La Street Art climatizzata

Ogni azione di Street Art si relaziona al muro che non è un semplice supporto, ma partecipa a un contesto e a un territorio dove il soggetto è pensato ed eseguito per vivere in quello scenario che per sua natura gli appartiene. I muri parlano perchè hanno una storia e le figure si relazionano a questo immaginario. Un murale vive dell’identità del luogo e molto spesso il murale è la domanda -o la risposta- proprio ad una precisa situazione della sua memoria storica. Un’operazione fatta per esistere nella metropoli alle intemperie – e quindi un giorno svanire – se asportata, anzi strappata, diventa inevitabilmente un’altra cosa. Diventa un oggetto snaturato che sarà artificialmente collocato in un luogo climatizzato (poco importa che sia un museo o un salotto).

La raffinata e soprendente tecnica dello strappo divelle il murale come un foglio e lo fissa su tela; ne fa quindi un quadro e nel cambiare il supporto ne tradisce il significato. Si comprime così uno degli ultimi processi-rituali della nostra epoca in un reperto-testimonianza che diventa, a contatto con il faretto che lo illuminerà, un falso artefatto.

Si pretende un’opera che non nasce come tale, si trasforma un processo con un telaio con l’attaccaglia, si tramuta una visione in un bene da museo a servizio della società con cui la Street Art non vuole avere nulla a che fare.

Tutti i sostenitori di questo progetto, fra l’altro, riportano modelli evidentemente per loro ancora validi (il Partenone al British Museum, l’Obelisco di Axum e l’Altare di Pergamo a Berlino) che non sono certo esempi edificanti, ma storie di dominio e di predazione di un lontano e scomodo passato. L’artista di strada ha un punto di vista diverso, la sua è una scelta consapevole di un campo che ha poco a che fare col sistema dell’Arte, è una scelta di rottura, dove la strada, territorio di conflitti e cambiamenti, non ha mai avuto uno sfondo bianco. La Street Art è antagonista all’Arte.

Qualcuno tira dentro Pinturicchio e Botticelli, insomma si è fatto sempre così sembra dire, ma oltre ad essere diversi i tempi e i contesti, sono soprattutto i fini molto differenti, semplicemente perchè la Street Art non si pone in linea di continuità con l’Arte. Ed è quello che in sostanza dice Dado uno street artist che parla da street artist e subito puntualizza, tanto per essere chiari, che dopo l’esperienza di Frontier, il progetto di Street Art promosso dal Comune di Bologna, molti artisti di strada a Bologna non ci mettono più piede perchè la Street con l’istituzione non ci va tanto d’accordo. Che una fondazione bancaria, che per sua natura vede l’opera come un valore materiale e da collezione, stia creando una collezione -senza acquistarla- approfittando della grande confusione che regna attorno ai concetti di autore, proprietà, opera, legalità e conservazione è un forte segno dei tempi. Ai non-autori, ultimi guerrieri indomiti con i loro suoni di vernice variopinta, si manifesta un destino tragico e imminente che ne mina l’esistenza. Come un nuovo virus, come una nuova malattia in un organismo senza anticorpi, lo strappo pianificato celebra definitivamente il funerale della Street.

Luigi Marulla

Sono stato invitato da Alberto Dambruoso alla residenza d’artista BO_CS a Cosenza, sostenuta da Comune e Provincia della città calabrese. 
Il programma prevedeva che alla fine del soggiorno l’artista lasciasse un’opera per la collezione del futuro museo d’arte.

Ho proposto di fare un wall painting su un muro pubblico, visto che è una pratica che seguo ultimamente; sarà quella la mia opera per il museo.
Avevo in mente di dipingere una vecchia pubblicità dell’Itavia Aerolinee soggetto su cui ritorno da anni (fra l’altro molto attiva in Calabria con gli scali di Crotone e Lamezia, così anche quelli che il progetto si deve legare al territorio, sarebbero stati tranquilli). Improvvisamente, il giorno dopo il mio arrivo, il 19 luglio, muore Luigi Marulla, calciatore simbolo della città, il calcio a Cosenza.

La sera stessa cerco su Internet le figurine su cui è apparso durante la sua carriera.
Per me Marulla significa immagini e ricordi di un calcio minore, il fascino di un calcio della provincia meridionale sui campi con poca erba in area, nei servizi sbiaditi di Novantesimo Minuto, che mostravano, oltre alle partite, vedute di luoghi.
Storie lontane, spesso malinconiche, schiacciate da una bellezza ridondante di un passato a pezzi e una desolazione che solo la modernità può dare. In un ambiente fra lo sfasciato e una magnificenza intaccata da un carattere insieme arcaico, commerciale e popolare. Tutto questo è il Sud d’Italia e Luigi Marulla è uno degli dei di questo immenso pantheon.
Ho pensato quindi ad una figurina della Panini di anni fa, con uno sfondo celeste carta da zucchero, un cielo chiaro, forse con un inizio plumbeo.
Alla presentazione il primo agosto 2015, l’opera è stata duramente contestata con giudizi offensivi. Su Facebook è stata dileggiata. Fra i tanti merita attenzione questo intervento di tale Antonio Napoletano: Praticamente il Tributo a Gigi Marulla sarebbe una figurina di Gigi senza che sia raffigurato. Vi sembra una cosa normale? E non venitemi a dire che l’artista deve essere libero perché non sta disegnando su una tela, ma su un muro della città. Ciò significa che non è libero di fare quello che vuole ma si deve adeguare alle esigenze ed al gusto della cittadinanza che poi lo dovrà vedere tutti i giorni quel murales. Perché prima della realizzazione non si è chiesto un parere ai cittadini? O quanto meno agli ultrà?
che credo riassuma il punto di vista di molti, anche di artisti, crititici e curatori che amano l’Arte Pubblica.
I locali -siamo pur sempre nella Magna Grecia, nella terra dei Bronzi di Riace- amano e vogliono un’arte figurativa, letterale, meramente illustrativa, come i credenti pagani devoti a Padre Pio o proprio come la scultura di Mimmo Paladino in piazza del Comune che rappresenta l’elmo dei Bruzi, gli antichi abitanti di Cosenza.

Secondo molti la mia opera non corrisponderebbe all’immaginario popolare, sul muro non c’è traccia né del ritratto della persona, né del suo nome; in particolare sono stato accusato di non avere capito bene la realtà del luogo, i sentimenti delle persone, l’importanza del significato di Luigi Marulla per la città.

Da subito mi sono sentito nominato da una sorta di investitura che mi ha dato il contesto, subito dopo la notizia – già trapelata il giorno dopo la sua morte- che un artista, venuto da fuori, avrebbe dedicato un’opera al campione. Dopo avere realizzato il murale, il Sindaco, dando ascolto ai tifosi, mi ha chiesto se potevo in qualche modo completare l’opera. Non mi è stato possibile risolvere l’opera semplicemente perché un’opera d’arte finita non va risolta e corretta affinchè risulti piacevole al pubblico o peggio ancora ortodossa.

Mi sarei aspettato dagli ultras un gesto istintivo, magari una scritta a vernice sull’opera sull’onda della contestazione e invece c’è stato un momento di strana sospensione durante la concitata discussione, come se solo io avessi il potere di risolvere la faccenda. La delega ha un significato profondo al Sud.

Leggo sulla pagina Facebook del Sindaco questa frase del 5 agosto:
“L’applicazione del nome è stata concordata con i tifosi alla mia presenza e suggerita dall’artista stesso”.
Io non ho suggerito nulla, dopo un’accesa discussione ho pensato che non c’erano gli estremi per ragionare; i tifosi sono fedeli e con la fede non si ragiona.

Per cui, considerato che gli ultras volevano una risposta, ho permesso che fossero loro a finire il murale. Lo stesso giorno un gruppo aggiunge all’opera il nome: Gigi Marulla, scritto in maniera ordinata con una bomboletta spray nera.
Un’opera cambiata a furor di popolo.

Ho permesso questo perchè mi sono trovato davanti a una situazione talmente irreale, folle e assurda che l’unico modo per superare l’impasse era cercare di identificarsi e comprendere i sentimenti della gente. Ma non perché lo abbia ritenuto interessante come processo, non sono d’accordo su nessuna delle loro obiezioni, ma perchè tutta la faccenda andava semplicemente vissuta da un punto di vista antropologico, con tinte che definirei esotiche, una specie di abisso pop.

D’altra parte come chiamare un contesto dove un eroe calciatore viene celebrato in processione, portato -bara in spalla- nel campo dello stadio e poi commemorato con un funerale officiato contemporaneamente in due modi, quello cattolico dentro la chiesa – coi poster affissi sulla facciata- e quello pagano all’esterno, coi fumogeni e cori da stadio?

Riflettendo, dopo un mese, posso dire che la mia scelta del soggetto Luigi Marulla è stata forse una scusa, come del resto molte opere lo sono, per scendere in questo milieu a tinte esotiche.
Il 25 agosto viene inaugurato, contiguo al primo (in quale posto al mondo si mettono due opere attaccate?) un secondo murale dello street-artist Lucamaleonte, che chiamato per acclamazione, oltre a lavorare sull’idea di un progetto non suo, ha dipinto l’immagine del

calciatore proprio come è sul poster che è stato stampato dai tifosi subito dopo la scomparsa del giocatore. Soluzione letterale e puramente illustrativa.
Quello che appare ora, un’opera corretta insieme ad una pittura folcloristica, non è altro che un’immagine partorita, non so con quale consapevolezza, da un contesto di subcultura.

Mi rimarranno molte immagini da questo caldo soggiorno cosentino.
E fra queste di sicuro la figura del barista del Caffè Europa che accoglie tutti gli uomini con Dottò, Dottore.
Santino fa delle bibite artigianali, la limonata e l’aranciata, quest’ultima con le arance di Trebisacce che finiscono il 15 di agosto e sono, come dice lui, un prodotto eccezionale: A fine dumunnu.
La fine del mondo.

Questo scritto non è nè una lettera nè un testo, ma un’opera d’arte.

 

Conversazione con Cristiana Perrella

Cristiana Perrella: Il tuo lavoro è fortemente radicato nel territorio da cui provieni e nella tua storia personale. I materiali che utilizzi più frequentemente sono quelli legati all’immaginario della tua infanzia borghese nell’Italia degli anni  Settanta – armadi, tappeti, specchi, bottiglie, lampade, cartoline – che trovi da robivecchi della zona dove vivi e riassembli attraverso un meticoloso lavoro artigianale,  per rincorrere ed esorcizzare il  tuo passato, ricostruendone l’atmosfera. Dici di trovarti benissimo nella solitudine del tuo studio, a Savigno, un piccolo paese dell’appennino tosco–emiliano, circondato dalle cose che raccogli e che, prima o poi,  trasformerai in opere. Hai però, soprattutto negli ultimi anni, accettato diverse residenze: sei stato a Roma (all’Accademia Americana), Cuba, Palermo, ora a Istanbul. Come e perché affronti queste esperienze? Cerchi l’uguale o il diverso, una possibilità di fuga rispetto al tuo mondo, che è così immersivo, oppure cerchi sempre, anche in luoghi lontani, qualcosa che ti assomigli?

Flavio Favelli: Per me è importantissimo partire ma quando devo farlo non mi va mai, e ogni volta è una fatica. Credo comunque nella forza delle immagini e quando si va in giro ci sono sempre nuove immagini che si mischiano con le proprie… tutto quello che ho visto a Palermo e Istanbul è poi mescolato in nuove opere. Certo, lo sguardo con cui osservo una realtà nuova è il mio, ed è uno sguardo italiano. In un’intervista su questa mia residenza in Turchia, ho detto che è Istanbul che diventa Favelli, non Favelli Istanbul; il ruolo dell’artista è quello di interpretare col suo mondo il mondo.
Spesso mi sento dire che la mia opera è troppo bella, troppo barocca, so Italian. Ma se si guarda le opere dei giovani artisti internazionali, noto spesso uno spirito del luogo, un’attinenza con certe particolarità della loro provenienza.
Questa bellezza è una specificità italiana sempre riconoscibile che mi porto, volente o nolente, dietro, perché uso immagini italiane.

P.: Le residenze sono quindi per te un esercizio con cui ti forzi di uscire dal tuo mondo, e allo stesso tempo un’occasione per ritrovarlo oltre i tuoi confini. Come scegli i luoghi in cui vai? Se penso a Palermo, Cuba, Istanbul, e anche Roma, mi sembra abbiano una certa affinità: città in cui la memoria del passato è molto forte, nella stratificazione delle cose ma anche nella decadenza. Le hai scelte o ti sono capitate? Faresti una residenza, ad esempio, in una metropoli orientale?

F.: Alla fine tutto capita. Ultimamente sono stato in Cina, a Pechino e Shangai e a Dehli. Sono sempre stato interessato alla Cina e alle Indie, perché nella nostra cultura è sempre stato presente un gusto per l’esotico, un’ammirazione dell’Oriente, che però si risolveva solo quasi nei vasi cinesi. Oggi è ovviamente molto diverso. Più lontano si va più è tutto molto più nuovo e quindi interessante, ma devo dire che il treno sgangherato che ho preso dall’aereoporto alla stazione di Palermo, è stato un viaggio molto eccitante, anch’esso fortemente esotico, non a caso in quella città c’è una Palazzina Cinese.
Nel mio lavoro recentemente stanno emergendo degli elementi nei confronti dei quali nutrivo in precedenza un po’ di timore: i marchi, i loghi e la pubblicità che hanno una storia fortissima in Italia. Quando a scuola giocavo a nomi, cose e città, mi piacevano soprattutto le marche: quando ero bambino dietro ogni prodotto per presentarlo si costruiva una storia, un vero teatro. Ultimamente ho letto che il brand più riconosciuto al mondo è la Ferrari, che in Italia non è più così forte, ma nel mondo sì. Abito vicino a Modena e nelle campagne passano spesso dei prototipi di auto da corsa. Se penso alla Ferrari, però, mi vengono in mente gli occhiali da mezzo cieco di Enzo o la tragica storia del cavallino rampante di Baracca, ognuno ha i suoi riferimenti… ma le auto da corsa mi hanno sempre fatto tristezza, non ho mai creduto nel motore, fin da bambino non ho mai messo piede al Motor Show di Bologna. Vado sempre alla ricerca di nomi della pubblicità, dietro cui ci sono delle storie che spesso sono molte diverse dal mondo che vuole la pubblicità stessa. Molte persone dicono che lavoro sulla memoria: è un parola pesante, che non mi piace, perché nel nostro paese ha a che fare con la guerra e con questioni ancora irrisolte. La memoria della pubblicità a volte è fatta per sostituire la memoria storica, alcuni prodotti sono nati per cambiare l’esistenza.

P.: A questo proposito mi torna in mente un libro di Aldo Nove del 2000, Amore mio infinito, in cui l’idea del marchio è molto presente. Racconta gli anni ’70 e ’80 italiani attraverso alcune marche e prodotti caratteristici del periodo, con un tipo di scrittura all’epoca nuova: sembra una sorta di Bret Easton Ellis italiano, ma non in versione yuppie.

F.: Ultimamente Guccini ha fatto due libri sulle cose perdute. Ne ho letto uno velocemente ma mi ha interessato poco: essendo di un’altra generazione, non ho nessun appiglio nei confronti di quelle cose. E’ spesso quindi una questione di generazione. Le cose sono importanti, prima, dagli anni 60 agli 80 c’era più improvvisazione, spontaneità con dei risultati sorprendenti. Voglio dire c’erano sottomarche e piccole realtà che proponevano il loro mondo, copiando dalle grandi marche. Forse mi sembra che in quegli anni fosse tutto più bello, ma non perché erano quegli anni o perché sono passati (quando i mulini erano bianchi..) ma perché ero un bambino e poi un ragazzo che doveva cibarsi di queste cose per salvarsi, questi segni erano gli unici appigli rispetto a quelli che mi proponeva la famiglia, per altri bambini forse erano solo giochi, per me erano compagni immaginari da contrapporre a quello che subivo. Erano delle realtà della psiche. Sandokan, il telefilm con Kabir Bedi, la Fanta con quella bottiglia di vetro arancio scuro con anelli, Roger et Gallet, l’acqua di Colonia di mio nonno, Le Ore e Le Ore Liete, due nomi simili, uno di un giornale porno, l’altra dei biscotti Perugina, erano immagini ambigue che si intrecciavano in un mondo sospeso pieno di speranze, una specie di attesa escatologica.
Voglio dire che da qualche parte ho la consapevolezza che certe immagini sono depositarie di tanti significati e aprono porte differenti, sono multiple e quando le trovo e le rielaboro provo una gioia immensa che però è ambigua, non è solo piacere, è anche dolore. E’ un piacere non sereno.

P.: Il rapporto con gli altri artisti della tua generazione, e anche il tuo ambiente di formazione, è stato importante. Io frequentavo Bologna in quegli anni, e ricordo che c’era un gruppo abbastanza coeso intorno alla galleria Neon e varie altre situazioni, come il centro sociale Link dove tu lavoravi.

F.: Ho sempre fatto molto per conto mio. Nell’arte si è soli. Non mi è semplice rapportarmi con le persone, anche per le cose che ho detto prima, c’è chi si interessa alla dimensione dell’architettura nell’arte e chi si sofferma su un pavimento di una casa piena di questioni.
Il clima che c’era al Link non era dei più tranquilli.
Per la prima volta vedevo opere di artisti in cui c’era tantissima normalità e soprattutto freddezza, la stessa che avvertivo quando andavo alla galleria Neon. Riuscivo a percepire soltanto l’arte che raccontava la contrapposizione ad un sistema di arte, ma forse questo era anche un mio limite. Artisti del momento molto presenti come Eva Marisaldi e Luca Vitone non mi hanno mai smosso nulla. Forse non possedevo gli strumenti, ma non riuscivo a comprendere bene cosa stesse accadendo. Scelsi il Link perché era uno spazio in cui si poteva sperimentare. Non venivo dall’arte, non avevo fatto né istituto d’arte né accademia; all’epoca non c’era ancora internet, ho dovuto creare la mia consapevolezza per conto mio in tanti anni. Non sapevo nulla del mondo dell’arte, in quattro, cinque anni ho dovuto masticare tutto molto velocemente.

P.: Come ti ha formato l’esperienza del Link? Cosa ti sei portato a casa di quegli anni?

F.: Ancora oggi ci sono delle incomprensioni. Ho sempre sentito da qualche parte che ero visto in modo differente per il fatto che ero l’unica persona che proveniva da una famiglia borghese. I gruppi avevano idee molto chiare: l’opera in sé andava superata; erano preferiti gli eventi e le performances, al massimo le installazioni. Inoltre c’era una fede veramente forte nelle nuove tecnologie che a me dicevano poco. Internet avrebbe dovuto rivoluzionare tutto… Io feci delle operazioni come quelle di allestire un bar, una stanza che si chiamava Sala di attesa: un ambiente tutto in vetro molto freddo. Usai lo stesso titolo anche quando feci la stanza per i funerali (al Pantheon alla Certosa di Bologna).
C’era diffcoltà a fare mostre di opere.
Ancora prima del Link seguivo la Socìetas Raffaello Sanzio, poi tanti gruppi… Fanny, Kinkaleri, Teatrino Clandestino, Terza Decade… poi il teatro mi ha stancato. Il grande problema di queste esperienze è che senza fondi pubblici facevano fatica ad andare avanti. Al Link di arte visiva se ne è sempre fatta molto poca, perché c’era la questione dell’opera che andava tenuta a distanza. Comunque non era un centro sociale come altri, era molto più soft ed aperto.

P.: Il tuo lavoro non si è mai occupato della dimensione sociale o politica. Anche il tuo approccio alla storia è mediato da un rapporto personale con le cose (penso al discorso su Ustica, a quel piccolo ma significativo lavoro sulla stella delle BR). Da poco sei reduce da una residenza in Turchia, un paese che conosce una situazione politica e storica eccezionale. Quali spunti ti ha offerto la permanenza in questo paese? Ti ha suscitato emozioni trovarti là in questo momento storico?

F.: Sì, è tutto molto complicato e delicato. Ma forse mi sento molto occidentale e quindi volutamente impreparato. Credo ci siano delle barriere insuperabili. Voglio dire che la concenzione dell’individuo e le sue questioni fondanti, in Turchia e in altri paesi a maggioranza Islamica, diciamo che sono in minoranza rispetto alla gerarchia e alla totalità. Detto questo paesi del genere per me non hanno nessuna questione interessante, se non estetica e quindi esotica. Un po’ come a Palermo: un luogo bellissimo, con grandi contraddizioni e immagini abbaglianti, strane, particolari, desuete, dove la bellezza stordente è un grandissimo piacere, ma non può essere che un luogo esotico. Nessuno andrebbe a vivere a Palermo o Istanbul semplicemente perché non sono luoghi liberi e i luoghi non liberi, anche se belli, possono essere solo solo esotici. Ricordi Cristiana il primo maggio a Istanbul? Forse quarantamila poliziotti con le facce stanche, ragazzi giovani con la divisa appiccicata, uno ogni 10 metri in tutte le strade del centro. Una città occupata.
Molti giovani che ho incontrato vogliono lasciare il paese (almeno tutti i giovani legati al mondo dell’arte) e stiamo parlando di un paese con un economia in grande crescita.

P.: Tuttavia la stessa ascesa al potere di Erdoğan ha segnato in qualche modo una rivoluzione, perché prima di lui l’idea di un Islam moderato al potere era impensabile: l’esercito era il guardiano della laicità, e dopo tre colpi di stato il margine era molto ristretto. Anche se adesso sembra orribile dirlo, in ogni caso Erdoğan ha dato voce a una parte enorme del paese che era stata completamente privata della possibilità di avere un peso, una parte anche molto produttiva.

F.: Sì certo sono cose vere, ma come dicevo tremendamente lontane e difficili da capire. L’impressione è che questa enorme parte del paese abbia solo due desideri: un matrimonio ricco e ben addobbato e la fine del Ramadam con un lauto banchetto, non vorrei essere superficile, ma purtroppo non sono la persona giusta: ho la repulsione per le abitudini della famiglia Italiana (che oramai non esiste più), figuriamoci per quella Turca. Basta vedere la faccia del Premier e come si veste, è una faccia vecchia che assomiglia alla maggioranza degli uomini turchi. Anche noi abbiamo categorie forti, ma ci sono più visioni, più aree neutre, più zone franche. Loro, poi, islamizzandosi, sono nel 1435, non nel 2014 e qualche cosa vorrà pure dire.
Una delle cose più belle che ho visto nell’ultima settimana è a Como; c’è un’insegna luminosa in plastica che recita “Bevete Coca-Cola”. È veramente vecchia, sembra una cosa decrepita. Sarà un caso, una cosa banale e superficiale… Alla mostra di Istanbul ho esposto una bottiglia della Coca-Cola decorata con l’Occhio di Allah che è onnipresente, ma è più pagano che Islamico. Una delle prime cose che ho fatto è andare nei supermercati, per vedere se ci sono anche altre Coca-Cole turche. La Coca-Cola è una delle presenze più solide nel paese da cinquant’anni: non c’è più il califfato ma c’è la Coca-Cola. Gli oggetti sono talmente legati alla società e alla politica da poter produrre spostamenti. Ultimamente, commentando la presenza di una stella in una mia opera, qualcuno l’ha letta in chiave politica: certo è la stella politica, ma è anche la stella rossa della San Pellegrino. E’ tutto insieme, e va preso tutto insieme, come un’esistenza, che è fatta di prodotti, di cose banali, di aspirazioni e di ideali.

P.: Poi c’è forse anche l’esigenza di sapersi destreggiare in una lettura dei segni contemporanea. Per esempio l’immagine da cui hai tratto il titolo della mostra, Grape Juice, è oggetto di una lettura molto complessa. Si tratta dell’etichetta di una bibita di produzione industriale – della Coca-Cola Company tra l’altro – dietro la quale tu vedi una serie di contraddizioni legate alla religione, all’idea dell’Islam, al marketing, a tanti altri discorsi. Ho l’impressione che il tuo lavoro si orienti sempre di più verso una lettura dei segni, quasi – per tornare all’ambiente bolognese – una certa attitudine alla semantica.

F.: Molti ultimamente hanno accostato il mio lavoro all’arte pop, per la sua attenzione nei confronti della pubblicità del marchio, tutti elementi apparentemente leggeri. Ma la questione è molto complessa, come anche la parola pop. In realtà ho compreso che dentro di me ci sono due mondi, legati alle figure di mia madre e mio padre. Il primo è connesso al concetto di arte come l’ho vista a casa dei miei nonni e di mia madre: il bello è solo quello del passato, il classico e quindi l’arte è solo quella del passato. Il secondo è quello di mio padre: è quello della la pubblicità, della società nuova.
Mio padre era un poeta, un uomo con la U maiuscuola, come diceva lui, un Uomo Nuovo che voleva bere Top ogni giorno. Il Top era uno spumantino della Gancia in una bottiglia piccola da 20 cl. E’ chiaro che c’era un mondo che apriva lo spumante solo la domenica o nelle feste comnadate, Top invece era per tutti i giorni! La pubblicità della Gancia recitava nei primi anni Settanta:
Arriva Top che contesta il vecchio brindisi.
Tutto ciò credo sia devastante, e ha innestato dei meccanismi diabolici.
Se tutto il giorno può essere festa, si perdono le regole e si fa fatica a comandare… Ecco perché oggi abbiamo una società liquida, è stata colpa del Top Gancia. Sono sempre stato sedotto da entrambe le visioni. Questi due mondi che si scontrano li ho vissuti attraverso la famiglia, li ho vissuti prima e capiti poi. Non sapevo mai da che parte stare, i miei genitori erano sempre in conflitto. Ancora oggi, dopo tantissimo tempo, questo scontro non è risolto. E’ tutto sempre amaro e dolce insieme…

P.: Possiamo dire che nel corso del tempo il mondo di tuo padre ha trovato sempre maggiore spazio nel tuo lavoro? L’entusiasmo per il nuovo, quindi le marche, la cultura pop, la televisione, adesso sono sempre più evidenti: l’ingresso della parola e del logo, di un immaginario legato al mondo delle merci che all’inizio non c’era.

F.: Sì, certo, è sempre più evidente. Però si tratta di cose che si compenetrano in modo differente. Ad esempio, molto banalmente, le cose che facevo prima sono molto più complesse da realizzare, mentre le ultime sono tecnicamente più semplici, ma credo più forti, più potenti. Anche se il mondo di mio padre ha potere perché in contrasto con quello di mia madre. E’ la storia di questo paese, direi unica, con estremizzazioni folli…. perché nel nostro sud, una delle parti più belle al mondo, si è prodotto uno scempio inimmaginabile? E’ questo contrasto che è fortissimo. Abbiamo conservato rigide regole nel cibo che rimane una grande tradizione (i dolci di Messina non si trovano a Catania che sta a 90 chilometri) e hanno sbragato ville liberty per fare posto a palazzi di sabbia e cemento.

P.: Da questo punto di vista la Turchia ha operato un passaggio traumatico nella modernità, facendo tabula rasa di tutto, anche dell’abbigliamento. Tra le varie riforme c’è stata infatti anche quella che vietava l’uso del fez e del pantalone alla turca, e obbligava all’abbigliamento occidentale.
Il lavoro centrale della mostra è un grande container che mette in moto nel visitatore un’esperienza di tipo spaziale: girandogli intorno si ha la percezione di un grosso volume, ma guardando le foto dall’alto ci si rende conto che si tratta in realtà di un grosso contenitore, un grande vuoto al centro. L’idea di una cosa chiusa, allo stesso tempo capiente e vuota, torna in molti tuoi lavori. Ti interessava l’idea di riempire questo vuoto? Era un container o no? Me lo sono chiesta vedendo quella foto.

F.: No, a me piacevano semplicemente questi pannelli arancioni. Probabilmente se non ci fosse stata la terrazza da cui fare le foto non si sarebbe capito.

P.: Quest’idea di un elemento centrale e chiuso mi aveva rimandato al tuo lavoro sul mausoleo di Teodorico. Era interessante il fatto che Teodorico fosse stato educato a Istanbul – cioè a Bisanzio – per dieci anni; quando poi torna a Ravenna lo fa con un bagaglio, per lui barbaro, di cultura classica. Significativo è anche il passaggio della cultura classica attraverso l’Oriente, la cultura romana vissuta a Istanbul da un barbaro.

F.: Ravenna è sempre stata un crocevia folle di culture. Hai colto perfettamente il punto. Il mausoleo mi aveva colpito da bambino, lo vidi con mia madre, avrò avuto 8 anni.
Era strano perché era da solo, in mezzo all’erba. Sinistro, spettrale, anche triste, non aveva nulla dei colori e dell’oro dei mosaici. Alla fine ricordo sempre di più le cose tristi.

P.: L’idea di una sorta di monolite, che fa quasi venire in mente la Mecca – un volume centrale chiuso a cui girare intorno – fa pensare a un tipo di cultura molto distante dalla nostra. Quando invece si entra in mostra si viene accolti da un’immagine stereotipa dell’Oriente e della Istanbul storica, con il profilo delle moschee e di Santa Sofia. In generale penso sempre ai tuoi spazi come spazi chiusi, dove l’esterno entra poco, anche se sono abitabili. Penso a tue istallazioni relativamente recenti come quella alla galleria Sales, in cui ci sono spazi che non lasciano nessun contatto con l’esterno, oppure, al contrario, che tu non penetri, come questo di Istanbul, o quello dedicato al mausoleo di Teodorico. L’idea della permeabilità esterno-interno data dalle aperture viene nel tuo lavoro solitamente negata. Mi interessava poter ragionare con te su questi temi, e su figure come quelle della finestra e della tenda.

F.: Alla conferenza di presentazione del progetto di residenza ho tracciato una differenza tra gli studenti universitari e me, ovvero chi ha le tende in casa e chi no. Prima una casa senza tende era impensabile: mia nonna, ma nemmeno mia madre, avrebbero mai pensato a una casa senza tende, adesso invece…
Per un certo periodo mi hanno chiesto di fare progetti per bar e ambienti con un possibile uso, ma a me non è mai interessato l’uso, è solo una coincidenza.
Questa cosa dell’uso piace alla critica perché forse apre a più implicazioni, ma non è corretta rispetto alla mia idea.
Per anni ho abitato in un piano terra molto buio, ma anche dove vivo ora in campagna ho l’abitudine di non aprire gli scuri. E poi ci sono le tende, all’interno è una casa di città, più che di campagna.

P.: Inoltre c’è una distinzione tra i paesi del Sud e del Nord Europa, secondo la quale i primi hanno sempre avuto le tende, i secondi no. Non si tratta soltanto di una questione di luce, ma piuttosto di cultura. Ad esempio in Olanda non avere le tende è sintomatico di non avere niente da nascondere, una moralità trasparente e manifesta, che è un aspetto molto lontano dal nostro sentire.
A questo tema è collegata anche l’immagine della cartolina, che tu hai usato spesso (nel lavoro su Teodorico, in quello sulla palazzina cinese a Palermo): l’idea dell’esterno che arriva nel tuo lavoro soltanto come messaggero di parole. Nel caso di questa mostra però la cartolina è ingrandita: è un’operazione che avevi fatto altre volte?

F.: Sì, in occasione di una mostra all’American Accademy avevo fatto un collage e ingrandito una cartolina in bianco e nero di piazza San Pietro, e al MACRO avevo esposto una ingrandimento di una catolina spedita da Ravenna con l’Imperatrice Teodora.

P.: In questo caso però si tratta forse della prima volta in cui la cartolina diventa quasi una visione – una veduta più che una visione – tornando ad avere quasi un rapporto di scala, simile a quello che si ha con il paesaggio quando lo si guarda dall’esterno. Mi sembrava in qualche modo il segno di uno spostamento.

F.: Sì, forse nei due casi citati l’immagine è sempre una cartolina ingrandita, qui invece è un panorama, come un fotogramma di cinema fermo, una grande veduta di un tramonto, forse è la sola immagine di noi occidentali che vogliamo vedere di Istanbul, una città affascinante che fa rima con le Mille e una Notte, forse una delle poche cose, anche se è un clichè, che ci piace di quel mondo lontano.
Le cartoline, i francobolli, sono sempre stati molto importanti, perché per tanti anni hanno rappresentato il tramite di comunicazione con mio padre. Non ci si telefonava, perché lui non poteva, e quindi gli mandavo delle cartoline. Dovunque si andava c’era l’obbligo di mandarle (ai nonni…) come forma di saluto e di ricordo, nel senso che anche se si andava fuori e lontano, bisognava forse dimostrare che il legame era forte.

P.: Prima accennavi al fatto che i tuoi lavori recenti sono più facili da realizzare. Quanto conta per te l’aspetto artigianale? Tu fai da solo gran parte del tuo lavoro. Immagino però che la tua formazione non abbia previsto nessun insegnamento a proposito della dissezione dei mobili, del taglio del vetro…

F.: Il Link è stato in questo una grande palestra, poi ho acquistato delle macchine, ho imparato a tagliare il vetro con cui faccio gli specchi. Insomma mi sono inventato un po’ tutto. Ho preso uno studio in cui sono praticamente autonomo e quindi riesco a risolvere molti problemi, non sopporteri ricorrre ad un artigiano tutte le volte.

P.: Che importanza ha per te il fatto che sei tu a fare tutte queste cose?

F.: Ha importanza perché così posso passare un’intera giornata, dalla mattina alla sera, in cui lavoro autonomamente.

E’ una liberazione il mio lavoro, perché ripenso alle cose della mia psiche, penso sempre a me e questo è una grande cosa.
Parto spesso da forme già preesistenti, perché non m’interessa creare delle forme nuove. Detesto le forme nuove, come detesto le forme organiche, che amano molti artisti, ma non c’è più nulla di artificiale e lontano dalla natura dell’arte contemporanea…
Ecco, un altro grande tema è che non creo mai forme nuove ma prendo sempre qualcosa di già fatto che appartiene ad un periodo. Una delle cose preziose che possiedo ancora è la bellezza di lavorare da solo in studio. Questo aspetto del lavoro è molto importante, come pure la prova della visione dell’opera: posiziono sempre le mie composizioni – sia i collage che le composizioni tridimensionali – davanti a un muro bianco, poi mi allontano e cerco di guardarle. Il mio desiderio è quello di trasferire un’immagine psicologica a chi guarda l’opera. Credo che questa psicologia in qualche modo passi, però a volte non accade perché è ovviamente del tutto personale. Ho degli investimenti psicologici su alcuni oggetti o su opere che altri evidentemente non hanno. Tuttavia cerco sempre un equilibrio formale, anche se qui siamo nel campo dell’indicibile: non si può spiegare quando per me una cosa è in equilibrio. Il decoro della vecchia scatola di Twinings mi trasmette equilibrio formale perché è tanto semplice (una scatola di tè) quanto complesso perché è investito dalle immagini di mia madre. E poi il tè inglese Prince of Wales o China Black seduce, c’è l’esotico e ricordi delle colonie, che è un ricordo molto potente.

P.: Una volta hai affermato che molte delle tue opere erano costituite di elementi come lampadari o pavimenti perché erano le cose che guardavi maggiormente, quelle che ti permettevano di distrarti da quello che c’era intorno, cioè fondamentalmente le persone, le storie…

F.: Sì, mi sono accorto di questo. Quando mi hanno chiesto se il pavimento o i lampadari avesse a che fare con l’architettura, col design… ho capito che non potevo dire le solite cose di circostanza. Di tutte le case dove ho vissuto, ricordo i lampadari e i pavimenti in modo deciso, mi incantavo o mi distraevo o semplicimente non guardavo ad altezza persona, era spesso tutto troppo pesante.

P.: Pensando alle similitudini fra il lavoro di Teodorico e quello di Istanbul, vi è anche l’uso di materiali da costruzione.

F.: Sì, nel primo assi gialle usate da cantiere per casseforme, nel secondo pannelli di ferro arancioni per ponteggi. Mi piacciono i materiali industriali usati, mi danno un senso di distanza dalla natura, con quei colori così intensi, quelle forme geometriche pulite quadrate e rettangolari, mi danno anche un senso di solidità psicologica.
Alla fine credo che la civiltà che abbiamo tirato su, con tutti i suoi punti orribili e deboli, nonostante tutto, sia una cosa niente male. Che dovevamo fare? Farci mangiare dai leoni per preservarli? Non inventare i vaccini per rispettare i virus? E’ una battaglia sanguinosa, ma negli interstizi ci sono momenti di grande intensità e libertà.
Nella ex scuola greca quando ho assemblato il container di ferro dipinto di arancione, ma che lasciava intravvedere una precendente vernice blu, sul pavimento in graniglia a stelle, ho visto una continuità fra domestico e industriale, due mondi che mi sono vicini, il primo per esperienza, il secondo per idea, molte volte ho messo degli oggetti di industria pesante in casa.
Ho sempre pensato all’arte come estremo artificio, come mezzo per evadere le leggi senza scampo della natura. Noi siamo post Cristiani, è stato il Cristianesimo a dare continuità all’Ebraismo che nella Bibbia da qualche parte dice: …siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare…

Dopo Cristo quindi c’è Andy Warhol e forse io.


* Conversazione pubblicata nel libro di AA.VV., Grape Juice, Maretti Editore, 2014

Grape Juice

Matteo Bergamini – L’anno scorso, a Milano, in una piccola mostra curata da Roberto Ago durante il Salone del Mobile, era esposta una “Fanta-Cola”, un tuo oggetto creato proprio unendo due bottigliette da 33 cl. di Fanta e Coca Cola. I riferimenti, se non erro, erano anche al Piano Marshall e all’idea che questa vecchia politica altro non fu che un metodo per rendere le economie europee funzionali a quelle statunitensi. Ed ecco che l’italiana San Pellegrino generava un prodotto che potesse essere al pari della “bevanda segreta” americana. Lotta impari.
Andy Warhol parlava della Coca Cola come bevanda democratica, perché la beve il Presidente e l’homeless, e il gusto è il medesimo.
Tu che rapporto hai con la Coca? A Istanbul tutta la tua mostra è stata generata dall’etichetta di una lattina di succo d’uva prodotto negli Usa dalla 
Coca Cola Company, e anche alla fine della mostra ci sarà un “reperto” molto particolare…

Flavio Favelli – Mi ricordo che ero in una corsia di un Cash & Carry insieme ad altri, facevamo una grande spesa per il bar del Link, era la fine degli anni 90 a Bologna, compravamo qualche decina di cassa alla volta di birra e bibite, arrivati alla Coca il responsabile bar disse: boicottiamola e così prendemmo la Pepsi. Più avanti c’è Pepsi si rivelò profetico. La Coca Cola rimane più o meno se stessa, è sempre quella, e questo è importante, amavo il vecchio logo della Pepsi, ma quando ha cambiato mi ha deluso. Sono abitudinario e troppi cambiamenti mi infastidiscono. Voglio dirti però che i riferimenti della Fanta-Cola sono semplicemente estetici, come in tutte le mie opere non cerco mai significati a sfondo sociale, politico. Quindi tagliare due bottiglie  (quella della Fanta di quegli anni, arancione bruno con anelli di vetro a rilievo e scritta in smalto penso che sia uno degli oggetti più straordinari che abbia mai incontrato in vita mia) e metterle insieme, è forse un tentativo di appropriarsi di un tempo passato, mettere le mani nelle viscere delle bottiglie e degli oggetti e soprattutto di quello che rappresentano, è un momento per me importante, intenso, perché certi oggetti – più di altri – rappresentano il tempo che ho vissuto e questo vuole dire parlare con le loro anime, ma non è magia, è che le anime degli oggetti siamo noi ancora più veri. Io vivo con la bottiglia di vetro della Coca e della Fanta e queste saranno sempre con me. Aggiungo che amo le bottiglie, ma non vado matto per il contenuto, avrò bevuto fino ad ora sì e no 40 litri di Coca, 50 di Fanta e una ventina di Pepsi.

Matteo Bergamini – Per questa mostra hai prodotto quattro pannelli dipinti a smalto che raffigurano simboli classici del Paese e particolari di banconote turche degli anni ’70. Immagino sia in riferimento alla società e al suo cambiamento “originario”, che ha portato Istanbul ad essere una delle metropoli più mutevoli di questi anni ’10, snaturandola e, per quanto possibile, omologandola.

Flavio Favelli – Come ti dicevo cerco immagini a cui mi dedico perché evocano altre immagini, ricordi, storie e soprattutto passioni. Mi piacciono i contrasti perché sono ambigui e mettono in crisi le certezze. Le banconote sono una delle prime cose che fa un paese e sui simboli ci si gioca molto. Mi piace vedere il Padre dei Turchi Ataturk vicino ai decori di tulipani e garofani che sono disegni di un lontano passato o insieme a Maometto II nello stesso foglio da 1.000 lire turche. Quanti significati, quanti segni insieme e contraddizioni, confusioni… gli stati, le società sono dei gran calderoni e tutto fa brodo.
Ho disegnato un grande tulipano, nero, su una grande lamiera arancione. A noi che stiamo di qua, verrebbe in mente l’Olanda, la prima volta che vidi la sua maglia arancione fu nella TV a colori dei bar a Riccione era la finale con l’Argentina del 78, era con mia nonno che amava la Lowembrau con leone rampante, allora Riccione era una colonia tedesca. 

Matteo Bergamini – Ancora, negli anni ’70, dove ora è sorto il Museo dell’Innocenza di Pamuk, viveva la famiglia Keskin, che ha raccolto tutto quello che potesse rappresentare una “memoria” di loro interesse, un po’ come avveniva – nella letteratura e nel cinema – ad un altro giovane protagonista (originario dell’Ucraina, di casa negli Stati Uniti): Jonathan Safran Foer, di “Ogni Cosa è illuminata”.
Hai raccolto, insieme all’architetto Özelmas del Museo dell’Innocenza, per un altro progetto di questa residenza, una serie di pannelli di ferro riciclati per creare un container al Galata. Cosa vuoi metterci dentro? Tutte le memorie che in questi anni hai riportato alla luce?

Flavio Favelli – La lamiera arancione è proprio del “container” che ho costruito. Ho trovato dei bellissimi pannelli di lamiera in una delle discariche dove mi ha portato Murat.
Molti raccoglitori di ferro stanno in Asia e per andarci ci vuole tantissimo tempo, il traffico qui è un incubo. Sono soddisfatto di quest’opera, The Black Tulip, di un arancio un po’ arrugginito su cui affiora un vecchio intenso blu. Mi soddisfa perché mi dà un intenso piacere psichico e questo credo che sia per me necessario. In questo caso mi soffermo sulla forma esterna del cassone, non ho pensato all’interno. E’ un raro equilibrio, tanto semplice, quanto complesso, credo, di un’opera riuscita. In questo caso il mondo si divide in due. Chi, come nel caso del custode turco che assisteva al montaggio, rimane sorpreso dal fatto che si possa perdere energie e tempo a costruire un grande parallelepipedo di lamiere vecchi, arrugginite e quindi brutte e chi percepisce una tensione fra gli stimoli visivi e di significato che vede. 

Matteo Bergamini – Sarebbe azzardato definirti un “archeologo con licenza poetica”?

Flavio Favelli – Non mi piace tanto la parola Archeologia perchè comunemente si riferisce ad un Passato con la P maiuscola, le Grandi Civiltà, l’Arte….
Io amo il mio tempo e soprattutto il tempo della mia infanzia e adolescenza perché da artista, penso che sia unico e irripetibile. Trasformo gli oggetti di quel tempo e diventano arte. Poi, non so se per caso, è stato un tempo di un’intensità straordinaria per il nostro paese e non solo. E poi gli archeologi vestono sempre colori chiari, sabbia, cachi, che iniseme ai colori spallettiani, detesto. Penso che l’Archeologia nel nostro paese abbia fatto grandi danni, per intenderci io avrei lasciato nel mare i Bronzi di Riace, ma questa è una storia complessa e lunga, magari ne parleremo con calma un’altra volta.
Diciamo che voglio rivivere per sempre la storia che ho vissuto.

Matteo Bergamini – Chiudo con le “cartoline”: hai messo all’ingresso una veduta dello skyline di Istanbul all’alba o al tramonto, immagine classica e stereotipata del “sapore e mistero d’Oriente”. C’è qualcosa che mi ricorda i frame della New York deserta nell’alba di Vanilla Sky, quasi come se ogni città fosse solo una cristallizzazione del sogno che è chiamata ad evocare. Che rapporto hai con le metropoli e cosa hai scoperto di questa “tua” Istanbul?

Flavio Favelli – Questa cartolina che ho ingrandito è la sagoma delle classiche moschee al tramonto, quasi fossero di cartone. E’ un’immagine struggente, mielosa, romantica, ma di grande fascino. Il Corno d’Oro e la luce fanno il resto. Non ho conosciuto bene Istanbul, come non si può conoscere una città in un mese. Ma chi conosce una città? Chi ci abita? Spesso ci riferiamo alle note dei viaggiatori per comprendere un luogo, a gente di passaggio, non ai suoi abitanti. Io ho abitato per più di trent’anni a Bologna, ma conosco solo quello che ho vissuto, ho conosciuto via Guerrazzi angolo San Petronio Vecchio e solo quello che ho voluto incontrare. Forse è importante tradurre lo spirito di un luogo e questo può avvenire anche dopo poco tempo. Sandokan è tanto vero quanto immaginario. Ieri la Turchia ha proclamato 3 giorni di lutto per i morti delle miniere. Ci sono stati scontri in città e gli elicotteri insistevano nel cielo e mi sono sentito fortemente estraneo anche se ero nella parte europea di Istanbul.

* intervista di Matteo Bergamini pubblicata su Exibart il 19 maggio 2014

Quando in volo siamo dei

Conversazione con Flavio Favelli
di Michele Dantini

| MD: Questa nostra conversazione inizia in modo casuale e insieme inevitabile, proprio da questa rubrica. Quasi come una reminiscenza. Tutto ruota attorno alla figura dell’anello. Appare in alcuni piccoli ready-mades di Piero Manzoni, e ne ho scritto su doppiozero qui. All’imbatterti in questo mio articolo tu stesso mi scrivi di avere un rapporto potente con l’anello, tanto da inserirlo in alcune sculture o fotografarlo nel Museo della memoria di Ustica, nei pressi dell’aereo abbattuto. E che la coincidenza ti sorprende…

FF: L‘anello ha a che fare con il corpo, con i tessuti della pelle, come quando è al naso del toro. E’ legato ai sensi, alla precisa sensazione che da qualche parte qualcosa sia legato per così dire nella carne. Forse è una sorta di lapsus, per quanto mi riguarda. L’anello ricorda che da qualche parte queste sculture hanno un legame remoto con il corpo, legame che non voglio tuttavia manifestare in modo aperto.

MD: Curioso: coltivi il segreto e al tempo stesso desideri misurarti con la Grande Storia, il Trauma Pubblico, l’evento condiviso. Ti consideri più un “pittore di storia” o un ermetico?

FF: E’ strana la vicinanza di questi anelli che ho trovato al relitto del DC9; sono sulle colonne del vecchio edificio industriale che ospita l’aereo dell’Itavia. Tante cose mi legano a quel tragico avvenimento, a quel tempo, a quella linea aerea, è una storia che ho vissuto, è un vincolo dolce e amaro allo stesso tempo. E’ un po’ come il piercing, quando lo si maneggia ci sono vari gradi di piacere inscindibili dal dolore.
Preciso che questo piacere, visto che la vicenda dell’Itavia è un avvenimento grave e doloroso, è riferito all’aspetto “formale” dell’evento, al suo aspetto simbolico e al suo significato che spontaneamente gli ho dato, visto i suoi molteplici appigli visivi e psicologici, forse ho trasformato l’aereo in una sorta di Gradiva, una pietra magica, che riflette i mie desideri, le mie paure e i mie sogni. E’ un totem, un capro espiatorio immolato nel conflitto fra due mondi, quello Occidentale e del Patto di Varsavia o se si vuole fra due visioni differenti…
La mia immaginazione si è legata a queste immagini forti ed evocative: l’aereo, il logo ITAVIA così moderno e nuovo, la tragedia, il mare, gli abissi, il mondo militare, il mondo politico e la folle storia di questa carcassa che è essa stessa un’opera d’arte, come i Bronzi di Riace, tirata su dai fondali, ricomposta in un hangar militare, rismontata e rimontata e restaurata in un museo… Ho incontrato questa tragedia, in diretta, sul giornale prima e sul TG1 poi, e ho instaurato un rapporto direi di natura amorosa, perché questo aereo è una cosa che ho investito di un grande potere. Forse le linee aeree così artificiali e moderne, coi loro inutili ma squisiti gadgets, coi loro nomi così nuovi, sono la quintessenza dell’umano che vuole sfidare questa dannata Natura con le sue leggi ingiuste ed inesorabili. La safety card delle linee aeree è un cartoncino con informazioni sulla sicurezza in caso di pericolo, un pericolo mai veramente reale perché nessuno prenderà mai in considerazione la possibilità che l’aereo possa cadere quando è in volo. Posseggo una safety card con in copertina un aereo della Pan Am e sullo sfondo un affascinante tramonto con una scritta “Just in case…”. Non è un raffinatissimo sbeffeggiamento della Natura? Quando siamo in volo, fra un drink e una salvietta profumata, siamo dei nuovi uomini che se ne sbattono delle leggi di natura e del mondo, siamo dei. Sembra una carcassa di aereo ripescato dal mare, ma in fondo non lo è. 

MD: Per Manzoni l’anello equivale a un punto interrogativo dada-metafisico: pone domande, si chiede chi o che cosa verrà ad abitare l’opera, va in cerca di fantasmi che possano ormeggiare. E’ una sorta di concezione figurativa di un dubbio professionale. In te suppongo che l’anello abbia implicazioni meno tecniche, e invece più personali. Sbaglio?

FF: Beh, questa cosa che dei fantasmi possano ormeggiare mi sembra molto bella e profonda. Sì, spesso, per usare un termine che hai posto nella prima domanda, ho delle reminiscenze che amo sviluppare ed estendere in nuova forma. L’anello è un appiglio per stare a galla, per cercare di fissare, trattenere qualcosa, una specie di cippo, come forse tutte le mie opere che servono da appiglio, da ponte, per legare il mio prima ed il mio ora e in mezzo ci sta tutto quello che ho creato. Appiglio per rimanere lontano dagli abissi dell’oblio.
A un certo punto della mia vita si sono presentati questi ricordi così forti, ma anche ingombranti e dolorosi del mio passato che ho dovuto ricomporre e reinterpretare. Ho (è il caso di dirlo) inanellato immagini su immagini per ricostruire un mondo certo passato, ma per me eterno. Questo mondo che richiamo in vita è ambivalente: mi dà dolore e piacere allo stesso tempo. Come quando da bambini i denti da latte “scossavano”: usciva sangue, ma era un dolore dolce, un dolore che annunciava una nuova fase, un sangue buono.

MD: In un tuo breve testo descrivi l’anello come qualcosa che accenna a una “schiavitù”: proprio la sua oscura capacità di attrazione e asservimento, riconosci, ti “rassicura e [mi] dà stabilità”. Cosa temi che ti sfugga? Qual è la perdita di cui desideri scongiurare il dolore.

FF: Ho paura che mi sfuggano le immagini che ho riconquistato. Ho sempre una penna con me per scrivere certe visioni che “tornano su” come dei rigurgiti che per puro caso affiorano, come si tiene anche una penna sul comodino per i sogni. Alcune volte succede che certe immagini germinino dal nulla e sono sempre immagini del passato, conosciute, vissute… strano, anni va ho partecipato alla mostra “La Storia che non ho vissuto”al Castello di Rivoli, ma ero l’unico artista che aveva ricordi chiari del periodo a cui facevano riferimento le opere.
Credo anche che le cose da dove parto, che quasi sempre sono oggetti preesistenti, possano esaurirsi e per questo ne acquisto in quantità. Il rapporto con queste forme del passato non è da confondere con un semplice gusto per l’antiquariato o una scelta vintage, come spesso avviene. Il rapporto con certi oggetti che ritrovo, ricerco, smonto e ricompongo mi dona un piacere immenso e mi rassicura. E’ un rapporto di natura amoroso, psicologica che ha precisi riferimenti, legami, significati. E’ come ritornare nella propria camera quando si è via da tanto tempo, solo che questa camera credo che non sia solo la mia, ma una finestra su un luogo e su un tempo che per me appartiene al mito, non trovo altri termini. Un luogo e un tempo dove mio padre era un poeta, un Uomo con la U maiuscuola, come diceva lui, un Uomo Nuovo che voleva bere Top ogni giorno. Top era il nuovo spumante in piccole bottiglie, diciamo da uso quotidiano. La pubblicità della Gancia recitava: “Arriva Top che contesta il vecchio brindisi”.

MD: Perché credi che questo luogo e questo tempo della tua esistenza, l’infanzia e i primi anni Settanta, appartenga al mito? Sarei anche felice che tu potessi descrivere meglio il tuo rapporto con tuo padre, che appare conflittuale.

FF: Perché vedo che continuamente sono i miei riferimenti visivi e immaginari, percepisco e sento delle vere tensioni, comunico con gli oggetti legati a quel tempo sospeso; tutta la mia arte è legata a questo dialogo con queste immagini, ho ancora bisogno di relazionarmi a loro, di passare del tempo con loro; penso sia ancora un conto aperto con questo periodo che arriva fino alla fine degli anni 90, anzi come ho scritto una volta forse la fine di questa tempo dorato è il 1993, su tutti i cartelloni per la strada c’era la pubblicità della Fiat: “La risposta. Punto.” Per la prima volta i fari posteriori dell’auto sono messi in alto, verticali, tutto è cambiato da lì, l’anno prima c’era stata Capaci, con le Croma sbragate, le ultime ammiraglie. Mi hanno sempre infastidito quei fanali alti, capii che stava iniziando a finire tutto.
Per la verità il conflitto è stato con la famiglia, prima fra i mie genitori ed io in mezzo; fra mia madre, moderatamente aperta, convinta che la Cultura e l’Arte (del passato) potesse salvare il mondo, mio padre, che si sentiva poeta, un misto fra un soggetto Marinettiano e un playboy di Montecatini, ma con gravi disturbi mentali (ad oggi, da una decina di anni sono il suo tutore perché è interdetto) e i miei nonni materni travolti da questa situazione grave.
Dopo tanti anni, ho potuto leggere meglio le due figure maschili della mia vita. E’ stato un conflitto crudele, mio nonno materno, ex ufficiale tornato dalla Campagna di Russia, anticomunista, amante dell’ordine, filatelico, numismatico, elegante e sobrio sempre con l’impermeabile Burberry, quando Burberry voleva dire stile che solo l’Impero Britannico –la perfida Albione- poteva dare, ha annientato mio padre, un uomo fragile e realmente schizofrenico (è il termine usato dalla perizia psichiatrica) che si sentiva poeta e voleva vivere appieno il “logorìo della vita moderna”.
Ma ho l’impressione che non riuscirò mai ad avere una comprensione obiettiva della faccenda; è stato tutto così pesante, ingombrante, a volte quasi irreale… Mio padre oggi mi parla ancora di mia madre come se fossimo nel 74, a volte mi chiede “che si dice in giro?” e so che si riferisce ai circoli, agli ambienti letterari, alla poesia, come se fossi ancora un bambino a Firenze.
Mio padre ha sempre vissuto come speciale il suo tempo e tutti i suoi momenti: quando si è artisti si vive sempre con un faro acceso addosso, un occhio di un dio dietro le spalle, lo sguardo del mondo che ti segue sempre, una platea seduta e composta sempre attenta.

MD: Ho un rapporto ambivalente con la tua opera, considerata nell’insieme. Ne apprezzo la potenza, al tempo stesso resisto alla sua chiusura interna. In un celebre libro lo storico delle idee Isaiah Berlin contrappone la volpe e il riccio per illustrare due diversi temperamenti o caratteri umani. La volpe esemplifica il temperamento curioso e esplorativo. Il riccio il temperamento tragico. La volpe, per Berlin, è in parte un emblema dell’intelligenza illuministica, mobile, acuta, mercuriale. Il riccio invece dell’individualità romantica, risolutamente posta a protezione di sé stessa e della propria unicità. Ti annovererei tra i ricci: senza indugio. Quali rapporti, a tuo parere, l’arte intrattiene con l’arcano, il lutto e la memoria? Tu corteggi la dimensione mistico-esoterica, quasi devozionale. Credi che l’arte possa giocare ancora la carta della profondità?

FF: Chiamerei anch’io devozione la cura che ho per i luoghi e per gli oggetti che continuamente ripropongo. Credo molto nell’opera che traduco a volte con ambienti e altre volte con cose. Ritengo di presagire qualcosa prima, già in un’oggetto stesso, perché questo si “carica” ai miei occhi di immagini e pensieri volontari e involontari. Si carica come per effetto di una reazione chimica. Tento allora di assecondare questa impulso, continuare questa catena, anello dopo anello… Accosto, metto insieme, congiungo, attacco e ricompongo. L’arte ha un grande potere. Intendi la “profondità” che può portare a cose più complesse e vitali o perfino agli inferi? Senza passare per gli inferi non si va da nessuna parte. La dimensione mistica-esotericia cui alludi è pagana: sono l’adepto di una religione con molti dei, dove le cose parlano e lo spettacolo della seduzione prevede scene grandiose. Alla fine tutte le immagini profonde e complesse seducono, non so se l’arte sia cattiva imitazione, per anni ne sono stato convinto, ora forse sono più morbido, credo che abbia una sua autonomia, non mi sento mancante di qualcosa quando sono fra le mie immagini. Diffido invece di ciò che chiami “l’arcano”: presuppone conoscenze esoteriche che non cerco né possiedo. Magari invece mi perdo per anni a provare e riprovare dei pezzi di pavimento su un mobile tagliato. O a mettere insieme delle vecchie bottiglie di Fanta… Con la memoria non ho un rapporto semplice. A volte sono stato sempre indicato come quello che si interessa alla memoria, ma questa ha un’accezione sempre troppo pubblica e questa cosa non mi piace. Voglio essere chiaro. Non desidero migliorare la società con la mia opera, non me ne voglio occupare, non mi sono mai posto il problema se l’opera sia dalla parte giusta, abbia qualche scopo positivo o peggio ancora un fine. Se c’è qualche memoria, c’è solo quella mia personale. A volte si unisce poi alla memoria del mio Paese.

MD: Alcuni scatti documentari che mi mostri ritraggono l’aereo abbattuto a Ustica, oggi conservato nel Museo della memoria. A lato dell’aereo è una colonna, e dalla colonna pende un anello. Quanto è rischioso, per un artista solitamente così ritroso come tu vuoi essere, oltrepassare l’ambito dell’esperienza personale e commentare circostanze di rilievo pubblico?

FF: Date a Cesare quel che è di Cesare… forse è il modo più equilibrato per amministrare il proprio rapporto con le circostanze di rilievo pubblico. La strage di Ustica mi si è imposta come tema alcuni anni fa (memoria involontaria?), è emersa come il cadavere di uno dei passaggeri dell’aereo nella celebre e tragica foto che apparve sui giornali due giorni dopo il 27 giugno 1980. Nel 2007 fui invitato a proporre un mio progetto per la mostra Ambient Tour, organizzata alla Fondazione Sandretto a Torino e dedicata a temi ambientali. Pensai al mare e mi apparvero i cadaveri dei passeggeri dell’aereo. Avevo visto la celebre foto dei passeggeri morti in mare nella mia casa di Pavana, il paesino sull’Appennino Pistoiese dove abita anche Francesco Guccini. L’avevo vista pubblicata sul Resto del Carlino quando avevo 15 anni e, come tutte le estati, ero là in vacanza con la famiglia – o quantomeno con quello che rimaneva della famiglia. La casa di Pavana è un villino degli anni Trenta preceduto da dodici tigli: i grandi alberi ci affiancano se saliamo la lunga rampa di gradini. Questa casa è una specie di santuario della mia vita, là riposano reminiscenze, echi, che rimangono sospesi perché nessuno tocca nulla, ci sono negli armadi con ancora i vestiti dei nonni che sono defunti da tempo… Forse il vedere quella foto sul giornale in bianco e nero, il cadavere chiaro e il mare nero, come fosse un pozzo, un pezzo di abisso, ha reagito con l’ambiente carico di immagini reali e psichiche che mi circondavano e si è ammantato di una carica grave, carica di tanti significati…
Un secondo episodio associato a Ustica: è la partita pomeridiana del 5 luglio 1982 Italia-Brasile in Spagna per il Mondiale. Ero da solo nello stessa stanza a Pavana, nello stesso divano dove, due anni prima, avevo visto la foto dei passeggeri del volo Itavia. Era tutto molto strano perché la partita era al pomeriggio, c’era il sole sia fuori che in campo, certo le partite del campionato erano sempre al pomeriggio, ma mai in televisione, di solito le partite in diretta della Nazionale erano alla sera. Allora ogni cambiamento lo percepivo con inquietudine, con malassere. Mia madre e i nonni mi avevano lasciato solo. Si capiva l’importanza dell’evento dal tono del cronista e dalla solennità dello spettacolo con le formazioni scandite dalle scritte sovraimpresse con un carattere digitale freddo come quelli del videogioco Space Invaders. Non so perché rimane quasi tutto sospeso e quasi immacolato nel ricordo, ma il fatto che sia successo nella casa di Pavana mi conferma che quella casa è per me un luogo segnato. Contiene età preziose che non trascorrono mai e che rimangono chiare e ferme.
Questi due episodi che ti ho raccontato mi lasciarono un profondo senso di solitudine e dolce amarezza che ancora oggi riconosco e spesso ritorna. Gli abissi del mare nero forse non erano i soli: anche fuori dal mare c’erano profondità buie. Una volta scrissi dei pensieri sulla casa di Pavana: “i ragni urlano nelle siepi”. Purtroppo non erano solo paure di brutti sogni, ma vicende reali di mondi che si scontravano, di epoche, di mentalità: la mia famiglia è stata un grande campo di battaglia.
Il silenzio della casa, dell’estate mai spensierata di Pavana era quasi più forte dell’audio della partita che vedevo come una grande festa pagana e maschia, piena di tensione. Il Brasile! Le tifose ballerine in costume sugli spalti, i coriandoli in un catino rovente con i gladiatori sudati. Quella partita, poi, ha cambiato la storia del calcio.

MD: Come descriveresti il tuo rapporto con la storia dell’arte, in particolare con la storia dell’arte italiana antica? Questa o quell’immagine del passato mantiene ai tuoi occhi la capacità di preservare misteri o dispensare segreti?

FF: Spesso provo un deciso rifiuto per tutto ciò, quando sento “storia dell’arte” non riesco a non pensare a mia madre. Lei ha usato la storia dell’arte, “il bello che salva” per fuggire dalla situazione difficile della famiglia, ha cercato una specie di rifugio nella storia del passato. Fin da bambino mi portava con sé: da Ravenna a Roma e poi tutta l’Italia e tutta l’Europa. I Bronzi di Riace esposti a Firenze… Questa iniziazione forzata mi ha talmente segnato che mi è difficile metterla da parte. Ho una solida memoria visiva e le immagini della storia dell’arte italiana per me vogliono dire gite organizzate per vederla dal vero.
Quante volte ho visto mia madre implorare il custode di turno, di solito a pranzo, per aprire la chiesa, il chiostro, il palazzo altri tempi. Ho fatto un intero progetto sul Mausoleo di Teodorico, esposto anni fa a Pesaro, forse una delle architetture più misteriche e sinistre che ci siano… Ma lo vedo in quel modo perché – ritorna sempre questo della cosa che non è al suo posto che mi manda in crisi – abituato al centro delle città – sono nato a Firenze e poi ci trasferimmo a Bologna, ma sempre nel centro storico – vidi per la prima volta il monumento in mezzo a un prato incolto, una specie di piana desolata e triste, in periferia che non nascondeva il suo passato di palude. Non ero pronto a vedere un’opera d’arte che sembrava abbandonata. Quando dici misteri e segreti, non posso fare a meno di pensare all’Egitto. Le immagini della scoperta della tomba di Tutankamon mi hanno sempre scosso. Le trovai in uno dei primi libri che ho letto. Solo dopo molto tempo ho capito che il ritrovamento di una tomba quasi completa che svelava queste immagini di uno strano magazzino-archivio-cantina con un ordine complicato, un disordine organizzato, per me era stato importante. Oggetti così diversi fra loro, banali attrezzi e preziossime suppellettili. Cose d’uso quotidiano, estremamente semplici in apparenza, provviste però di un senso rituale, quasi magico. A fine anni Novanta iniziai non a caso un ciclo di opere dal titolo Archivio.

MD: L’anello rimanda a un’enigmatica scelta di fedeltà: a una condizione “intransigente”, come tu stesso mi scrivi, in cui non si può essere altrimenti da quello che si è. E’ una condizione solo individuale, oppure storica, geografica, di classe, generazionale? Accetteresti di considerarti testimone o interprete di una vicenda collettiva? I tuoi “assemblaggi” di mobili antichi destano in me un effetto di antica sacrestia: tutto è silenzio, indeterminatezza, sospensione e sacro. Attorno aleggia la tua ironia.

FF: Alla fine tutto insieme. La mia condizione individuale è caratterizzata ovviamente da tutte le altre cose, nessuno vive in una torre d’avorio. E’ interessante che nomini la classe. A volte qualcuno mi ha fatto capire che avevo sbagliato classe e non eravamo di certo a scuola. Diciamo dannatamente individuale, con un abbondante contorno di una famiglia dilaniata da conflitti di classe e mentali.
Dicevo della mia condizione segnata anche da una bella “spinta” storica, dai luoghi, da una città-museo (Firenze) e dalla “luce” dell’università di Bologna. Bologna è anche però la città del tortellino, la grassa, città orale. La mia nonna materna Tosca ha incarnato tutto questo nella sua vita: il gusto, la cucina, il cibo, una vita tesa verso il complesso cosmo del cibo.
Essere nato poi alla fine del 1967 ha il suo significato: posso dire di avere esultato per l’Italia campione del Mondo nel 1982 e di aver vissuto quel senso di benessere, certo effimero, ma importante di quel decennio. Gli anni Ottanta sono stati anni difficili e tragicamente intensi per me, diabolici, magnifici. Ho visto, in un momento storicamente gentile, due cose assolutamente magiche: nel 1981 la salma imbalsamata di Lenin a Mosca e nel 2012 quella di Mao a Pechino. Possiedo anche un Grochi Rosa e tante cose da arredare un’intera tomba.

MD: Un’ultima domanda secca, per una risposta altrettanto secca. Morandi o i CCCP (o entrambi)?

FF: Non posso rispondere in modo deciso perchè ho un dubbio: non so se intendi Giorgio o Gianni, in entrambi i casi sono accostamenti stranianti. Se fosse il primo apprezzo questo raffronto tutto emiliano fra pittura difficile vs musica facile (dico facile forse perché non mi è mai piaciuta la voce di GLF o perché in fondo quel genere di musica non mi ha mai interessato) e senza dubbio sceglierei l’artista di via Fondazza che ho percorso per più di trent’anni; se fosse il secondo, mi astengo.

* Conversazione pubblicata su Doppiozero.com

 

Fanta Rosarno

Credo che l’arte di oggi se ne debba stare per i fatti suoi, sul suo pianeta, che è quello dell’arte. Da tempo molti artisti e critici chiedono un’arte impegnata, attenta al contesto sociale, un’arte soprattutto etica. Anni fa, dopo la notizia che il Vaticano avrebbe partecipato per la prima volta con un Padiglione alla Biennale di Venezia, ci fu un dibattito sui giornali e Mario Perniola nell’articolo Perché l’arte deve rimanere senza dio scrisse, fra l’altro: … l’arte è tale solo se è allo stesso tempo anche meta-arte e anti-arte (1).

Penso di essere due cose, due soggetti distinti, a volte molto distanti: sono un cittadino e sono un artista e viceversa a seconda dei momenti. Quando penso e vedo da artista seguo le mie immagini per comporre o ricomporre quello che a volte riesco a vedere, senza fini e scopi se non quello di vivere attraverso la potenza di queste immagini che sono filtrate da questioni personali intense, aperte fin dalla mia infanzia, ricordi così netti e densi che ben presto hanno richiesto un’attenzione sempre più rilevante per cercare di vedere e capire meglio quello che vedevo. Insieme ad un forte piacere mai sazio, ad una devozione totale per oggetti e cose fra bellezze sempre diverse e significati ambigui, queste immagini oscillano fra la mia storia personale e quella del mio Paese degli anni 70 e 80, uno dei periodi più folli, densi, estremi, vitali e contradditori della vita dell’Occidente.

Al centro ci sono delle immagini che a volte compongono e scompongo in altre varie forme, sembrano tante cose, ma anche non lo sono. Assomigliano, ma sono altro per il fatto che hanno luce e significati differenti dalla loro apparenza. Forse tutto ciò nasce, molto semplicemente, dalla mia natura solitaria; quando si è soli le cose parlano e il mondo apparentemente immobile, si anima.

Questo processo generativo, una specie di produzione autarchica di immagini e forme, supplisce la realtà che evidentemnte non ha mai accontentato né soddisfatto il mio bisogno. Sono nato in una parte di mondo e in un periodo storico e in particolare in una famiglia, nel quale il significato, più che il pane, è stato la questione quotidiana con cui fare i conti. Non avevamo problemi economici, ma anche senza essere ricchi – mia madre aveva uno stipendio da insegnante – le questioni di casa erano, diciamo, filosofiche. L’arte, la cultura, la politica, i rapporti, tutto era una contrapposizione, anche perché tutto il paese era in contrapposizione. Davanti a casa c’era un muro di un giardino, con le foglie verde scuro, come sono scuri tutti i giardini di Firenze ed era pieno di manifesti: NO e SI, era il referendum sul divorzio.

A me piacevano quei grandi caratteri NO e SI, facevo un gioco che avevo inventato: caramelle No o Sì? Mamma No o Sì?

Da subito ogni oggetto, con la sua forma, la sua immagine mi poneva delle domande perché rifletteva le situazioni della famiglia e della casa, vivevo in un cosmo chiuso, scandito da ritmi precisi e certezze salde, in un nido pieno di dolcezze che poi scoprii stucchevoli e soffocanti.

ho spesso osservato che il contenuto delle opere d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le loro qualità formali e tecniche…
Sigmund Freud, Il Mosè di Michelangelo.

Anche io avrei voluto sempre pensare così, ma non so se ho mai potuto fino in fondo, la bellezza, la propria idea di bellezza, le qualità formali che a volte centrano un raro equilibrio che allaga i sensi e stordisce la psiche non sono facili da allontanare.

Già da bambino, forse, ero già artista, perché se non ci si sente contenti in una situazione di generale benessere materiale, vuole dire che manca qualcosa di profondo e già questa mancanza ha a che fare con l’arte. E così si cerca di fare quello che manca e che non c’è e allora si inizia questa pratica che da una parte è arte e dall’altra è una specie di catarsi senza fine perché si deve costruire un mondo parallelo, perché l’artista ha bisogno di altri mondi.

Anni fa ebbi una commissione pubblica da ANAS, la società dello Stato, quelle delle strade, per fare un ambiente permanente in un interno di un edificio di loro proprietà. Terminata l’opera discutemmo coi dirigenti sul catalogo dove Mario Fortunato aveva scritto un bellissimo testo, Il Vestibolo nudo, ma giudicato troppo psicologico. Volevano un altro intervento con un punto di vista di uno storico dell’arte, la sola figura capace di giustificare l’opera. Un consigliere in particolare disse:
Anas non fa fare una stanza all’artista perché ha problemi psicologici…

L’apparato, lo Stato, non può comprendere certe questioni psicologiche che giudica forse come oscure e ambigue, zone che è meglio evitare, ambiti non regolari e cerca la strada sicura per dire che l’arte va collocata nella scia della storia dell’arte.

Da tanti anni vado in Meridione, la prima volta fu nel 74, avevo 7 anni, una Pasqua con mia madre in treno in Sicilia, il giro classico. Poi tornammo, ma in Calabria, ricordo la Sila su un pullmann che era un autobus, Longobucco e i suoi scialli e poi Isola Capo Rizzuto con la colonna solitaria, ma da sempre mi colpivano certe cose che non erano quelle scritte dalla guida del Touring – la guida che ha insegnato all’Italia che solo i monumenti del passato, le chiese e i musei, le cose alte sono quelle da visitare – né quelle che mi faceva vedere mia madre, amante dell’arte classica, ma certi contrasti, certi paesaggi poco ortodossi, certe insegne di negozi, certi incarti di pasticceria, certe panchine moderniste, ma soprattutto l’intero cosmo di tutte le cose abbandonate, rotte, sbragate, cadenti con le loro macerie, come certi palazzi di Palermo o di Cosenza insieme a quel poco di natura che riusciva a crescerci dentro. O come quelle specie di piazzali desueti in lastre di cemento, con una piccola selva di bassi arbusti ordinati dagli interstizi del piancito con in fondo una Uno blu abbandonata, ma ancora intera, che guarnisce con equilibrio una magnificenza semi artificale.

Amo la desolazione ordinata, quel degrado composto con pochi colori che ha solo immagini aperte e che trovo solo al Sud. Sono visioni con un passato consunto, quelle che il Nord non si può più permettere, situazioni sconcertanti, una parte di mondo sfasciato dove vedo dei luccichii, quella spazzatura che da queste parti non si ha voglia di rimuovere, per un’indolenza storica ma che permette spettacoli sublimi, fra il pittoresco e l’orrido, il catastrofico e l’apocalittico, perché l’apocalisse è bellissima quando si è solo spettatori.

Vado al Sud per trovare anche quelle risacche di umanità, gente stagnante, con corpi stanchi e antichi, minuti ed esili o straripanti e carnei, facce come se fossero di razze diverse come quelli che vivono nelle città vecchie, dove nessuno vuole stare, perché quando un posto è vecchio già di suo si cerca il nuovo a tutti i costi e quando ci si sente indietro il nuovo è ancora più nuovo anche se non è intonacato.

Vado al Sud per vedere i segni che rimangono solo qui e sono i segni del mio recente passato che hanno così deciso e imposto un carosello di immagini che tengono insieme la mia vita, il mio tempo, i miei sentimenti.

Sono arrivato a Rosarno in auto in Calabria, l’unica regione senza Telepass, la terra della Magna Grecia con le coste dai nomi suadenti: Costa degli Dei, Costa Viola, Costa degli Aranci e Riviera dei Cedri dove cresce il Cedro Diamante, il cedro più buono del mondo. E sono arrivato a Rosarno per fare un murale. Da qualche anno sto facendo dei wall paintings perché le immagini dipinte sui muri delle città sono sempre molto intense, mi danno l’idea e l’illusione che sono in una mia città con le insegne e le immagini che desidero. Ho pensato alle arance, da bambino le arance erano i frutti del Sud che arrivavano con le veline colorate, erano i frutti per i bambini; una volta un avvocato di mio padre, era del Sud, mai visto prima, mi promise una cassa di mandarini, ma poi non arrivò mai. Quando penso alle arance, penso soprattutto ad una pubblicità, ad una vecchia reclame che girava su Topolino quando ero bambino: una bottiglia di Fanta, l’aranciata d’arancia, quelle col vetro spesso – spesso usurato – arancio scuro, con la superficie ad anelli, con la scritta smaltata che rimaneva per sempre e di fianco tre bicchieri tondeggianti, con forme suadenti e diabolicamente moderne, da bibita estiva, colmi di aranciata colore arancio intenso, quasi artificiale. L’immagine un po’ presa dall’alto, metteva in risalto la parte superiore dei bicchieri diventati tondi come tre grosse arance. Arance da bere dichiarava il verbo che tranquillizzava tutti. Tranquillizzava perché avevamo bisogno di entrambi i mondi, quello naturale, i frutti di madre natura, e quello artificiale, la bibita pronta da stappare perché ci sentivamo moderni e volevamo esserlo sempre di più. Negli anni di Piombo, forse, le arance era importante che fossero più arancioni di quelle vere.

Di fianco al murale che ho dipinto a Rosarno in via Umberto I, ricordo una scritta a vernice sul muro: W J. V. BORGHESE.

Il Principe Nero, quello della Decima MAS e del presunto golpe in Italia del 1970. Poco sopra in via Mesima una bottega di un anziano che riparava le biciclette, una bottega un po’ sgangherata, senza porta di ingresso, con un grande magnifico poster appeso in fondo, liso e ingiallito, il poster elettorale che per decenni è stato sempre lo stesso in Italia: Vota Comunista. L’uomo mi ha raccontato della sua militanza nel Partito e soprattutto ricordo questa frase: Qui si sono mangiati tutto.

Ho dipinto una grande velina delle arance col nome Zeus, chissà di quale marca e provenienza, un esempio tipico di creatività spontanea che mescola immagini alte con quelle basse, un mondo di subcultura meridionale che inconsapevolmente si tira dietro l’eredità di un pezzo della storia più importante del mondo. La carta velina per incartare arance è un artifizio assoluto, una grande elaborazione metafisica, composizione concettuale, sviluppo astratto che ha il fine di presentare un semplice frutto della terra in un dono speciale, unico, prezioso, un grande artefatto, dove uno dei grandi temi è la Magna Grecia, che come i Bronzi di Riace sono una realtà psichica. A volte sembrerebbe che nei duemila anni e passa, fra la Magna Grecia e oggi, ci sia solo la Magna Grecia.

Così nel difficile tentativo di cercare di portare l’interno all’esterno, di esporre ed espormi con le immagini, con la loro forza e debolezza, i loro significati multipli, oltre a dipingere continuo a scrivere testi, che alla fine sono delle opere d’arte, come è il tempo dell’artista e anche Fanta Rosarno.

NOTE:
(1) Mario Perniola, Perché l’arte deve rimanere senza dio, in La Repubblica, 1 febbraio 2013.
(2) Sigmund Freud, IL Mosè di Michelangelo, 1914.

Testo pubblicato in KIWI Deliziosa guida – Rosarno Ulteriore, a cura di A di Città, Rosarno (RC) e Viaindustriae, Foligno (PG).

Su Palmira

Questo mio progetto nasce a maggio, senza pensare di eseguirlo in Sardegna.

Ho cultura visiva pubblicitaria e raccolgo oggetti e prodotti che mi ricordano il mio passato personale, che credo sia il soggetto principale della mia opera.

Il tonno Palmera c’è dagli anni 60 così come la sua pubblicità.

Il suo slogan, Fatto o come piace a noi Italiani, come tutti gli slogan, e come quello della Scavolini, non vuole dire nulla, ma è solo un “decoro” di parole che ha la funzione di propaganda.

Su internet, c’è uno scambio interessante fra un lettore e l’azienda che discutono sul messaggio della pubblicità,
http://www.ilfattoalimentare.it/tonno-palmera-immagine-etichetta-trancio-intero-interno-briciole-risponde-azienda.html
per comprendere luci e ombre del mondo della réclame, che credo sia uno dei fenomeni più importanti degli ultimi due secoli (in particolare in Italia ben compreso dal principale attore politico degli ultimi vent’anni).

Conoscendo la pubblicità, non potevo non cogliere la relazione fra Palmera e Palmira, visto che la seconda, dallo scorso maggio, è su tutti i giornali.

Come studente di Storia Orientale all’Università di Bologna, andai nel 1988 in Siria e visitai Palmira, alloggiando all’hotel Zenobia, un albergo fatiscente di epoca coloniale.

In giro c’erano solo ritratti del presidente Assad, vecchie macchine degli anni 50, come a Cuba, e qualche casco blu, nessun turista. Nell’88 in Italia pochi sapevano cosa fosse l’Islam, la Siria e soprattutto, a parte i seguaci di Sabatino Moscati, grande divulgatore dell’archeologia, Palmira.

Ora, che il distratto Occidente, in pochi giorni, abbia assunto Palmira, un sito archeologico remoto da turismo e interesse, quasi come caposaldo della nostra civiltà e memoria, l’ho trovato strano e bizzarro. Mesi fa il noto archeologo Paolo Matthiae, scrisse un articolo sul rischio che corriamo se fosse distrutta Ebla, la città a cui ha dedicato una vita. Ho trovato interessante questo strano incontro -e un po’ forzato- fra i terroristi del presunto Califfato, l’archeologia e l’opinione pubblica. Oltre alla questione del mercato illegale, degli interessi e della banale e orrenda furia distruttrice, i guerriglieri dell’ISIS hanno capito che fa quasi più notizia decapitare una statua antica che una persona. D’altra parte sui nostri media ad ogni terremoto (L’Aquila, Nepal) leggiamo prima la lista della perdita dei monumenti che quella delle persone. E quante volte sulla crisi greca sono state accostate immagini di vasi antichi e la facciata del Partenone. Palmira, da un ammasso di pietre polverose e qualche colonna, nel deserto siriano a 200 km dall’Eufrate, si trova improvvisamente in prima pagina sui nostri giornali. Spontaneamente ho associato i due nomi, così simili, e cosi diversi, ma che entrambi fanno parte da decenni della mia cultura personale, del mio immaginario, della mia esperienza.

Alla fine ho proposto questa immagine che poi si è connessa ad altre questioni a cui non avevo pensato: l’importanza del tonno nella cultura del territorio e che fino a pochi anni fa Palmera era prodotto proprio in Sardegna e non da ultimo la questione “Italiani”, visto che sull’isola ci sono più bandiere coi quattro mori che il tricolore…

Qulcuno mi ha fatto notare che l’opera è equivoca.

Certo è un’opera che potrebbe essere letta in modo equivoco.

Sono nato e cresciuto in una famiglia borghese con una cultura ambigua, che poi, credo, sia quella del nostro Paese. Anzi si potrebbe dire che proprio l’ambiguità è uno dei tratti distintivi della storia Occidentale che oscilla fra il passato Ebraico-Cristiano e la sua secolarizzazione.

E forse proprio questo grande equivoco fra essere post-cristiani che ci mette spesso in crisi e mette ancora più in crisi gli islamici radicali che non capiscono il nostro mondo che ai loro occhi appare equivoco e ambiguo.

Noi però, tutto ciò, lo chiamiamo anche libertà.

 

 

L’arte ossequiosa

Si è aperto da poco il progetto Gare du Sud di Nicola Samorì al Teatro Anatomico dell’Archiginnasio a cura di Chiara Ianeselli. Leggendo il comunicato stampa ufficiale balza all’occhio subito una singolarità: l’unica immagine è quella del Teatro e non, come dovrebbe essere, quella dell’opera dell’artista, visto che è la sua mostra. La strana anomalia spiega bene un certo punto di vista: il vero soggetto è in realtà il Teatro Anatomico, luogo santo del connubio fra Arte e Scienza nell’Archiginnasio, la cattedrale laica della città. Quasi fossero dei pretesti per rinnovare la devozione, le mostre temporanee diventano l’occasione per venerare il sito.

L’idea di fondo è che l’arte contemporanea, se proprio deve essere, si debba relazionare solo a quella del Passato. L’autorità della sede dispensa una specie di lasciapassare, vidima con la sua indiscussa autorità il permesso all’arte di oggi di esistere. La superficialità e la corruzione della natura dell’arte odierna può essere ammessa solo con la benedizione salvifica elargita dal complesso dell’Archi-Ginnasio.

Ovviamente -si legge nel comunicato- la scultura dell’artista è in dialogo con la pala d’altare collocata nel luogo adibito a cattedra a sigillare la relazione d’obbligo con la santa sede. Chiude il comunicato una sentenza di Jean Clair, che cita Antigone, Creonte e Polinice. Non è affatto un caso che la frase sia presa da De Immundo, testo reazionario dell’Accademico di Francia che accusa e condanna l’arte contemporanea come arte del degrado, del disgusto, della desacralizzazione del corpo e che tinge la mostra Gare du Sud di un velo conservatore. Non bastasse tale prologo, l’inaugurazione si è svolta con l’intervento, oltre che della curatrice, di un medico che insegna Storia della Medicina all’Università di Verona e di un professore di Storia del Cristianesimo dell’Università di Bologna. Tale operazione di sostegno è tipica di un contesto che considera l’arte di oggi debole e modesta di costituzione; da sola l’opera, senza dotte guarnizioni ed erudite introduzioni, non regge. Se poi la si deve esporre allora che sia di natura cristica possibilmente sofferente e col più nobile dei materiali, il marmo di Carrara. Si nota però un’anomalia, non si sa se voluta o sfuggita: si legge che il progetto dell’artista include anche gli spettatori che ammirano incuriositi la fessura segreta del teatro di cui parlano gli Atti della Congregazione della Gabella Grossa, da cui si poteva forse guardare senza essere visti. Ora è assai attuale oggi la categoria della partecipazione -non si sa bene se per contrapposizione  allo star system generato dall’iperautorialità o viceversa da una crisi stessa dell’opera. Per cui se la scelta fosse voluta, allora si tenderebbe, con un gioco sottile, a cercare, nonostante tutto, di fare un po’i contemporanei. Se invece fosse sfuggita, allora vorrebbe dire che i tempi deboli di oggi non sono poi così tanto leggerini.

Joe and Joey

Un nuovo tipo di sigaretta, una nuova città-distretto dell’alimentare, un rivoluzionario veicolo particolarmente veloce e la squadra locale di calcio potenziata. Non siamo nel 1932 a Littoria, né negli anni 50 a Yekaterinburg, ma a Bologna, 2015.

Certo i tempi sono cambiati, siamo tutti più pratici e realisti, gli ideali sono sfioriti, in fondo ci siamo scoperti più di bocca buona. Sono i tempi globali.

Bologna ci farà fumare meglio, sarà il centro del cibo di qualità con una grande parco a tema e ci farà andare allo stadio per vedere la seria A TIM. E ultimo, ma non meno importante, ci farà avere un nuovo SUV: a Sant’Agata, il luogo del nuovo stabilimento, si produrrà Urus, che non è un bovino dei tempi di Asterix, ma un veicolo utilitario sportivo, cioè una jeep veloce con aria condizionata. Progetti e risultati che sono importanti investimenti per l’economia, che danno ossigeno all’occupazione, ma sanno anche di vecchi miti, intramontabili stereotipi per la facile euforia delle masse.

Dopo tante battaglie, gira e rigira, ci si trova sempre con i soliti orizzonti un po’ riverniciati, rincartati meglio, oltre ad essere privi del fascino di un tempo: la nuova sigaretta non è nemmeno una sigaretta, non brucia e non fa cenere (manderemo in soffitta uno dei più belli oggetti degli ultimi secoli, il portacenere), il cibo d’eccellenza per la prima volta viene spostato dal centro città o da un luogo comunque storico, ad un pratone in perifieria, sulla fine del calcio si è scritto a fiumi, basta solo guardare le figurine Panini degli ultimi anni coi calciatori truccati come i politici in tv. La cesura epocale che ha provocato il SUV, poi, è talmente devastante che è difficile dire qualsiasi cosa.

E’ il global che si mangia i tempi e i modi del local, perché in fondo, i veri globali siamo sempre stati noi, solo che ci abbiamo messo un po’ di tempo a scoprirlo, come il piacere di guidare un’auto col pianale rialzato perché l’avevamo sempre considerato una cosa eccessiva, un po’ troppo casual… un’americanata.

E sono proprio due americani i salvatori della patria, Joe and Joey, anche se i cognomi dicono altro e c’è di mezzo un grande caseificio di origine siciliane. Con l’impero di Joey Saputo che viene dai formaggi e FICO siamo passati dal tremontiano con la cultura non si mangia a si mangia senza la cultura.

Si dirà che è cultura d’impresa, cultura di motori, cultura della tavola, cultura del pallone, ma il vero soggetto è il prodotto glocal per un Expo permanente che ci ricorderà per sempre che gli umani sono ciò che mangiano.

Si dice, poi, che i due proprietari del Bologna, con quell’immagine un po’ da zio d’America, coi loro panciotti un po’ d’antan e i capelli alla brillantina, cercheranno anche di risollevare il salotto buono della città, il Teatro Comunale.

 

La Cina è lontana

Historical Materialism di Li Songsong al MAMbo è una mostra di un artista internazionale e multiculturale, come sono oramai tutti gli artisti contemporanei internazionali. Il titolo, così desueto, è intrigante e i quadri mostrano soggetti per la maggioranza cinesi. Questa cinesità (o cineseria?) crea una situazione non semplice che da tempo abbiamo con questo paese: l’esotismo.

Nonostante sembri vicina, la Cina rimane molto lontana.

I temi dei dipinti sono moderni, da copertina del Time, eventi e immagini da sussidiario della Storia che conta, fra Storia Mondiale e Storia Cinese, quasi fosse la stessa cosa.

Fra mille sfumature di verde – che non è quello dell’ecologia – per lo più sbiadito e grigi burocrati – forse il vero colore della Cina moderna – si nota la mancanza del rosso vivo, quello delle lanterne, delle sete lucenti e dei pesci delle vasche, insomma quello che fa più Cina. I quadri sono a pezzi, piastre vicine e accavallate, composizioni di parti che formano o tentano di formare un insieme, che forse non c’è o non ci può essere.

Ci sono aerei militari color piombo aereonautico, c’è il Congresso, c’è Lenin, non c’è Mao ma è come se ci fosse; sembra ci sia ancora la Guerra Fredda.

Li Songsong è cinese o è un cinese occidentalizzato?

Nel suo sito web compaiono due testi scritti da Ai Weiwei, per noi il cinese più famoso, ma per i cinesi l’artista meno cinese.

Come il titolo della mostra, i soggetti dei quadri parrebbero ineluttabili, noiosamente eterni e poco personali come del resto vuole tutto l’Oriente, ma la scomposizione delle immagini, che ne fanno un punto di vista peculiare – e un po’ da Cinegiornale –

dimostrano il suo lato contemporaneo. L’indagine sulle immagini della Storia popolare recente della Cina filtrati da ritagli di diversi pallori ne fanno un artista Occidentale che viene dalla Cina e forse la usa – ma non può fare altro –, perché sa che a noi piace. Quello che ci appaga è l’andare attorno a delle immagini-cartolina di un mondo che noi teniamo da qualche parte nella zona del remoto e dell’incomprensibile, unito a qualche linea di nostalgia di un tempo che là un po’ ancora c’è e qui non più.

Un quadro al MAMbo si chiama Shangri-là, celeberrimo finto eden, un luogo che non c’è, di provenienza occidentale, un nostro punto di vista immaginario su (un’idea) di Cina e che è diventato un nome cinese.

Li Songsong è a un drammatico bivio: è cinese, ma non vuole esserlo e al tempo stesso non può non esserlo.

Ma per noi, tutto questo, si chiama ancora esotismo.