da un mondo reazionario di cui, nonostante le belle parole, siamo complici da sempre, proviene da un sentire ambiguo, per nulla idealista, che considera l’arte su un differente piano da quello delle scelte civiche e politiche. L’arte non è giusta o sbagliata, proprio come la nostra anima. Per risponderti: sono espansivo solo se parlo della mia riservatezza.

Marinella Senatore: Credo di essere una persona molto espansiva o quantomeno una persona che ha bisogno di condividere la propria energia. Non mancano i momenti in cui ho bisogno anch’io di fare un percorso più solitario, anzi direi che capita sempre dopo un’esperienza di tipo collettivo. A volte riesco a lavorare con migliaia di persone cercando di costruire nei mesi una reale vicinanza o quantomeno uno scambio ed è quasi un’urgenza poi aver bisogno di rientrare in una propria intimità. in questa fase lavoro molto per esempio col disegno, che è quasi terapeutico perché mi aiuta ad elaborare una quantità infinita di cose, o mi capita di scrivere. Dunque credo che in realtà la ricerca dell’isolamento e la necessità della socializzazione dell’esperimento creativo collettivo siano facce della stessa medaglia.

Conversazione pubblicata su Artribune il 14 gennaio 2018.