L’eterno ritorno

Bologna, 2006

Mi hanno invitato a “Strade Blu”, una mostra collettiva di arte contemporanea nella Provincia di Bologna, mi hanno proposto, per esporre la mia nuova opera, il giardino della GAM di Bologna e mi è stato chiesto di trovare un critico che scrivesse sulla mia opera. Ho pensato ad Anna Maria Franchini e a Lisa Bentini. Con la prima farò un breve dialogo; la seconda, invece scriverà un testo sull’opera inedita Villa.

Ho chiamato Anna Maria Franchini e le ho parlato della faccenda. Mi ha manifestato qualche dubbio, mi ha confessato subito che le questioni contemporanee non l’hanno mai molto interessata e che forse si sente un po’ distante da certi argomenti. Ho replicato che da qualche anno molti sostengono che il tempo attuale sia attraversato da continui sconfinamenti, ibridazioni, contaminazioni e contatti vari e poi un dialogo è certo più semplice di un testo. Ha accettato.

Esporrò Villa che sto facendo in questi giorni. Sarà una grande costruzione senza tetto, più alta della figura umana, circa tre metri e mezzo. Lunga sui sei metri larga sui tre. Quasi diciotto metri quadri di erba verde, perimetrati da vecchi ferri, o ferri vecchi. Villa è costituita da tante parti di ringhiere, balconate, cancellate, inferriate che ho raccolto in questi anni. Una specie di recinto parlante di decori e i disegni di tanti pezzi di ferri battuti, scampati all’ecatombe della guerra, alla voracità della Patria, ai nuovi recinti zincati. Erano di ville di campagna, di case che dicono di storie complesse di famiglia. Ho deciso di farlo rosa, rosa antico, cenere, quei rosa desueti, degli intonaci delle case severe che ho visto in Liguria, con le ortensie nel giardino. Ecco, così… che te ne sembra?

A prima vista mi appare come un terribile strumento di tortura. Mi si sdoppia, non è più a terra ma alto contro il cielo. Ora lo vedo chiaramente: sono due uguali appese ai bastioni prima della porta di una città medievale dalle mura possenti. Penso ora ad una voliera di uccelli rari. O a un forziere sottomarino, un relitto, la cui parte di legno si è sciolta e resta un esoscheletro. Comunque la si guardi questa grande gabbia è interessante perchè non è frutto di regole precise, geometriche legate a tecniche ubbidienti a numeri o ad angoli fissi. Come dici sa di ville di campagna che erano recinte da bellissime cancellate.

Hai sempre dedicato molto tempo, nella tua vita, all’arte. Hai visitato musei di mezzo mondo, monumenti, aree archeologiche. Una grande passione per l’arte. L’arte antica; l’arte moderna meno, vero? E perché?

Fino all’ottocento l’arte è copia della realtà: tanto più ritrae il vero illudendolo, tanto più piace. Che dire dell’arte contemporanea? E’ una ricerca per denunciare, affermare quasi gridare agli uomini tutti e all’umanità intera la presente realtà molto amara. Scomporre, divedere, segnare, evidenziare qualcosa è assai lontano dalla normale comprensione. E’ più difficile leggere il messaggio dell’arte moderna: troppo spesso l’analisi mi incute tristezza, perfino paura, mentre l’arte dei miei studi mi placava, mi dava pace e serenità; mi pareva di poter entrare nel suo mistero, nuova Alice in un mondo magico. Ora mi sento fuori, un poco sprovveduta e rattristata: provo dentro di me tutti i mali del mondo come se stesse per giungere la fine. Dirò di più talvolta davanti a certe opere mi chiedo il perchè di tanta tristezza e vorrei che almeno qualcuna fosse un inno di gioia, inneggiasse alla vita, ci strappasse un sorriso o una speranza e invece no, ci indicano con gesti decisivi un nero futuro verso abissi e una catastrofica fine.  Almeno questa tua opera che pure è fatta di ferri, col suo delicato colore, mi è dolce e mi porta a pensieri sereni e a un passato lontano e felice.

Della Franchini ho trovato poi molti fogli scritti a mano, non sempre numerati, su vari supporti – brogliacci precari, bloc-notes di fortuna, retro di calendari, qualunque dietro di fotocopie preesistenti – spesso simili. Questo testo che segue mi è sembrato uno dei più interessanti, scritto attorno al 2001.

… chissà perchè la mia voce al telefono o quando leggo, ancora piace: capto che se è un uomo all’altro capo del filo, è interessato, crede in una voce giovane, accattivante, perfino piccante che promette una donna senz’altro giovane, bellina, forse sexi, comunque da “coltivare”; invece ero una ragazza scialba, bruttina all’acqua e sapone con poco seno, magra e per nulla sexi, neppure piacevole; perchè? ero curiosa: desideravo, sognavo “cultura” sotto ogni sua forma: prima l’arte del parlare, conoscere bene la propria lingua, ogni soffio di grammatica e poi da lì il salto al latino, il greco, il tedesco, lo spagnolo, tutte lingue robuste, ricche di sintassi: poi la filosofia come studio dello spirito, la ricerca dell’anima o almeno della psiche… i perchè sempre insoluti della vita e della morte. Conoscere la psicologia, come nascono i pensieri, il buono e il cattivo, il bene e il male che covano nella mente che talora esplodono con violenza, proprio contro chi più si ama e se si crede di conoscere un po’ la psiche, ecco il desiderio di sapere tutto sul corpo: la medicina come fisiologia, ma anche come l’insorgere del male fin dalle cellule: e ti appare un mondo al microscopio. Di lì poi ti viene voglia del telescopio e dello studio delle stelle come altri mondi. Ecco ed ero (e lo sono in parte ancora) convinta che per “fare” una donna occorrano sei-otto uomini. Vedevo i miei amici studenti troppo spesso vanesi, disinteressati o meglio tesi ad ottenere il massimo voto col minimo sforzo… desiderosi di arrivare alla laurea per poi fare soldi. Non ho mai conosciuto ( e ne conoscevo tanti) un ragazzo che amasse come me quello che studiava per puro amore di conoscenza. Intanto leggevo tutto quello che mi capitava, andavo in biblioteca… per il greco misi gli occhiali ed allora divenni ancora di più “tipo zitella”. Ora invece -fuori tempo- gli occhiali piacciono. Eppure ero così ricca “di dentro” ma non sapevo né vestirmi e né pettinarmi. L’abito non fa il monaco, altroché, ne fa cento, mille. Guardate come tutte le signore che frequentano per varie ragioni la tivvù godano delle cure preziose di schiere di visagisti, massaggiatori, parrucchieri, estetisti… escono sulla scena per il gran pubblico ringiovanite, appetibili e con almeno l’illusione di dieci anni di meno. Come passa veloce il tempo: se appena mi alzo, incontro per casa uno specchio grande, mi aspetto di vedermi con i capelli neri folti e ricci… non è che mi sia appena risvegliata da un sogno, è che proprio talvolta “sento” di essere quella di una volta: quella ragazza tenace e decisa che voleva seguire il liceo classico Galvani, continuare all’università la facoltà di lettere e poi partire per una zona archeologica lontana, dopo aver seguito le magiche lezioni della L.L. sul Perù arcaico. Qualche volta quando, dicevo, mi vedo allo specchio, cerco me stessa e non mi ritrovo. Chi è quella donna già anziana (che veste in colori troppo spesso chiari, luminosi, come ancora amante del sole e della luce) che mi guarda con occhi cerchiati di rughe di capelli radi e tinti? Se è tanto cambiato “l’involucro”, anche l’anima dentro, i pensieri, i ragionamenti, la stessa intera personalità sarà mutata! Non sei più tu, povera amica mia, chi ti ha cambiato così? Perchè ti sei arresa, hai chinato il capo, ti sei lasciata mettere il giogo come un povero animale da tiro, vinta da un’altra razza più potente? Hai ceduto, perché? Dove sono finiti i sogni che eri ben decisa a realizzare? Tutto d’un tratto ti sei accorta che il bisogno più impellente era quello di un figlio tuo da mettere al mondo perché durasse dopo di te, ed essendo maschio, forse, gli sarebbe stato più facile realizzare i suoi pensieri forse affini ai tuoi. Che fatica trovargli un padre: su questo, vista la gente che mi trovavo intorno, le mie idee già allora erano assai simili a quelli della star Madonna, solo che io non ero nessuno e l’epoca molto prematura. Così trovai il “meno peggio”: bastò che apparisse (chissà se lo era davvero) un poeta, o almeno uno scrittore autodidatta e lo sposai. Così ho capito meglio la forza e l’eternità dei versi e dei grandi: da Omero a Dante: per esempio l’addio di Andromaca (certe volte ti senti tu Andromaca). Questi grandi hanno saputo esprimere i tuoi sentimenti e così impari che proprio i sentimenti, le gioie, i dolori sono gli stessi nei millenni, anche se razionalmente o socialmente invenzioni o scoperte mutano e migliorano la società, però tu, “dentro nel tuo io”, sei simile all’uomo o alla donna del passato; si dice: il cuore non mente! C’è ad esempio quel ciclo di due libri del Verga: I vinti cioè I Malavoglia  e Mastro don Gesualdo. Ebbene anch’io sono una vinta dalla vita. Cosa ho fatto o concluso? Ho detto prima che non ho avuto una vita felice. Chissà poi cosa s’intende per felicità, forse è solo una pretesa, un lusso che difficilmente si può spartire con qualcuno. Conoscersi e gioire dei propri pensieri. Insomma lavorare mentalmente sul proprio io, così da essere soddisfatti di sé. Infine: bastare a se stessi; e ciò non è facile, considerando che si è spesa una vita socialmente e farebbe tanto piacere scambiare idee e pareri, oppure talvolta silenzi con una persona che ti capisce e che almeno in qualche momento possa diventare un tuo “alter ego”. Ho saputo che molti vecchi muoiono senza accorgersene nel sonno. Ma che bella e placida uscita dal mondo! Di ciò parenti e amici si dovrebbero rallegrare perchè poi una buona morte, dopo una lunga vita giusta e positiva dovrebbe essere una festa per il ricongiungimento di quella bell’anima al padre, alle origini, alla vita vera. A che dunque lacrime, funerale tetro? Una bella festa con vesti bianche, inni, cori di grazie e tante preghiere serene e gioiose di accompagnamento da parte di parenti e amici, sperando di avere in cielo un “essere propizio”, un avvocato presso dio padre… non si sa mai! Insomma quasi una festa di sposalizio o almeno la gioia terrena che vede un fratello-sorella sistemato per sempre nella luce, nella felicità, nell’amore ultraterreno del padre.

Anna Maria Franchini (Bologna, 1931-2016) si è laureata nel 1956 in Lettere Classiche e poi nel 1958 in Lettere Moderne all’Università di Bologna. Compie subito vari viaggi attraverso l’Europa. Per quasi quarant’anni ha insegnato alle scuole statali. È stata mia madre per quasi 50 anni, è morta a fine marzo del 2016.

Dico è stata mia madre, non perché adesso non lo sia più, ma perché dopo la sua morte è stato tutto più leggero, non ho più quel pensiero della sua presenza, così ingombrante, pesante, quasi indicibile, direi anche ossessivo e come se anche la parola madre avesse perso il suo ruolo. Direi che è stato un rapporto di tipo santo, giusto per intendere non ascrivibile alla realtà umana, riconducibile a una strana setta, nonostante tutto lontana dal cristianesimo, ma meno distante da certe forme di devozione e attaccamento tipiche dello shiismo islamico, dove certi estremi si avvicinano e dove regna, anche nel più spensierato momento quotidiano, in fondo una consapevolezza di ingiustizia, sconfitta e fallimento.

Testo pubblicato su Antinomie il 22 aprile 2020.

Il ruolo dell’arte in Italia, a parte il Covid

Tu vuò fà l’americano…ma sì nato in Italy, diceva una canzone. L’America è messa male per il virus, ma sta facendo qualcosa. Cioè l’esatto contrario di quello che avviene in Italia, loro danno i soldi agli artisti, mentre qui invece si chiede agli artisti di donare le loro opere per l’emergenza.

Nonostante l’ospedale a Central Park, le fosse comuni e il record di morti per il virus, in America l’arte contemporanea si sostiene. Che sia una scelta poeticapatriottica o economica, i fatti (e i soldi) sono questi. Si afferma così che gli artisti visivi contemporanei sono un’eccellenza di un Paese. Che una parte della classe dirigente, nell’era di Trump, riesca in qualche modo a comprendere che c’è un’arte contemporanea (che non è certo quella del gusto popolare e condiviso dalla gente, della TV e dei media generalisti) che va comunque difesa e sostenuta, vuole dire che, nonostante tutto, è ancora un Paese dove ci sono idee chiare sulla cultura e ci condanna a essere una provincia: proprio noi, che eravamo il paese dell’arte.

Certo, si dirà che loro non hanno un passato come noi oppure che ci sono grandi differenze non sempre positive (tanti milioni di poveri) ma il punto è che delle fondazioni private prendono in considerazione gli artisti (tutti inclusi) come delle persone reali, mentre invece qui vengono visti con diffidenza e solo come una strana eccezione a cui chiedere idee nei momenti del bisogno.

Che l’unica iniziativa per l’arte a un pubblico ampio, in questi anni, sia stata la richiesta agli artisti di produrre un’opera gratuitamente per il supplemento La Lettura del Corriere della Sera, è la conferma di questa distanza. Nemmeno La Repubblica si è azzardata ad avventurarsi in tale audacia: per un suo Robinson speciale dedicato al tempo del virus Corona, ha chiamato giusto degli illustratori, tanto gli artisti sono dei marziani, deliziando i suoi lettori con Zagor che ammazza il virus, Dylan Dog con la mascherina e Zerocalcare che dice «Daje» (e che deve mai dire Zerocalcare, il nuova vate della sinistra?).

Nello scorso Affari e Finanza de La Repubblica, è apparso un titolo dalle previsioni non rosee: «Cambio di rotta delle Fondazioni: meno cultura, più welfare e sanità» e sopra una foto – quasi metà pagina – della mostra “Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna” a Milano, un bel biglietto da visita della collaborazione Banca Intesa-Cariplo. Scelta curiosa, perché si rappresenta la cultura (che è il soggetto della notizia) con la bellezza per antonomasia, con la foto del gran salone di Piazza Scala con i capolavori dei due scultori. E forse è proprio vissuto così, dal Paese, il senso della cultura, giusto da vedere e ammirare con meraviglia.

Vicini al precipizio che ci attende, si può cercare di comprendere il significato di quell’accostamento che ha qualcosa di profetico: non ci è dato di sapere se il senso della pagina vada inteso come «di quelle mostre ne vedremo sempre meno» oppure «di mostre ne vedremo sempre meno»tuttavia è interessante che si rappresenti la cultura, prima della cura da cavallo, con un’immagine di una bella sala, di una bella mostra, con delle belle statue su dei bei piedistalli che sembrano di velluto.

È questo che rappresenta la cultura e l’arte? “Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna” è accompagnata dal video La fabbrica della bellezza che, in fondo, racconta una storia di sfida e successo di due artisti che per esaudire le richieste dei signori di tutto il mondo, si misero a fabbricare la bellezza, nei loro atelier a Roma, proprio come avviene oggi negli studi di Jeff Koons e Damien Hirst (nominati nel video in questione). Il grande cambiamento fu l’idea di riprodurre le opere d’arte per soddisfare il mercato. Come suggerisce il filmato, sembrerebbe che il fine di tali armonie e grazie, panneggi e coroncine, amorini e corpi sospesi, sia l’idea di moltiplicarli per farne una produzione seriale, una catena di montaggio. Una grande storia di impresa del lusso.

Articolo pubblicato su Exibart il 15 aprile 2020.

Zuppa Inglese Bandiera (Zuppa Inglese Flag)

Zuppa Inglese Bandiera (Zuppa Inglese Flag) è il vessillo di uno stato inesistente, che prende i suoi colori da un dolce della tradizione bolognese, rimanda alla memoria del passato per esorcizzare il presente.

«Ricordo che c’era una questione inglese in casa dai nonni materni e questo si capiva subito perchè l’unico piatto non bolognese che cucinava mia nonna era la carne all’inglese, il Roast-beef, il rosbif , come lo chiamava lei. Il riso al burro, o all’inglese, invece, non si faceva mai o se si faceva era perché qualcuno era malato e quindi non poteva rientrare nei piatti rispettabili, perché la faccenda del cibo era seria, in pratica si viveva per mangiare. E poi c’era la Zuppa inglese, dolce bolognese come il Fior di latte, e la Torta di riso, con tre strati: biscotti savoiardi bagnati nell’Alchermes, cioccolato e crema e come ogni famiglia tradizionale, mia nonna aveva la sua ricetta personale, tramandata in un quaderno. Nonostante il carattere ricco e grasso della cucina bolognese, quella di Tosca aveva qualcosa di netto, quasi minimale in un ambiente abbondante, ripieno e farcito; la Zuppa inglese di casa Landi Franchini era densa, compatta e decisa.»

Nella foto: Flavio Favelli, Zuppa Inglese Bandiera (Zuppa Inglese Flag), 2020, bandiera in tessuto, 210 x 300 cm
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, © dell’artista

La croce e il nulla. Una dimenticanza straordinaria

Venerdi, 27 marzo, il Papa, in una Piazza San Pietro vuota, chiede la fine del male e concede la benedizione eucaristica Urbi et Orbi con la proclamazione dell’indulgenza plenaria. Papa Francesco è solo, sotto un baldacchino, rivolto alla piazza e dietro, alla sua destra, il crocifisso ligneo miracoloso di San Marcello che ha sconfitto la peste di Roma del XVI secolo.

In questi giorni si viene a sapere che l’opera ha subito molti danni per la pioggia – è fatale l’umidità sul legno antico – e si indaga sulle responsabilità. Si dice che, con maggiore accortezza, si poteva mettere il crocifisso al riparo. In un momento dove una scure inimmaginabile (giusto il cinema dopo avere fatto decine di film su sfighe catastrofiche su ogni possibile male, l’ha indovinata) e ancora imprevedibile segna una frattura epocale, dove vengono falciate, da più di un mese, nell’Occidente Cristiano, migliaia di persone in modo improvviso (il toscano ha un temine efficace, la morte secca), il vicario di Cristo celebra, con dei simboli chiari, una funzione inedita, mai vista prima. Papa Francesco parla di tenebre, afferma che siamo perduti e dichiara: con la tempesta è caduto il trucco, compreso quello del crocifisso di legno, con lo stucco dipinto che si scioglie alla pioggia del temporale e forse anche di tutte le rappresentazioni sante e sacre.

S’intrecciano varie immagini in pochi minuti: la facciata del baraccone finto tempio greco della Basilica di San Pietro, l’edicola nova-baracchina a faretti led, le due figure arcaiche e antiche, il crocifisso della peste e l’icona bizantina della Madonna e un Papa con le scarpe da mercatone che alla fine sarà pure un po’ scaruffato. A causa della pandemia – una peste senza colore, trasparente, una peste 5.0 -, il Sommo Pontefice dà la benedizione Urbi et Orbi, atto unico nella storia perchè fuori dalle tre occasioni previste e si offre al mondo con un gesto, con l’ostensione del corpo di Cristo, che compare anche riprodotto in legno, a prendere l’acqua, alla base del colonnone, sofferente, un po’ incartapecorito, con la corona di spine, inchiodato alla croce. In questo contesto, segnato dal clima poco clemente e da un cielo tempestoso, la dimenticanza della preziosità del capolavoro è forse dovuta alla straordinaria situazione dell’evento: mai siamo stati così vicini alla morte terrena dall’ultima guerra mondiale.

Cosicché, in quel momento, nessuno avrà pensato alla conservazione, all’idea che quel Cristo sia anche un’opera d’arte (e in fondo sempre cattiva imitazione) da proteggere e a cui prestare cura e considerato giusto come un semplice mezzo e non come un fine. Un atteggiamento decisamente diverso dalle altre fedi, quella della conservazione del patrimonio, dell’arte, della bellezza che salverà il mondo, della cultura (ma l’angelo appare ai pastori e ai mandriani emarginati e analfabeti) e quella del possesso-investimento del verbo delle case d’aste.

Articolo pubblicato su Exibart il 30 marzo 2020.

Via del Corso

L’ultima volta che vidi un Papa fu il 18 aprile 1982, avevo 15 anni, ero appena uscito dalla stazione dei treni di Bologna, di ritorno da Firenze e l’auto col Santo Padre poco dopo passò dai viali. Furono stampate delle cartoline fra cui una bizzarra, ora introvabile, un fotomontaggio con Wojtyla sopra il Palazzo dei Notai che saluta Piazza Maggiore, come un grande Godzilla. Mia nonna, solitamente abbottonata, in quei giorni si lasciò andare a un Evviva il papa!. Il Papa è sempre in chiesa o alla finestra o su un aereo o in piazza San Pietro fra la folla. Non si era mai visto un Papa da solo, per la strada, sul marciapiede.

Testo pubblicato su Doppiozero il 28 marzo 2020.

 

Storie dell’Arte / Flavio Favelli, la mia casa la mia mente

Maria Chiara Valacchi ha scritto  di Flavio Favelli per la rubrica La Nuvola del Lavoro sul Corriere della Sera. L’articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2018.

Flavio Favelli, artista nato a Firenze nel 1967, ha circa vent’anni quando la nonna materna gli dona l’appartamento di via Guerrazzi a Bologna dove aveva vissuto da bambino. Studente di Storia Orientale, ma soprattutto naturalmente spinto verso un’innata creazione artistica, si rende ben presto conto che la sua idea estetica è da ricercare oltre il quotidiano. I suoi “ambienti”, sono vere e proprie installazioni che narrano, più di qualsiasi altra cosa, realtà private e il disagio di una famiglia scomoda.

“Penso che l’arte contemporanea, figlia dell’arte moderna, nasca da una vera e propria carenza che l’artista percepisce nella realtà, da qui la spinta naturale di realizzare qualcosa che costruisca un vero e proprio mondo individuale e parallelo…la vera arte nasce dal conflitto, se io non avessi avuto modo di vivere un conflitto interiore e familiare, non avrei avuto la necessità di realizzare oggetti e opere d’arte che in qualche modo possono lenire o supplire delle mancanze affettive

Sebbene la sua famiglia non sia entusiasta della scelta artistica, conclude il suo ciclo universitario e da autodidatta realizza la prima mostra allo spazio Link Project di Bologna, luogo underground e poco politicizzata frequentato da artisti sopreattutto del teatro di ricerca e della musica. Le sue origini da famiglia e le sue opere introspettive e legate al suo passato sono causa di distanza da quell’ambiente.

“Tutti i ricordi del mio passato, dall’insegnamento di una famiglia borghese – chiusa e con regole rigide – a quelli legati ad un nonno materno – collezionista di francobolli, antiquariato e monete che ha assolto ad un ruolo di padre – sono tasselli imprescindibili del mio operato. Come del resto, tutte le carte degli avvenimenti che hanno interessato il mio padre biologico, dall’annullamento del matrimonio con mia madre alle sue ripetute crisi psicologiche e al suo passato di violenza…oggi io ne sono il tutore e questi scritti riaffiorano nella memoria come fossero forme da traslitterare e concretizzare nel reale. Sono delle ombre indelebili che evocano intrinsecamente ogni mio lavoro; immagini che mettono insieme stati d’animo e un contesto sociale…un’artista spesso ha la capacitò innata di far coincidere questi due differenti ambiti che hanno un imprescindibile percorso parallelo”.

Dopo la prima esperienza al Link a causa del servizio civile si trasferisce in un piccolo paese vicino Reggio Emilia. Per un anno si occupa della biblioteca e il tempo libero lo occupa leggendo libri e giornali; durante una di queste letture si imbatte in un articolo che parla di una scuola creata dallo scultore Arnaldo Pomodoro aperta ad artisti di ogni estrazione e dedicata alla lavorazione dei metalli, Favelli invia la sua candidatura e viene accettato. Saranno tre mesi intensivi, di studio e pratica, con docenti come Francesco Leonetti e Roberto Sambonet in cui realizza che l’arte può essere una professione.

Nel 2003 la giovane galleria torinese Maze lo invita ad esporre, la personale “La mia casa la mia mente” è un successo. La collezionista Patrizia Sandretto lo inserisce nella sua Fondazione omonima e Francesco Bonami lo stesso anno lo invita a prendere parte alla 50° Biennale d’Arte di Venezia intitolata “Clandestini”, esperienza ripetuta nel 2015 per il Padiglione Italia curato da Bartolomeo Pietromarchi.

Nonostante il suo approccio risulti riservato e lontano dalle dinamiche di un sistema dell’arte convenzionale e codificato, negli anni espone in prestigiosi musei internazionali come il Macro e il Maxxi di Roma, il MAMbo di Bologna, il Museo Marino Marini di Firenze, il Museo Riso di Palermo, il Centro Pecci di Prato, il Guggenheim di Venezia, il MoCA di Shanghai, il Musèe d’Art Moderne di Saint-Etienne e all’ Elgiz Museum of Contemporary Art di Instambul.

Molte anche le collaborazioni con curatori italiani trai quali Davide Ferri e Antonio Grulli con cui nasce una vicinanza di intenti e di amicizia, un dialogo in continua evoluzione svincolato da temi unicamente professionali.

Nella sua carriera anche molte occasioni con cui riesce a unire l’opera d’arte ad un’utilità pubblica come le installazioni bar funzionanti al MAMbo di Bologna e del museo MARCA di Catanzaro o “Sala d’Attesa” al Pantheon della Certosa di Bologna e ancora con Francesco Bonami collabora alla realizzazione di “Vestibolo” un’ambiente che si appropria degli spazi della sede dell’A.N.A.S di Palazzetto Foscari a Venezia con un catalogo curato dallo scrittore Mario Fortunato.

“Ho sempre amato la scrittura sono uno dei pochi artisti della mia generazione che redige articoli d’arte su riviste come Repubblica o Doppio Zero; trovo delle affinità intellettuali e sentimentali più facilmente con gli scrittori che con i curatori…”

La sua volontà di creare opere in posti dimenticati, ma pregni di intrinseci fascini, lo porta a Cosenza dove omaggia il calciatore calabrese Gigi Marulla scomparso prematuramente nel 2015, opera accolta con entusiasmo ma criticata successivamente.

“Per me è stata un’esperienza fortissima, sia vivere la partecipazione inziale sia la successiva rivolta popolare, ma ho scelto comunque di non cambiare la mia opera. L‘ho donata alla città e nel rispetto della loro libertà ho dato loro l’autonomia di trattarla come volevano…e’ stato chiamato anche uno street artist a realizzarne una accanto che sottintendesse i canoni “estetici” degli ultras del Cosenza. Questo ha scatenato in me molteplici riflessioni, mi ha fatto capire cosa l’arte può provocare in una comunità e come possa misurare la vera  temperatura di un paese e di un contesto sociale, un feedback impossibile da recepire in un sistema artistico educato”

Flavio Favelli è attualmente coinvolto in un nuovo progetto, Serie Imperiale, nella città di Bazzano in provincia di Bologna, vinciotre del bando ministeriale Italian Council, dove ha realizzato alcune grandi pitture murali, una alla Casa del Popolo e una in un supermercato abbandonato della Coop.

Per fare l’arte

Leggo il programma del Festival della Mente di Sarzana, da poco concluso, che aveva come sottotitolo Come e perché nascono le idee. Interventi sulla creatività, spettacoli, incontri con scienziati, artisti, letterati, storici e filosofi. Salta subito all’occhio l’assenza di artisti visivi. Tra gli invitati non c’è nessun artista visivo. Singolare, perché un festival della mente dovrebbe occuparsi anche dell’arte di oggi, del resto, l’arte contemporanea non è concettuale da parecchio tempo? Scriveva Joseph Kosuth nel 1987: L’opinione prevalente è che l’artista, se ha qualcosa da dire, lo debba esprimere attraverso la propria opera. E naturalmente, alcuni dei miti ereditati … richiedono all’artista più un ruolo da stregone che da intellettuale… (1).
Anche al Festival Filosofia di Modena di quest’anno il tema era “le arti” (!), ma nessun artista visivo è stato invitato nel programma filosofico; lo spazio per gli artisti era confinato nel programma (recinto) creativo delle mostre e installazioni in gallerie e musei, oppure è rimasto negli studi. Un’idea della considerazione che si ha degli artisti è forse la presenza, nel programma filosofico del festival, di Brunello Cucinelli, l’imprenditore che ha come riferimento il Medioevo, il Rinascimento e le cui le pubblicità per vendere vestiti fanno riferimento al nostro Passato perduto: Amiamo i Codici. Messaggeri antichi di Arte e Cultura oppure La Natura è piena d’infinite ragioni (sentenza di Leonardo da Vinci). Pur di non invitare gli artisti si invita un imprenditore che si distinse, anni fa, insieme a Vittorio Sgarbi, nel volere abbattere la chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Ma anche al festival “La Repubblica delle Idee” del giugno scorso, a Bologna, non è stato invitato nessun artista visivo. A “rappresentare” l’arte c’era solo una discussione fra i critici Achille Bonito Oliva e Francesco Bonami, oltre a un programma al museo MAST con una serie di incontri insieme a professionisti del settore artistico, con varia creatività, graffiti, fumetto (si è parlato anche di fare foto col cellulare). Nel paese dell’arte il più importante giornale di progresso fa un festival e ignora gli artisti. E non può passare inosservato, sempre a giugno, che al Festival di RAI Radio3 a Forlì, dal titolo Arte, Cultura, Lavoro, nessun artista visivo era presente nel programma. Anche se spesso la classe dirigente e politica nomina l’arte come la propria stella polare, anche se centinaia di città sono annunciate da cartelli stradali come “città d’arte” e anche se tutti sono convinti che solo la bellezza e l’arte salveranno il mondo (www.brunellocucinelli.com/it/home.html), gli artisti, che l’arte la fanno, non sono contemplati. Credo, in fondo, che ci sia un misto di imbarazzo e disagio a parlare di arte contemporanea, per molti motivi, e così è meglio evitare di invitare gli artisti. Imbarazzo e disagio perché l’arte di oggi, al di là della Biennale di Venezia e del mainstream, che fanno sempre notizia, è complicata, indigesta e soprattutto impopolare. Forse perché l’arte è pensare in modo sofisticato per mezzo delle immagini, delle forme e dei concetti? È forse il sofisticato che crea problemi? Oppure l’arte di oggi è troppo difficile? Quante persone nella vita mi hanno subito avvertito: ah artista? Mi spiace, l’arte contemporanea proprio non la capisco! E molti sono professionisti, classe dirigente, non gente del popolo o italiani medi. Oppure perché l’arte di oggi è vista come banale – lo sapevo fare anch’io – e ci si ricorda dell’artista visivo o solo quando è maturo (il maestro!) o da defunto (anche perché i prezzi delle opere salgono e allora gli eredi e i collezionisti riscoprono l’artista) oppure quando ha un grande successo e diventa un evento da notizia, da giornale quotidiano? (Mi torna in mente mia nonna Tosca, bolognese, che visse sempre in via San Vitale e conosceva le sorelle di Giorgio Morandi. Non le non prese mai sul serio, tranne quando sentì al TG1 che qualcuno aveva acquistato a un’asta una tela di Morandi, pagandola più di mezzo miliardo di lire…). Nei quotidiani l’arte contemporanea viene presa in considerazione solo quando fa “scandalo”, oppure quando i redattori decidono che è arte commestibile per il grande pubblico. Questo generale sospetto ed esclusione appartiene comunque solo all’arte visiva, non è così per la letteratura contemporanea, per il cinema contemporaneo, per il teatro, la musica, la danza contemporanea. Si può allora azzardare un’ipotesi: il Belpaese, il paese dell’Arte Bella (l’unica cosa che mette d’accordo tutti è la grande bellezza della nostra arte – anche i camorristi e i mafiosi appena possono si circondano di bei quadri classici) è arrivata ad una tale bellezza che quell’apice non può più essere raggiunto. Siamo nati e cresciuti nei centri storici più belli del mondo che hanno rilasciato una specie di imprinting-incantesimo impermeabile ad ogni cambiamento e differenza. L’idea di arte si intende così solo come classica, ideale, virtuosa e irraggiungibile, di un passato lontano, di un paradiso e di una bellezza perdute. L’arte di oggi è ancora vista come difficile, noiosa, portatrice solo di scocciature e conflitti. Se il moderno Van Gogh è oramai entrato nell’Olimpo insieme a Giotto e Michelangelo, è solo perché fa fiori e paesaggi: nei cipressi e negli iris si vedono le belle pennellate (il lavoro!) c’è materia, c’è colore, soprattutto è arte che emoziona. È interessante notare che il gusto comune intende l’arte sempre legata in qualche modo all’emozione mentre tale termine è assolutamente bandito nell’arte contemporanea. L’arte del passato in Italia è un moloch, è un padre non permissivo che tiene ancora i figli per i capelli. Sono grandissime, ad esempio, le difficoltà che si trovano a fare arte contemporanea in Toscana, dove il popolo sente di avere nelle vene lo stesso sangue di Giotto. “Icastica”, una rassegna d’arte contemporanea che si è tenuta per pochi anni ad Arezzo, è stata chiusa a furor di popolo. Sembrerebbe poi che a Firenze ormai chiamino a realizzare mostre solo artisti contemporanei super famosi (Damien Hirst, Jeff Koons, Ai Weiwei, Jan Fabre, Bill Viola), quasi per sbertucciarli. Li si espongono in piazza o nei grandi palazzi, loro confessano che sono solo debitori al Rinascimento Italiano proponendo opere che si relazionano alla capitale del Granducato (“Rinascimento Elettronico” è il titolo della mostra di Bill Viola, Koons si ispira a Bernini, Fabre dialoga col Giambologna) e li si rimandano a casa. Un altro aspetto di imbarazzo e disagio è l’abitudine a non riconoscere l’artista visivo contemporaneo come autore: un caso emblematico è il riuscito progetto di Alessandra Andrini del 2005, il monumento al ciclista Marco Pantani, una grande biglia di plastica collocata davanti alla sede dell’azienda Mercatone Uno (che sponsorizzava il ciclista), visibile dall’autostrada A14. Il giorno dell’inaugurazione la “Gazzetta dello Sport” diede ampio riscontro all’evento in prima pagina, non citando l’artista, l’autrice dell’opera (2). Il quotidiano (sportivo) più letto d’Italia non fece altro che assecondare un sentire diffuso, per cui l’arte è cosa del passato, quindi non reale e se si inaugura un monumento al Pirata a nessuno interessa sapere chi l’ha fatto. Ricordo ancora bene, dopo tanti anni, l’esultanza da curva del pubblico romano –romanesco e romanista– all’Auditorium della Musica durante una interpretazione dell’opera di Ennio Flaiano di Roberto Herlitzka (3). L’attore, mentre recitava un passo dello scrittore di Pescara sull’arte odierna (… se avete in cantina … avanzi di gru metalliche, motorette inservibili, non gettate via niente, tingete tutto di vernice rossa antiruggine e mandate a Venezia…) fu inondato da uno scrosciante applauso liberatorio. L’arte della Biennale rimane in fondo quella del film di Alberto Sordi e della moglie Augusta in Le vacanze intelligenti e spesso fa rima con mondezza. La società diventa però meno distante quando servono soldi: ogni anno agli artisti visivi vengono richieste continue donazioni di opere per aste di varia beneficenza. Ma mai qualcuno che chieda il parere agli artisti sulla città, gli artisti agli incontri, ai dibattiti, ai festival della “cultura”. L’arte fa comodo solo come investimento (sembra che oggi l’unica preoccupazione, quando si acquista un’opera, sia quella di avere il certificato di autenticità, la sola garanzia per rivendere l’arte senza intoppi, un giorno…). Se da una parte l’arte contemporanea è diventata quasi di moda (trent’anni fa l’artista americano Vito Acconci già diceva che oramai era diventata un’affare solo da ricchi), con banche che prendono il loro stand alle fiere di arte contemporanea per orientare gli acquisti in vista di interessanti investimenti, dall’altra c’è grandissima ignoranza e superficialità: nei media generalisti l’arte appare solo se provocatoria, o utile a qualche causa (asili, immigrati, ecologia, sguardo al Passato), oppure si vira sulla Street Art, grande mattatrice degli ultimi anni, che ha invaso le città (costa poco ed è di grande effetto), che forse incarna la vera rivincita del gusto del popolo sull’arte “difficile” degli intellettuali. Due anni fa ho telefonato a Enel (ma non è socio del Museo MAXXI di Roma?) per il contratto del mio nuovo studio a Savigno. La gentile signorina mi chiese che attività svolgessi. Scultura e pittura, sono un artista risposi. L’addetta di Enel disse subito che non esisteva la voce artista e mi pose subito davanti ad una scelta: la metto fra gli artigiani o i liberi professionisti? Per Enel, come in generale per il Belpaese, l’artista è una persona non reale, che non esiste e che comunque è meglio che rimanga al buio.

Note

  1. Joseph Kosuth, L’arte dopo la filosofia, Costa & Nolan, 1987
  2. Alessandra Andrini mi ha confermato l’incredibile fatto.
  3. Il minore ovvero preferirei di no. Una lettura in tre atti dall’opera di Ennio Flaiano, con Roberto Herlitzka a cura di Luca Sossella, regia di Jacopo Gassmann.

Testo pubblicato su DoppioZero:
http://www.doppiozero.com/materiali/fare-larte-ci-vuole-lartista

 

UNIVERS. Un negozio metafisico

“Nella mia città ideale c’è sempre stato un negozio,
che più che per vendere esiste per ricreare l’ambiente di un negozio,
ma in fondo, senza esserlo completamente.
Un bel negozio dove stare ‘come dentro un bel negozio’,
ma dove si vendono solo poche cose, quasi niente”

Flavio Favelli
UNIVERS
un negozio metafisico

8-14 maggio 2017
h. 12.00-22.00

Fondamenta Sant’Anna 994
Castello (in fondo a via Garibaldi)
Venezia

Traghetto fermata: Giardini

MAPPA/MAP 

astra 1 copia

Senso 80

La cosa più interessante del Diurno sono le sue insegne e le sue scritte più recenti, sparse qua e là: un adesivo su un vetro, qualche plasticone di agenzie di viaggi, le Ferrovie dello Stato, prodotti di bellezza e Coca Cola, oltre al caffè Hag. Sono tracce forse poco nobili rispetto al progetto originale degli anni Venti, ma il contrasto è forte, sono segni di vita vissuta veloce e moderna verso il nuovo, il tempo libero e la società dei consumi. È il benessere che amiamo e che pialla tutto. Del resto gli italiani più di altri hanno avuto sempre gusti pop e trash, ma si sono sempre vergognati a dirlo; si sono solo preoccupati di dimostrare che Giotto o la Cappella Sistina fosse un buon motivo per vivere. La mia famiglia si è spaccata e poi dissolta sulla faccenda del bello e del Buon Gusto, uno dei vanti del Belpaese; in realtà i motivi erano altri, sostanzialmente di potere, i conflitti classici psicanal-familiar-borghesi che si travestivano con ideali e faccende politico-artistico-spirituali. Sono cresciuto fra gli slogan della pubblicità, sempre liquidati con sufficienza, scontri generazionali e autoritarismi novecenteschi, il tutto condito da musei, pinacoteche, neon ministeriali, tribunali e vari uffici per documenti. La mia famiglia ha speso un’esistenza per compilare e consegnare documenti. Per via di una specie di introiezione delle cose di casa, la vera casa borghese manifesta il suo essere in ogni oggetto e stanza, ho sempre avuto come riferimento i mobili, armadi, comò, tavoli, ribaltine, oltre ai pavimenti e pianciti, che danno con la loro presenza un senso di autorevolezza e andamento, custodi di un immaginario che narra incessantemente. L’arredo era così intenso che diventava testimone delle vicende familiari. Mobili che contengono una sorta di principio della conoscenza, fatti di incastri e lavorazioni commoventi. Sono così tante le immagini sospese di questi arredi – la stanza dei mie nonni non è la stanza dei nonni, ma una storia complessa, direi profetica, dove alto antiquariato, valore dei soldi, Spirito Santo e cultura del cibo, insieme ad un pantheon di divinità, costituivano, dal servizio in argento alla messa domenicale, l’ordine – che formano una specie di grande collage in movimento, fra il caleidoscopio e la sciarada. Mio padre, che si sentiva artista, frequentava luoghi come il Diurno perché erano moderni, come per prendere un caffè Hag, un Hagghe avrebbe detto.
Mio padre amava il cinema, il cine, il bar e il treno, era ferroviere e viaggiava gratis in tutta Italia in prima classe sui Rapidi, quelle che hanno fatto un pezzo di storia d’Italia, sulle poltrone di tipo velluto verde marcio con aria condizionata, con le porte scorrevoli di vetro, tutte trasparenti, perché il nuovo e il moderno dovevano essere trasparenti.
Le insegne, le reclame, le scritte pubbliche e gli slogan sono l’apice della cultura moderna che divora tutto, ma solo dopo averci fatto vedere intensi bagliori di luce e di cristallina bellezza e libertà.

One Pound

La cancellazione è un tema costante e ricorrente della mia vita.
Le immagini censurate, private, oscurate, coperte, tamponate, sono immagini attraenti e che metto in relazione al piacere oltre che al conflitto.
A volte penso che il mondo si divida in due: fra chi ha un sussulto nel vedere una targa coperta da una plastica nera o le scalpellature sopra dei bassorilievi egizi, antiche damnatio memoriae, e chi invece no. Davanti a insegne oscurate, col marchio-logo coperto da vernice o teli ho sempre avuto un impeto: riconosco una complessità formale da indagare, ma soprattutto da contemplare.
Alla stazione Centrale di Milano, dopo la fine dei binari, sul muro sopra la porta principale, c’è una grande macchia, un segno astratto deciso, avvenuto per caso, assolutamente magnifico.
Raccolgo da tempo francobolli e banconote con errori.
L’errore sulla carta moneta da una sterlina –in fase di stampa c’è stata una piega imprevista del foglio successivo per cui l’inchiostro non ha colorato parte della faccia di Elisabetta II- mi ha ricordato una delle immagini più dense che ho incontrato, la copertina del disco God save the Queen del gruppo Sex Pistols del 1977, dove gli occhi e la bocca della Regina furono censurati con le scritte e che sembra quasi un negativo di certi costumi indossati dalle donne nell’islam di oggi.
Non è un caso che la banconota da una sterlina sia britannica.
Nella mia storia familiare la perfida Albione ha avuto un ruolo culturale importante.
Dal tè all’impermeabile – quando Burberry era una casa di moda in declino per signori- i miei nonni hanno sempre avuto un rapporto speciale con la Gran Bretagna.
La zuppa inglese –dolce tradizionale bolognese- naturalmente ci univa all’Inghilterra e anche se nella casa di campagna non riuscivamo mai ad avere un prato come loro, la carne all’inglese o il rosbif –come lo chiamava mia nonna Tosca- era la sola ricetta non bolognese ammessa in tavola. Mio nonno amava il Regno Unito perché in fondo amava l’Impero e poi aveva rifatto la casa danneggiata dai bombardamenti vendendo le colonie inglesi.