Storie dell’Arte / Flavio Favelli, la mia casa la mia mente

Maria Chiara Valacchi ha scritto  di Flavio Favelli per la rubrica La Nuvola del Lavoro sul Corriere della Sera. L’articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2018.

Flavio Favelli, artista nato a Firenze nel 1967, ha circa vent’anni quando la nonna materna gli dona l’appartamento di via Guerrazzi a Bologna dove aveva vissuto da bambino. Studente di Storia Orientale, ma soprattutto naturalmente spinto verso un’innata creazione artistica, si rende ben presto conto che la sua idea estetica è da ricercare oltre il quotidiano. I suoi “ambienti”, sono vere e proprie installazioni che narrano, più di qualsiasi altra cosa, realtà private e il disagio di una famiglia scomoda.

“Penso che l’arte contemporanea, figlia dell’arte moderna, nasca da una vera e propria carenza che l’artista percepisce nella realtà, da qui la spinta naturale di realizzare qualcosa che costruisca un vero e proprio mondo individuale e parallelo…la vera arte nasce dal conflitto, se io non avessi avuto modo di vivere un conflitto interiore e familiare, non avrei avuto la necessità di realizzare oggetti e opere d’arte che in qualche modo possono lenire o supplire delle mancanze affettive

Sebbene la sua famiglia non sia entusiasta della scelta artistica, conclude il suo ciclo universitario e da autodidatta realizza la prima mostra allo spazio Link Project di Bologna, luogo underground e poco politicizzata frequentato da artisti sopreattutto del teatro di ricerca e della musica. Le sue origini da famiglia e le sue opere introspettive e legate al suo passato sono causa di distanza da quell’ambiente.

“Tutti i ricordi del mio passato, dall’insegnamento di una famiglia borghese – chiusa e con regole rigide – a quelli legati ad un nonno materno – collezionista di francobolli, antiquariato e monete che ha assolto ad un ruolo di padre – sono tasselli imprescindibili del mio operato. Come del resto, tutte le carte degli avvenimenti che hanno interessato il mio padre biologico, dall’annullamento del matrimonio con mia madre alle sue ripetute crisi psicologiche e al suo passato di violenza…oggi io ne sono il tutore e questi scritti riaffiorano nella memoria come fossero forme da traslitterare e concretizzare nel reale. Sono delle ombre indelebili che evocano intrinsecamente ogni mio lavoro; immagini che mettono insieme stati d’animo e un contesto sociale…un’artista spesso ha la capacitò innata di far coincidere questi due differenti ambiti che hanno un imprescindibile percorso parallelo”.

Dopo la prima esperienza al Link a causa del servizio civile si trasferisce in un piccolo paese vicino Reggio Emilia. Per un anno si occupa della biblioteca e il tempo libero lo occupa leggendo libri e giornali; durante una di queste letture si imbatte in un articolo che parla di una scuola creata dallo scultore Arnaldo Pomodoro aperta ad artisti di ogni estrazione e dedicata alla lavorazione dei metalli, Favelli invia la sua candidatura e viene accettato. Saranno tre mesi intensivi, di studio e pratica, con docenti come Francesco Leonetti e Roberto Sambonet in cui realizza che l’arte può essere una professione.

Nel 2003 la giovane galleria torinese Maze lo invita ad esporre, la personale “La mia casa la mia mente” è un successo. La collezionista Patrizia Sandretto lo inserisce nella sua Fondazione omonima e Francesco Bonami lo stesso anno lo invita a prendere parte alla 50° Biennale d’Arte di Venezia intitolata “Clandestini”, esperienza ripetuta nel 2015 per il Padiglione Italia curato da Bartolomeo Pietromarchi.

Nonostante il suo approccio risulti riservato e lontano dalle dinamiche di un sistema dell’arte convenzionale e codificato, negli anni espone in prestigiosi musei internazionali come il Macro e il Maxxi di Roma, il MAMbo di Bologna, il Museo Marino Marini di Firenze, il Museo Riso di Palermo, il Centro Pecci di Prato, il Guggenheim di Venezia, il MoCA di Shanghai, il Musèe d’Art Moderne di Saint-Etienne e all’ Elgiz Museum of Contemporary Art di Instambul.

Molte anche le collaborazioni con curatori italiani trai quali Davide Ferri e Antonio Grulli con cui nasce una vicinanza di intenti e di amicizia, un dialogo in continua evoluzione svincolato da temi unicamente professionali.

Nella sua carriera anche molte occasioni con cui riesce a unire l’opera d’arte ad un’utilità pubblica come le installazioni bar funzionanti al MAMbo di Bologna e del museo MARCA di Catanzaro o “Sala d’Attesa” al Pantheon della Certosa di Bologna e ancora con Francesco Bonami collabora alla realizzazione di “Vestibolo” un’ambiente che si appropria degli spazi della sede dell’A.N.A.S di Palazzetto Foscari a Venezia con un catalogo curato dallo scrittore Mario Fortunato.

“Ho sempre amato la scrittura sono uno dei pochi artisti della mia generazione che redige articoli d’arte su riviste come Repubblica o Doppio Zero; trovo delle affinità intellettuali e sentimentali più facilmente con gli scrittori che con i curatori…”

La sua volontà di creare opere in posti dimenticati, ma pregni di intrinseci fascini, lo porta a Cosenza dove omaggia il calciatore calabrese Gigi Marulla scomparso prematuramente nel 2015, opera accolta con entusiasmo ma criticata successivamente.

“Per me è stata un’esperienza fortissima, sia vivere la partecipazione inziale sia la successiva rivolta popolare, ma ho scelto comunque di non cambiare la mia opera. L‘ho donata alla città e nel rispetto della loro libertà ho dato loro l’autonomia di trattarla come volevano…e’ stato chiamato anche uno street artist a realizzarne una accanto che sottintendesse i canoni “estetici” degli ultras del Cosenza. Questo ha scatenato in me molteplici riflessioni, mi ha fatto capire cosa l’arte può provocare in una comunità e come possa misurare la vera  temperatura di un paese e di un contesto sociale, un feedback impossibile da recepire in un sistema artistico educato”

Flavio Favelli è attualmente coinvolto in un nuovo progetto, Serie Imperiale, nella città di Bazzano in provincia di Bologna, vinciotre del bando ministeriale Italian Council, dove ha realizzato alcune grandi pitture murali, una alla Casa del Popolo e una in un supermercato abbandonato della Coop.

Serie Imperiale, intervista con Flavio Favelli

Elena Bordignon ha intervistato Flavio Favelli sul progetto “Serie Imperiale”. L’intervista è stata pubblicata su ATP Diary il 5 aprile 2018.

Propaganda, pubblicità, provocazione, ostentazione, sensibilizzazione: sono tutte finalità che circondano il mondo delle affissioni. Che siano legate al pubblico o al privato, alla divulgazione politica o alla commercializzazione di prodotti. Tutto ciò che è affisso in uno spazio pubblico – parcheggio, piazza, autostrada, pareti di condomini ecc. – ha una dimensione di libera, e direi incontrollata, diffusione. Quale è il tuo pensiero in merito all’utilizzo di questi spazi?

Li ho sempre percepiti come decisivi. Mi sembra interessante oggi vedere che grandi superfici, generalmente pubbliche, siano offerte alla Street Art, pratica con significati illustrativi e soprattutto moralista; l’arte contemporanea che si sopporta è giusto decorativa e positiva. Non da ultimo la scomparsa della politica nelle affissioni nelle ultime elezioni apre la strada solo alla pubblicità che non dà segni di stanchezza. Una delle parole nuove di questi anni mi sembra sia Sotto Costo termine che presuppone qualcosa di losco. Considerando che Amazon è il nuovo mondo Sotto Costo, mi sembra che il panorama sia chiaro. Nel territorio pubblico dove si concentra lo sguardo delle masse e del quale ho molti ricordi e immagini (il paesaggio moderno è fatto di messaggi e scritte e le metropoli sono le insegne che nei notturni sono luminose) cerco di intervenire perché l’ambiente circostante che percepisco come pubblico e quindi come territorio aperto ed estraneo, ha in qualche modo un peso maggiore. Estraneo e pericoloso perché lo intendo in balia del caso, oltre che più vero, perché nella strada della città si svolge il tempo.

Per il progetto che presenti a Bologna “Serie Imperiale”, hai realizzato due wall painting site specific nel centro di Bazzano, nelle colline sopra Bologna. Mi introduci l’attinenza di questo intervento con il luogo?

Ho partecipato con questo progetto al bando dell’Italian Council e volevo un’opera capace di contenere tante cose insieme: due immagini di francobolli desueti del Regno d’Italia con dei timbri capaci di dare, come immagini, delle informazioni stranianti – la sovrastampa Zara come città di una storia piena di ombre, ma anche il noto brand di questi tempi, e quella della Repubblica Sociale Italiana in rosso, una specie di groviglio di segni quasi fosse un tatuaggio tribale sul viso del re – riportate su due muri interni differenti, un ex supermecato Coop e in una saletta della Casa del Popolo, due luoghi emblematici dell Emilia. Direi che ci sono tanti elementi che creano varie situazioni mentali.
Aggiungo che quei francobolli appartengono al mio immaginario dell’infanzia, quando insieme ad altri, erano sulla scrivania di mio nonno, fra profumi talcati, acque di Colonia e un’atmosfera rassicurante: era la casa borghese di fine ottocento con segni del novecento dove cose monarchiche e imperiali, intrecciate da motivi coloniali, si stavano accomodando con i primi prodotti seriali del dopoguerra e del benessere. Sono dei documenti colorati di natura politico-militare (il primo francobollo aveva il profilo della Regina Vittoria) che hanno utilizzato la rappresentazione artistica per diffondere e definire un messaggio di potere. Mi sembra poi che dipingere su muro interno sia un’operazione diversa rispetto alla regola della strada.

Il progetto è stato strutturato in tre parti, con questa motivazione: “tre fasi operative distinte che daranno origine a un’opera composita su più supporti, metafora dello stratificarsi della storia italiana cui l’opera fa riferimento.” A quale ‘storia italiana’ ti riferisci? E perché hai scelto questo determinato periodo? 

Qui è la curatela che tenta di dare una spiegazione e un significato. Ho scelto tre fasi perché comportano varie questioni: un dipinto (interno) fra due luoghi emblematici di un territorio, che diventa un dittico di quadri e che lascia un segno formale che mi ha sempre colpito: le otturazioni che hanno a che fare coi buchi stuccati e le tracce occultate, dal pavimento della Stazione di Bologna alle rose rosse di Sarajevo. Che le tre fasi assomiglino alle fasi della nostra storia non lo so e non è una mia preoccupazione. Ho scelto i francobolli del Regno perché sono belli e perché mi ricordano i tempi che ho vissuto in casa dei mie nonni, dove monarchia, Fascismo, guerra e occupazioni si intrecciavano fra storie vissute e disquisizioni filateliche. L’arte poi batte dove il dente duole (è questa l’anima dell’arte moderna) e quindi il nostro recente passato, che non passa mai, apre sempre questioni credo familiari. Per me quel periodo è sostanzialmente una storia familiare, come lo è per la maggior parte degli italiani. E cosa c’è di più vischioso della famiglia? Due mesi dopo che ho presentato il progetto c’è stato il ritorno della salma del re in Italia, con tante polemiche (familiari). 

Nemmeno troppo celata è evidente una sorta di critica sociale ai mutamenti avvenuti in questo comune (ma si potrebbe ampliare il discorso a molte altre realtà italiane). Partendo dal fatto che i mutamenti sono percepiti come peggiorativi, ma in realtà altro non sono che un evoluzione delle esigenze collettive, cosa ti ha spinto a sottolineare l’aspetto (tristemente) negativo di queste trasformazioni?

Ho scelto questi luoghi perché sono sostanzialmente desueti e per me portatori di categorie che sento mie. Stanze o stanzoni poco frequentati e abbandonati che appartengono a luoghi che stanno scomparendo. Credo che diano la possibilità di pensare ed sentire sensazioni differenti, lontane dall’imposizione di produttività che impone oggi la situazione attuale. L’artista vede e vive in modo differente questi posti che a breve verranno dismessi (la Casa del Popolo evidentemente non serve più ed è in vendita, la ex Coop verrà demolita). La necessità poetica non coincide con il flusso odierno del tempo, dove i luoghi esistono per il profitto che muovono. La necessità poetica elegge questi ambienti come importanti e simbolici. Coop, nonostante sia proprietaria dell’ex supermercato, ha dimostrato uno scarsissimo interesse, senza dialogo, né confronto. Si sono preoccupati solo di mandare l’ufficio tecnico a delimitare i luoghi di intervento rispetto a regole di agibilità burocratiche. Ci hanno trattato come se noleggiassimo un loro spazio per una festa; da un attore che tutti i giorni insiste sull’impegno civico e culturale non mi aspettavo una reazione del genere. Ma credo sia una questione di ignoranza, Coop ama i grandi numeri e l’arte contemporanea è troppo difficile, elitaria e sospetta per loro. La figura dell’artista forse, per via del suo personalismo, non si integra tanto con l’idea di cooperazione.

Pensi che il tuo intervento provochi una reazione da parte dei cittadini di Bazzano? Quale effetto ti auguri di suscitare? 

I cittadini oramai sono occupati in mille cose, un esempio interessante sono lettere ai giornali che arrivano solo per protestare contro multe prese ingiustamente (leggendo si capisce che pochi hanno una chiara idea di legalità e giustizia), contro troppe rotonde agli incroci, per ringraziare il medico di turno o magagne da mense scolastiche. Insomma vite grame dove le reazioni sono idotte da automatismi materiali, pratici, da sbarcare il lunario. Giusto il comune (governo PD) ha avuto una reazione difensiva: c’è l’abitudine a vedere l’opera come immagine qualunque e a tradurla secondo un metodo letterale. Hanno visto i fasci littori del francobollo, il re e la scritta Repubblica Sociale Italiana e si sono un po’ spaventati. Anche se questa è un’opera d’arte, l’hanno tradotta in modo semplice, preoccupandosi solo di dare un significato ufficiale del tipo non è apologia del fascismo, ma una sua critica!
Questa ricerca di significato ufficiale e univoco che vuole separare il bene dal male e il giusto dallo sbagliato è lo stesso terreno su cui si muove la Chiesa (per cui l’arte è un mezzo di culto) e una certa Arte Pubblica (che dà all’arte solo un senso positivo) ed è un terreno angusto e banale. Con le curatrici abbiamo promosso incontri sia al bar Arci adiacente sia alla Casa del Popolo, ma c’erano sempre poche persone, tutti hanno sempre altri impegni.

Il progetto, dopo una fase contemplativa, prevede una fase di interazione. Nell’estate del 2018 i due wall painting veranno strappati e ricomposti su tela. Coinvolgerai anche un laboratorio di restauro specializzato in questo tipo di interventi. Mi racconti le motivazioni di questa seconda fase?

Colui che farà il lavoro ha detto che probabilmente questa è la prima volta che viene commissionato uno strappo prima della realizzazione dell’opera stessa. Solitamente si asporta un dipinto che è in pericolo di conservazione, mentre in questo caso l’operazione è solo artistica, contribuisce ad aggiungere senso all’opera che ha necessità di avere due pezzi di muro originali che sono ben diversi da due fondi di tela. L’unicità dell’intonaco dell’ex supermercato e della sala riunioni della Casa del Popolo saranno così conservati e costituiranno il supporto della pittura del dittico.
Il soggetto di tutta questa faccenda credo che sia l’unicità, la ricerca del non replicabile. Alla fine, come molte mie opere che hanno spesso, da qualche parte, un oggetto o materiale originale ed unico. E’ forse per sfuggire al tempo che passa e alla Natura che fa scorrere il suo essere iniquo. Ogni cosa, ogni opera, ogni ambiente ha una data precisa per cercare di fermare qualcosa. E questo vuole dire essere occidentali e in fondo post-cristiani.

Serie Imperiale. Intervista di Ilaria Siboni

Il progetto le è stato commissionato? Che tempi di realizzazione ha avuto (bando, organizzazione, realizzazione delle pitture)?

No, è un mio progetto vincitore del bando Italian Council. Il bando è complicato, meno male che Nosadella Due mi ha affinacato a compilare le parti più noiose: dico noise perchè oramai tutti i (pochi) bandi sono burocratici e soprattutto danno molto e troppo spazio agli eventi collaterali, cioè non basta fare un progetto interessante per un’opera, ma si deve descrivere e dimostrare (cito dal bando) la strategia di promozione e comunicazione, la proposta di eventi, attività di formazione ed educative… Insomma Giorgio Morandi non avrebbe vinto l’Italian Council.

Da quale elemento è partito per svilupparlo, dai luoghi o dalle immagini/oggetti?

Ho pensato ad un’opera più vicina ed intima possibile al mio immaginario.
Del resto è il mio modo di operare. I francobolli sono parte della mia esperienza; il mio punto di vista è però sul complesso corpo delle immagini:
gli stati attraverso le banconote veicolano l’idea di potere che hanno. E cos’è l’arte se non delle immagini in relazione al potere? Avendo vissuto molto in solitudine, o intensamente in solitudine probabilmente ho imparato a vivere le cose e le immagini – che sono i veri compagni della giornata quando si è soli- nella loro intensità. Cioè i francobolli e le banconote di certi paesi lontani erano “belle” e sostenevano la volta celeste dell’universo borghese di mio nonno dove tutto aveva una ragione ed una collocazione. Questi oggetti, oggi, continuano ad avere questo valore diciamo psicologico. Sono immagini che hanno costruito il pantheon del potere (poco dopo che avevo consegnato il progetto a settembre 2017, a dicembre ci fu la polemica del ritorno del Re Vittorio Emanuele III, in Italia non sono fantasmi ma questioni ancora aperte)

Che ruolo ha avuto, in un progetto così complesso, la curatela?

Direi organizzativa, fra luoghi, presentazioni delle varie fasi e catalogo hanno fatto un gran lavoro. Il catalogo, che poi è un libro è, credo, molto interessante.

La documentazione in VR e la programmazione delle attività legate a Serie Imperiale sono connaturate all’opera o sono nate successivamente?

È stata un’idea di Elisa Del Prete, importante perchè la Casa del Popolo è in vendita e la ex Coop verrà demolita; a breve, quelle due sale dove ho dipinto Serie Imperiale non esisteranno più, in questo caso la VR sarà un documento importante.

Definirei il progetto d’arte pubblica, è d’accordo? Vista la sua natura ibrida, è stato complicato far accogliere l’idea?

Sono molto critico sull’Arte Pubblica, anzi per me l’ideologia dell’Arte Pubblica è una gran brutta cosa. L’Arte Pubblica ha uno scopo (come dice Alberto Garutti) di rivolgersi ai cittadini e comunque ha sempre un fine positivo, preoccupandosi della polis. Io penso che l’arte non debba avere nessun scopo se non quello dell’arte stessa. Mi sembra che l’Arte Pubblica persegua in qualche modo la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è in fondo un’arte del bene contro il male. E’ un’arte con un colore, proprio come ad esempio vuole la Chiesa. Come cittadino ho certe idee, ma come artista sono guidato dalle miei immagini che non si preoccupano se sono immagini giuste o attente all’immigrazione. L’arte, come disse Perniola, è arte, meta-arte e anti-arte allo stesso momento. Se i sindaci vogliono l’arte per abbellire le città con i murali degli artisti (di serie B) della Street Art, se vogliono fare dialogare parti differenti, se vogliono sensibilizzare con la cultura eco e green, benissimo, fanno il loro mestiere, ma quando lo fanno gli artisti per me è avvilente.
Penso anche che più è intima l’opera più può portare a varie riflessioni sociali e politiche. L’opera è pubblica già da sé, se si parla di Arte Pubblica vuole dire forzare, vuole dire non capire l’opera, vuole dire non capire che l’opera ha diversi piani di lettura che non vanno privilegiati e forzati. Un direttore di museo in Italia anni fa disse su Flash Art : …Trovate temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini. (F. Cavallucci, Arte e libertà, Flash Art n.275, 2009). Certo… Signor No! Spesso gli artisti che fanno Arte Pubblica sono illustrativi, letterali e credo anche che ci sia un grande senso di colpa strisciante: si fanno opere giuste e utili forse per controaltare al fatto che costano molto? Ma la differenza di ricchezza non è una delle cose più odiose del mondo? Forse chi si occupa di arte dovrebbe chiarire queste faccende. Ha un significato più pubblico l’opera di Giorgio Morandi o di Santiago Sierra? Io sarei molto cauto.
È stato molto complicato eravamo sotto elezioni e il Comune è stato freddo con questa opera, il Re spaventa ancora. Ho messo la faccia del Re col timbro Zara alla Casa del Popolo, c’è stato un piccolo dibattito con qualche persona, ma oramai sono finiti i tempi dei dibattiti… Il problema (è sempre colpa dell’Arte Pubblica) è che l’opera d’arte (non c’erano dubbi, dipingere il Re su un muro è un’opera d’arte oltrettutto l’opera ha vinto il bando del MiBACT ed è per lo Stato un’opera d’arte) non si legge come opera d’arte ma solo come provocazione fine a se stessa . Non si capisce che l’opera ha uno status diverso e quindi finché si ragiona sempre con un metro semplice (il Re fascista alla Casa del Popolo) non si capisce niente. Non è un Re fascista alla Casa del Popolo è un dipinto su muro di un francobollo originale (quindi trovato) dove il Re ha in faccia il timbro Zara (la città della ex Jugoslavia o il brand di moda?) Se si mette un timbro in faccia ad una persona è laudativo o censorio?

Che tipo di risposta ha dato il pubblico, in particolare i cittadini di Bazzano? E quale è stata la partecipazione alle tante iniziative che ne accompagnano l’evoluzione?

Non è tempo di partecipazioni. Bazzano è una cittadina seduta, c’era poca gente, i ragazzi al bar Arci non sono venuti a vedere le opere che stavano nello stesso stabile (il bar è a piano terra della Casa del Popolo, la ex Coop è attaccata allo stesso edificio). È tutto finito da un pezzo. L’assessore alla cultura del comune di Valsamoggia non si è mai fatta vedere, abita a Firenze.

La sintesi, la selezione accurata delle parti che vanno a comporre l’opera, l’eleganza, sono elementi che si ritrovano nelle sue opere. A questo proposito per l’otturazione avrebbe potuto scegliere un qualsiasi altro colore compreso uno di quelli che componevano le opere iniziali. Perchè ha scelto l’intonaco bianco?

Sull’eleganza come dici (a tal riguardo per risponderti in modo diretto ti allego una foto di un mio murale) la questione credo sia importante: sono nato in un milieu borghese dove il bello significava le “belle cose”. In casa di mio nonno c’erano vasi cinesi, avori, ceramiche di Faenza, servizi Ginori e argenteria importante. Aveva anche un Fortuny alle pareti e mobili di grande antiquariato. I cioccolatini che non mancavano mai, stavano in una grande ciotola di Barovier e Toso. Questa bellezza ed eleganza, per la persona diversa e consapevole –come l’artista- che riesce a superare questa (diabolica) apparenza si trova in una situazione complicata: se tutto ciò era rassicurante e oggettivamente bello nascondeva però miti e riti banali e tristi tipici dell’idea borghese italiana: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze familiari; senso dei soldi e degli affari, doppiezza e regole di società.
Insomma ancora tutto ciò che regna il modo di oggi, dalla politica alla finanza.
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.

Di chi è la proprietà delle opere staccate? E per le stesse si è pensato ad una collocazione “finale”?

Sono dello Stato, del MIBACT. Saranno in prestito al MAMbo di Bologna.

Questo lavoro ha un rapporto con i suoi lavori precedenti? Oppure il suo punto di partenza è l’oggetto?

Ho fatto molte opere con le immagini (dei francobolli). Queste immagini, questi santini, sono ricorrenti, fanno parte del mio ambiente ideale che ho introiettato: è la bella casa borghese, dove succedono le peggio cose. La famiglia era così importante che i miei genitori hanno avuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota…

Ci sono artisti che ritiene suoi riferimenti, da un qualsiasi punto di vista, o che ama particolarmente?

Devo essere sincero: sono talmente inondato da urgenze personali che per i maestri non ho tempo. Vedo che molti artisi citano decine di artisti e intellettuali (Pasolini!) forse per irrobustire la loro poetica… Gli avi sono la mia famiglia e questo mi basta e avanza perché per me l’artista è un autore in conflitto ed è soprattutto solo, senza padri, né madri (perché la mia famiglia sono dei fantasmi).

Nel suo lavoro è importante il rapporto con il pubblico? Ritiene che l’artista sia tenuto, in qualche modo, a rendere conto al suo pubblico?

Ho scritto da qualche parte a riguardo: devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.

Cosa pensa sia legittimo per l’artista contemporaneo? Soprattutto quando interviene nell’ambito dell’arte pubblica.

La faccenda del mio murale sul calciatore Luigi Marulla nel 2015 a Cosenza, riassume la questione: ho fatto un’opera su un muro pubblico e i tifosi e il pubblico l’hanno contestata. Molti mi hanno detto che ho sbagliato perché l’arte su un muro pubblico deve essere presa in considerazione come Arte Pubblica. Mi hanno detto che “se avessi fatto più chiaro il calciatore avresti accontentato tutti”. Ma io non faccio opere per accontentare (le mie opere non accontentano me, figuriamoci gli altri). Avevo in mente un’opera e l’ho fatta. Quell’opera dava informazioni e ragionamenti differenti rispetto all’immaginario comune del pubblico. E’ l’artista che deve dare immagini differenti e non accontentare le masse (i cittadini?) . In una città dove manca l’acqua a corrente, dove si costriusce il ponte di Calatrava più alto d’Europa, dove l’assessore è stato prima Vittorio Sgarbi e poi Padre Fedele, frate noto ultrà della curva, dove un medico pulisce le seppie nel lavandino dell’ospedale e dove per la prima partita di serie B della squadra il campo non è pronto prechè sembra arato, l’artista deve accontentare la città con immagini condivise?

Si è fatto un’idea del perché l’arte pubblica contemporanea abbia acquisito tanta attenzione?

Credo che faccia comodo. Gli artisti che aderiscono all’Arte Pubblica evidentemente sono poco interessati ad avere una propria poetica e pescano da vari temi più o meno attuali (o non ce l’hanno proprio) e sicuramente è più semplice e più remunerativo fare progetti con soggetti cari all’opinione intellettuale oppure di semplice commestibilità per il pubblico. In un momento di grande crisi finanziaria e di un certa sguaiatezza della genti, il sospetto e la distanza sull’arte contemporanea diventa più marcato (se a Roma per il Museo MACRO la giunta Cinque Stelle lo dà per la prima volta ad una persona fuori dal mondo snob dell’arte un motivo ci sarà). Perché dobbiamo spendere soldi per l’arte contemporanea che è per un’elite snob e radical chic si chiede la gente? Il soggetto pubblico così è costretto a guarnire la cosa con la “pubblica utilità”. Alla insistente e martellante domande della masse “che vuole dire?”, “qual è il messaggio?” (dopo venti anni di mostre posso dire che la domanda è sempre quella) l’istituzione deve giustificare in qualche modo la faccenda con un “aiuta l’asilo”, “lavora con gli immigrati” oppure “riqualifica il quartiere”. Cioè l’arte deve servire dannatamente a qualcosa, deve essere utile. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo anni fa rispose ad esponenti della Lega Nord di Torino che contestavano tutta la baracca del contemporaneo, che una mostra, mette in moto economie. Ecco dove siamo arrivati: si deve giustificare l’arte perché fa economia. In questo clima utilitaristico l’Arte Pubblica ha buon gioco ed è tutto un rincorerre buoni propositi: si tenta di cercare la verità in grandi tragedie, si sensibilizza sulle minoranze, si opera sulle cattive condizioni dei lavoratori. Si crea un’arte sensibile al sociale con una morale chiara. Il fine è la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è un’arte del bene contro il male. Ma questo è la fine dell’arte contemporanea, gli artisti non l’hanno ancora capito.

Quali ritiene siano gli elementi, le dinamiche più significative del suo processo artistico?

Copio e incollo da sopra:
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.
Aggiungo la parola piacere. Amo fare le mie opere perchè mi danno un piacere ambiguo che mette le mani fra ricordi di ricordi, immagini e reminiscenze e rievocazioni di momenti vissuti che sono tanto privati quanto pubblici, perchè questa oscillazione fa parte della natura dell’artista. Sembra una bestemmia, ma gli artisti, che fanno sempre gli impegnati, non dicono mai che provano piacere quando lavorano.

L’amministrazione pubblica è stata partecipe e ha collaborato alla promozione del progetto?

Come dicevo prima pochi hanno partecipato e con grande fatica. Molti si sono presi paura del Re. Poi un esempio su tutti: la Coop, che qui ha radici profonde, ha dato un contributo per il catalogo tanto insignificante che il direttore della Fondazione Rocca dei Bentivoglio (ex sindaco PD) voleva rifiutarlo. E il libro ha una lunga riflessione sulla storia degli edifici del quartire che ho scelto come ambiente per la mia opera.

E naturalmente mi interessa chi acquisisce la proprietà del dittico una volta staccato.

È e rimane dello Stato.