I mercanti

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Marco 11,15-17: 15 Andarono intanto a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 16 e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. 17 Ed insegnava loro dicendo: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!». Matteo 21,12-13: 12 Gesù entrò poi nel tempio e scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe 13 e disse loro: «La Scrittura dice: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri». Luca 19, 45-48: 45 Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori, 46 dicendo: «Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri!». 47 Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; 48 ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole. Giovanni 2, 13-16: 13 Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14 Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15 Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16 e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato! ». Letture consigliate prima di visitare il Presepio dei Commercianti, detto anche dai petroniani, Presepe Ascom.

L’arte giovane

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Si è parlato recentemente di un fondo a sostegno dell’arte contemporanea attraverso il quale il Comune di Bologna acquisterà opere di giovani talenti da destinare al MAMbo. In questi anni le opportunità per i giovani nell’arte non si contano, del resto i concorsi e premi sono quasi solo per under 35. Ma c’è un vizio di fondo: se i giovani vanno aiutati è perché si pensa che i meno giovani ce la possano fare e se nel mondo del lavoro può essere vero (ma uno dei grandi problemi oggi è la collocazione gli over 50), nell’arte non si può ragionare in questo modo. I non giovani sarebbero così quelli che vendono, come se il corso naturale del fare arte e il suo scopo fosse vendere con una galleria ed avere un mercato (certo è la realtà, ma perché poi tutti si lamentano oggi della commistione fa arte e mercato?) e quindi si dà per scontato che siano arrivati, cioè che solo il mercato sia il fine dell’arte, per cui una volta raggiunto, siano tutti appagati. Un altro vizio è quello dell’idea di profitto: i giovani sono un investimento; se questo ragionamento può tenere per il collezionismo (che non è mai mecenatismo e a cui piace la scommessa) per l’ente pubblico suona male anche perché il soggetto dovrebbe essere solo l’opera dell’artista e non un ragionamento sull’età che in sostanza ricalca il pensiero imprenditoriale. Se invece il motivo fosse la novità, cioè il giovane ha idee più nuove, come nel mondo del lavoro, questo non ha nessun riscontro nell’arte. La produzione dell’artista non ha regole e non può essere presa in considerazione rispetto all’età. In Italia vivere di arte non è semplice considerando che non c’è nessuna agevolazione nel Paese dell’Arte dove, fra l’altro, tutta la politica ad ogni inaugurazione dichiara sempre che l’arte è la linfa e il simbolo del paese. Se le gallerie, i collezionisti, molti artisti e il sistema pensano al mercato, l’istituzione diventa l’unica isola di salvezza di una situazione che in fondo tutti, almeno a parole, detestano. Sostenere solo i giovani è un procedimento del tutto simile al processo di investimento e di capitalizzazione tipico dell’impresa, ma che non può essere applicato all’arte.

Popolo e rusco

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

A Savigno, recentemente, sono stati sostituiti i nuovi cassonetti per la raccolta differenziata della plastica. Rispetto a quelli di Cosea, i nuovi di Hera non si aprono a pedale, ma hanno due bocche fisse, ognuna poco più grande di un foglio protocollo. Questo nuovo modello obbliga a mettere solo un pezzo di plastica alla volta, presupponendo una popolazione gaia e spensierata che nella giornata non ha un tubo (di che materiale?) da fare se non quello di inserire con attenzione e precisione magari una dozzina di bottiglie, qualche flacone, un po’ di recipienti, una pila di vaschette, una manciata di barattoli, rigorosamente pezzo per pezzo (e nemmeno lasciando cadere, ma pure spingendo per superare le strisce di gomma frangivento ed antipioggia). Operazione che prima si risolveva con un unico gesto: mentre il piede spingeva il pedale, un apriti sesamo inappuntabile, si buttava con grande sollievo, in men che non si dica, un solo sacco pieno di plastiche attentamente raccolte in settimana. Considerando che la spesa della tassa sui rifiuti, il tempo per separare i diversi materiali e il loro (ri)confezionamento per poi portarli nei gran bidoni finali, sono dei doveri privi di ogni interesse e piacere, il passare da un gesto liberatorio ad uno lungo (e se piove?) noioso, disagevole e scomodo compito (il barattolo ha sempre qualche goccia di gelato, il flacone di detersivo, la bottiglia di succo di frutta che nel trasporto si versano l’un l’altro in una miscellanea di colori e viscosità), comporterà sicuramente un grande e gravoso impegno. I cartelli informativi sono chiari, uno in alto e uno in basso, con due icone tanto morandiane quanto globali, che rappresentano il flacone universale e la bottiglia di plastica e indicano che solo quei due formati vanno inseriti nelle bocche così suggerendo che tutti gli altri tipi andranno nell’indifferenziata. Ma i savignesi, forse scarsi di usta, non l’hanno compreso, poichè giacciono da giorni molti sacchi pieni di plastica varia, buttati là, proprio davanti ai nuovi cassonetti gialli.

Arte oggi

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Recentemente il MAMbo e la galleria De’Foscherari hanno aperto mostre su Cesare Pietroiusti e Mario Airò due artisti nati fra la metà degli anni 50 e gli inizi degli anni ‘60 che hanno sicuramente in comune una pratica distante da chi in qualche modo si riconosce facendo pittura e scultura. Al vernissage in via Castiglione nella storica galleria bolognese c’erano, insieme al suo pubblico classico – da Walter Guadagnini a Pier Giovanni Castagnoli – molti artisti fra cui Eva Marisaldi, Luca Vitone, Cuoghi e Corsello, Vedova Mazzei oltre a Gino Gianuizzi, l’animatore per trent’anni della famosa galleria Neon. La De’Foscherari è la galleria storica della città (prima con sede vicino a Galleria Cavour e poi di fianco a Piazza della Mercanzia) con un programma -così dice nel suo sito web- “svolto in due direzioni strettamente connesse: l’attenzione alla tradizione criticamente consolidata …e l’interesse per la ricerca e la sperimentazione”, termine quest’ultimo molto ampio: se lo pensiamo fra gli anni ‘80 e il 2000 è sicuramente molto distante da quello inteso dalla galleria Neon che è stata, come dice il suo fondatore in una recente intervista “..un’azione dadaista/ situazionista/ anarchica. Post ’77, post-punk…” sottolineando in modo ben diverso dall’idea di galleria d’arte “… quando abbiamo deciso di iniziare Neon non sapevamo davvero che cosa avremmo voluto fare; non avevamo risorse economiche…” E così fa un certo effetto vedere l’altra sera in via Castiglione, forse per la prima volta insieme , questi attori con passati così differenti e idee e operati tempo fa sicuramente inconciliabili fra loro. Considerando poi che artisti come Luca Vitone ed Eva Marisaldi, i primi che hanno animato agli inizi Neon, hanno esposto recentemente alla De’Foscherari, si conferma la tendenza, anche per la neo-avanguardia, a posizionarsi in ambienti più solidi.

Lo sciamano

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Il Resto del Carlino giorni fa chiudeva la notizia sugli eventi di Boltanski con un Appuntamenti imperdibili per gli amanti dell’arte contemporanea, nei prossimi mesi protagonista principale… È interessante perché ci dice il punto di vista di un giornale popolare, della gente, sulla questione dell’arte contemporanea che riguarda un artista riconoscibile e non difficile da comprendere. Il tema delle sue opere sembrerebbe chiaro: cerca di preservare il tempo e il ricordo, pratica italiana, fra l’altro, assai comune: non si conservano le ricette culinarie della tradizione, che sono la memoria del territorio e della nostra identità? Eppure questa precisazione che è un evento imperdibile solo per certi palati è degna di nota. Le opere di Boltanski, le sue grandi accumulazioni ordinate, che hanno le radici nella Seconda Guerra Mondiale e nella Shoah, sono esplicite. I fiori recisi della mostra di Villa delle Rose sono simili a quelli che troviamo in Certosa, le installazioni con le lampade-lumino che ricordano i cimiteri, sono operazioni tanto dense quanto poetiche e semplici perché hanno una cifra formale riconoscibile e condivisa. Nelle sue opere, di un perenne bianco e nero, come le foto dei ritratti dei documenti, dei medaglioncini delle ceramiche delle tombe e dei sacrari delle grandi guerre, non ci sono forme ostiche o respingenti. In una recente intervista dice, con un tono un po’ ieratico tipico degli artisti che si sentono in qualche modo vicini al sacro – non sono un artista di oggi: lavoro sulla morte e alla fine ne sono meno spaventato. E ancora: … Non mi sento moderno. Uso un linguaggio di oggi, ma mi pongo domande antiche. In un altro tipo di società, sarei uno sciamano. Trova noioso il mondo dell’arte contemporanea. Usa immagini semplici e immediate ed essendo non moderno (il popolo per sua natura non capisce mai in arte le cose moderne, figuriamoci quelle contemporanee) la sua arte dovrebbe essere popolare. Non è popolare invece, perché ce lo dice il Carlino che è un giornale popolare che parla della sua arte come di un appuntamento imperdibile non per la gente, ma per gli amanti dell’arte contemporanea. È forse colpa della memoria storica mai condivisa fino in fondo dal nostro paese? O è semplicemente il solito disinteresse della società italiana per qualsiasi genere di cultura (che è sempre noiso culturame) ? O non sarà invece che l’arte contemporanea (Boltanski dice che comunque usa il linguaggio di oggi) non può essere popolare? Nonostante tutto Boltanski non è popolare, perché è un artista contemporaneo e l’arte contemporanea non può essere per sua natura popolare. E poi Boltanski, forse, forza troppo: vuole che la sua opera sia per la società, va in periferia, opera in teatro, vuole che in qualche modo abbia un fine condiviso – lo sciamano fa, anche se con strani riti, il bene comune -. Ma forse dimentica che la sua medicina, nonostante un linguaggio comprensibile, ha l’incantesimo (o maledizione?) dell’arte contemporanea che riporta tutto inesorabilmente al suo pubblico e ai suoi amanti.

L’arte alla carta

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Dopo il grande successo di pubblico, la scultura in bronzo con Lucio Dalla, compresa di cornice e totem con didascalia, ha inaugurato un inedito dibattito sulla scultura e sull’arte celebrativa a tema, proprio quella che Arturo Martini definiva lingua morta.
Come una reliquia di una società tradizionale, così la panchina social raccoglie insieme gente normale e famosa che le conferisce uno status taumaturgo. Ma oltre all’opera di bronzo osannata da chi ama l’arte finchè ci si siede sopra ed è partecipata, c’è ora un altro posto dove sedersi in gloria e poco distante da quella del cantautore: è nell’ultima sala della mostra di Edward Hopper a Palazzo Fava, ed è a pagamento.
Anche il più distratto dei visitatori dell’esposizione percepirà il senso di sospensione e solitudine delle opere dell’artista americano, una dimensione quasi privata; tutto sembra psicologico, introspettivo e anche nella generale introduzione della mostra nel sito web si legge dell’autore come uomo schivo e taciturno. Fino a che non ci si imbatte nell’ultima sala per un gran finale che trasforma un’opera del solitario artista in un facile prodotto da provare, come in uno scaffale del supermercato. Il quadro scelto come immagine della retrospettiva, Second Story Sunlight, quello forse più hopperiano e americano, con due donne sul balconcino di una casa, è riprodotto con una proiezione su un muro. Per uno strano marchingegno il visitatore disinvolto può diventare parte del quadro stesso sostituendosi alla donna seduta sulla sedia. Ognuno diventa soggetto e autore insieme. In particolare la donna anziana potrebbe avere a che fare con la moglie che viene usata spesso come soggetto, vera è propria ossessione di Hopper e questo particolare, per nulla di secondo piano, sottolinea ancora più la complicata natura del rapporto col genere umano del pittore, quasi a dirci che forse è proprio l’opera, e solo lei, a dare voce a quello che non può fare l’artista nelle relazioni della vita. L’immagine dipinta è così barattata per lo sfizio del visitatore che entra nella tela, e svilita dalla pratica più banale e indotta dell’ultimo decennio: il selfie. Il neo autore-usurpatore si porterà via in qualche modo il suo ritratto che storpia il dipinto originale in nome di un comunismo artistico con biglietto a pagamento. Tutto ciò sarebbe stato impossibile se l’artista fosse vivente, semplicemente perchè nessun autore degno di questo nome permetterebbe un’operazione del genere su una sua opera. Tale intrattenimento ha un approccio al quadro casual e volgare inteso proprio come si legge sulla Treccani: del volgo, degli strati socialmente, culturalmente ed economicamente inferiori della popolazione, anche se questa trovata non è nata dalla gente, ma pensata da chi crede che l’arte sia un po’ pesante e vada ravvivata con qualche coup de théâtre a tinte personalizzate. Non so se ci sia un quadro nella nostra storia occidentale che abbia un titolo più complesso e raffinato, ma oggi, hanno deciso, che La luce del secondo piano è forse troppo noiosa per vederla e basta.

La Maserati fast and slow

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Lo stellato chef Massimo Bottura parcheggia una fiammante Maserati davanti al suo locale prima dell’arrivo dei due importanti ospiti per la cena, Matteo Renzi e Francois Hollande, ma trova una multa (sarà solo per il divieto di sosta?).
Il grande cuoco commenta: il mio unico scopo era quello di mettere in mostra una eccellenza del nostro territorio. Sul sito online della Maserati, si nota una pagina: lo Chef modenese e la Casa del Tridente: il connubio perfetto tra “slow food” e “fast car”. Ho sempre avuto un grande rispetto e ammirazione per i creativi della pubblicità e della comunicazione che devono spesso inventarsi di tutto, e di più, per indorare la pillola. Mi si perdoni l’immaginazione, ma già vedo, visto che il connubio è perfetto, Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, inebriato dalla Maserati Life.
In Italia, se mai stessimo vivendo in un periodo, questo sarebbe quello dello Slow Food, il pensiero che da trent’anni ha cambiato il modo di vedere il cibo e non solo quello. Non è stata una grande invenzione – tutti noi siamo stati cresciuti ed educati alle tradizioni della cucina locale, le cose semplici e buone sono le migliori e questa forse è la grande (e sola?) differenza che ci contraddistingue dal mondo intero – ma è stata grande l’intuizione di renderci consapevoli. Il merito è stato quello di fare capire al paese intero del tesoro che abbiamo, di farne uno stile di vita e anche una visione del mondo. Molti non sapevano, anche se ce l’avevano in casa da secoli, di avere delle olive e dell’uva uniche per fare un olio e un vino eccellente. E l’attenzione alle biodiversità, le qualità minori piccole e brutte snobbate da sempre e rivalutate e riscoperte come grande patrimonio. Dire qualcosa oggi – di interessante – sulle auto fast diventa un po’ più difficile, soprattutto se si ha un punto di vista slow. Certo, la storia del territorio e dei motori, l’Emilia del triangolo che non è più rosso come una volta, ma è grigio pistone, il fiore all’occhiello dell’industria, ma senza il mito della velocità tutte queste bellezze non stanno tanto in piedi. Se si va fast non si va slow, se si va slow non si va fast.
E non è questione di snobismo, di eccessiva rigidità o di contestare un meritato lusso e nemmeno quello del problema della sostenibilità. La questione qui è nel significato.
Dietro l’immagine delle macchine potenti, sportive e di lusso ci sta una filosofia che è semplicemente agli opposti di quella dello Slow Food. Che poi – Michele Serra ci scrisse un’amaca – la maggior parte dei clienti dei ristoranti Slow Food abbiano una filosofia di vita più vicina a quella delle macchine sportive è un segno di questi diabolici tempi, come del resto ci mostra la foto di quella serata: i due premier della sinistra europea in un ristorante di lusso (il lusso ha a che fare col superfluo, mentre il cibo di Bottura ha ingredienti veri, esesenziali, insostituibili, della tradizione popolare e di provenienza povera) dal nome sibillino La Francescana con all’entrata un’auto fast che si chiama Ghibli come il vento del deserto libico (sic!) nel centro storico di Modena dove il limite è trenta chilometri all’ora.

Le Madonne di Bologna

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

È tempo di bilanci per la mostra su Vermeer e si parla di quattrini.
Si inizia con la cultura e con Bologna che non è solo cibo, ma poi il gioco lo fanno gli alberghi e i garage; una mostra convince se lo dicono i tassisti e i ristoratori e ovviamente la grande piaga di questa epoca post-surmoderna: la gente che paga il biglietto.
Il tiro della discussione lo alza Nomisma, che almeno non cita gli scontrini.
Pochi giorni fa, in un fine settimana di primavera e a pochi metri di distanza, si sono incontrate, in qualche modo, due opere d’arte, due dipinti adottati dai bolognesi. La Madonna di San Luca, scesa tradizionalmente in città ed esposta in San Pietro e La Ragazza col Turbante che proprio il giorno dopo si è ritirata per sempre dalla sua dimora di Palazzo Fava per ritornare verso il Mare del Nord. La discesa dell’icona Mariana sembrerebbe una puntuale riappropriazione del territorio, che per mesi è stato l’indiscussa terra di conquista della più bella.
Sì, perchè la Ragazza è più bella della Madonna. Come ci insegna il mondo d’oggi, più ci si fa vedere e più si è visti, e più si è visti, più si è belli. La Madonna, che la tradizione vuole dipinta dall’Evengelista Luca, ha due caratteristiche che la penalizzano: la prima è che è velata. Con la placca d’argento che fa mistero d’Oriente, sembra che indossi un chador. La preziosa lastra copre il dipinto che enfatizza uno sguardo per lo più assente. Forse per questo motivo, da poco tempo, l’icona è visibile in certi periodi, senza velo, forse per renderla più gentile o forse per fare ammirare l’azzurro della tunica appena rinvenuto nell’ultimo restauro. La seconda peculiarità è che è santa, forse più sacra che santa. E questo perchè è antica, viene dall’Oriente (anche se poi è forse Padana) ed è venerata in processione. Le sue discese e salite scandiscono un tempo della tradizione, che condiziona, si dice, anche quello metereologico. I lenti tragitti sono accompagnati da canti, nenie, petali di fiori e incensi. L’esposizione nella Cattedrale, aperta al popolo fino a sera tarda, con fuori i mercanti chiamati per l’evento, rievocano un mondo di una volta che sbiadisce sempre più. Non vedremo mai la sua immagine sulle torte, sulle magliette, sui grembiuli da cucina; solo il santino è ammesso, tenuto in modo esclusivo nella borsette, nei portafogli o nell’angolo di qualche quadro.
Anche se la Madonna di San Luca si è ripresa il campo, gli abbagli degli ultimi eventi rimangono impressi sotto a un portico: nella vetrina della Coroncina, l’antico negozio di ricordini, memorie e identità perdute, ci sono già le due immagini vicine. Sono insieme, in relazione, quasi fossero una coppia. Dopo la mostra su Vermeer, sono due le Madonne di Bologna, quella di San Luca e quella della Perla.

Le Torri del silenzio

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Nonostante l’allargamento di Via Rizzoli, le Due Torri non si vedono bene.
Anche stando in mezzo alla strada, l’Asinelli è soffocata dai palazzi e la Garisenda è coperta: queste due grandi colonne arcaiche non si vedono in modo completo e pulito. Bisognerebbe spostarle.
Finita l’era delle Torri Gemelle, ci rimangono queste di Bologna, per la verità più sorelle. Anche se per i bolognesi sono simpatiche e rassicuranti, le Due Torri hanno qualcosa di sinistro e spettrale. Se togliamo la coroncina merlata alla sommità e gli archi con portico alla base dell’Asinelli, comunque postumi, ci appaiono insieme come due pilastri arcaici; oltre che dalle lucine del Natale, i due molititi dall’origine misteriosa, di un minimalismo quasi moderno, sono state addobbate con gabbie di ferro appese, per condannati che si consumavano al vento e al sole.
Bisognerebbe mirarle nella loro nitida solitudine al centro di un grande spazio.
Forse l’irragiungibile fama che ha nel mondo la Torre di Pisa è data proprio dalla sua collocazione, oltre che dalla pendenza, dall’immagine con cui viene sempre presentata, compresa l’introvabile scheda telefonica Sip, che la raffigura quasi isolata, sempre con un prato verde attorno e con un cielo azzuro intenso di sfondo. La gentilezza della struttura e il candore del marmo fanno il resto. Le nostre, invece, rimangono inespresse, quasi soffocate dalla città.
Collocarle nel mezzo della piazza dell’VIII Agosto le renderebbe finalmente visibili e l’operazione avrebbe importanti implicazioni: la città acquisterebbe uno nuovo luogo con un vecchio simbolo e la piazza di Porta Ravegnana diventerebbe uno spazio inedito con nuove prospettive: certo il senso di smarrimento sarebbe importante, ma subito compensato dai portici della chiesa vicina, interstizi quasi privati; il vuoto sarebbe solo apparente in un largo fra i più intimi del Paese.
Le due grandi placche-otturazioni in bronzo segnerebbero l’operazione necessaria.
Anzichè una perdita, sarebbe solo uno slittamento di luogo e di senso che porrebbe delle nuove questioni. La città avrebbe due punti di riferimento diversi, ma uniti. Una nuova mancanza e una nuova presenza legate da un fondamentale segno di memoria collettiva. Una specie di Ground Zero ma senza crolli, senza attacchi, senza traumi e senza morti. Non si comprende che il nostro impasse è proprio nei nostri simboli del passato che danno false sicurezze, vani appigli che da tempo hanno perso la loro forza. Sono immagini esaurite che vanno ripensate. Si tratta, quindi, di rompere un incantesimo per rifondare una nuova origine. E non si può certo iniziare dalle altre due T.

La Madonna Padana

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Per certi versi questo è un tempo di interregno fra due avvenimenti d’arte che riguardano due celebri dipinti di donne che coinvolgono la città. E’ un tempo fra la fine del restauro della Madonna di San Luca nel maggio scorso e l’arrivo del La ragazza con l’orecchino di perla a Palazzo Fava nel prossimo febbraio. Due immagini diverse e lontane che forse hanno in comune solo l’azzuro (appena riscoperto per l’icona) dei loro copricapi e il fatto di essere avvolte da misteri. Misterioso infatti è lo sguardo che filtra dalla lastra d’argento della Madonna che conferisce all’immagine un senso di occulto quasi come una donna velata, quasi fosse un chador: c’è infatti tutto l’Oriente nella placca addobbata con corone, ori, pietre e perle. Forse è anche per questo motivo che l’icona di San Luca, l’evangelista che la Tradizione vuole come autore, è apparsa senza la custodia negli ultimi anni.  Secondo gli autori dell’operazione il restauro è “sorprendente”, il dipinto è “un vero capolavoro come se l’avesse fatta Giotto o Guido Reni”. Per il grande mistico e filosofo Pavel Florenskij la pittura dell’icona è uno strumento di conoscenza soprannaturale, non c’è raffigurazione, non c’è rappresentazione. C’è invece testimonianza e contemplazione, conoscenza del mondo spirituale.
Per comprendere bene la differenza ed essere chiari, Florenskij giudica la pittura religiosa dell’Occidente, iniziata col Rinascimento, spingendosi a definirla una “radicale falsità artistica”. Accostare quindi l’icona ad un dipinto di Giotto sembrerebbe una forzatura; è proprio il pittore fiorentino che inizia ad innovare, a superare certi schemi: le mani delle sue Madonne iniziano a muoversi, sono i primi timidi passi verso il moderno, poco a che vedere con la mano dell’icona che appare rigida, così come il braccio e le dita del Bambino. La citazione poi di Guido Reni sembra ancora più ardita. Il fine dell’icona è altro rispetto alla visione dei due artisti e autori, i tempi e le categorie sono differenti e distanti. A meno che tale tesi sia solo un pretesto, assai rischioso, che condurrebbe ad una provenienza del dipinto come “espressione della cultura padana”. Non discuto dell’attribuzione fatta da scrupolosi e attenti studiosi, ma che la Madonna di San Luca sia espressione della cultura padana rivela una scarsa attenzione per il significato di parole e termini che certe epoche segnano con accenti indelebili.Viene in mente la questione dei Bronzi di Riace che sono di sicuro calabresi.