Intervista di Gianni D’Urso

Intervista di Gianni D’Urso

  • Quando hai deciso di fare dell’arte il tuo lavoro?
  • A poco a poco non avevo le idee chiare a fine anni 90. Non avendo fatto né istituti d’arte né accademie sapevo poco dell’arte e del suo mondo. Sono andato a tentoni.
  • C’è stato un momento specifico in cui hai sentito che era possibile? Per esempio la vincita di un premio o dopo essere stato invitato ad una manifestazione importante?
  • Alla fine mi chiedevo poche cose, iniziai a sperimentare al Link Project di Bologna…
  • All’inizio della tua attività facevi altri lavori per sostenerti economicamente? (Se si) Quali? Interferivano con i tuoi progetti artistici?
  • No, certo facevo qualche progetto che sconfinava nell’arredo e allestimento, ma partiva tutto da miei esperimenti che ho iniziato con il mondo domestico. Stavo facendo la mia casa.
  • Come ti sei mosso una volta terminati gli studi?
  • Feci il TAM Trattamento Artistico Metalli con Arnaldo Pomodoro e poi andai un po’ in giro… Roma, Torino….
  • La tua famiglia ti ha sostenuto o ostacolato in questa tua scelta?
  • Mia madre rimase a guardare.
  • Come hai vissuto la competizione con gli altri artisti all’inizio della tua carriera?
  • Senza la competizione non va avanti nulla. E’ la storia del nostro Occidente e la Storia dell’Arte.
  • Come la vivi adesso?
  • Oggi non si può battagliare con nessuno, non si può fare polemica, criticare. L’artista non può parlare, non può fare polemiche a meno che non cerchi tabula rasa… tutti a citare Pasolini, ma quegli anni non si scherzava. L’ha vinta la filosofia di Jeff Koons. Gli artisti oggi sono funzionari dell’arte più che artisti.
  • Cambieresti qualcosa se potessi ritornare all’inizio della tua carriera?
  • Cambierei il mio luogo di nascita e la mia famiglia. Meglio in una di pastori mongoli, vicino al deserto dei Gobi.
  • Quando hai venduto un tuo lavoro per la prima volta?
  • Non ricordo forse attorno al 1998-1999 forse è stato l’inizio della fine. Ho sempre pensato che lo Stato dovesse stipendiare gli artisti.
  • La vendibilità dell’opera ti ha mai condizionato?
  • La vendita è la possibilità di sbarazzarsi di opere che gestisci male. C’è anche la distruzione, uso entrambre le pratiche.
  • Come sono iniziate le collaborazioni con le gallerie che ti rappresentano?
  • Per caso ed è tutto psicologico. Banalmente psicologico. Bisogna lavorare con le gallerie, non c’è altra via, ma devo dire che non è edificante.
  • Osservando le dinamiche del sistema, si ha l’impressione che l’artista sia invitato ad una produzione continua e costante. Ti riguarda questo? Cosa ne pensi?
  • A me piace lavorare in studio. Piace fare le opere, farne tante. E’ come se fosse un tempo differente. L’importante è sapere che quello che si fa è arte, è un atto differente rispetto al mondo che scorre. Certo oggi ci sono le fiere che condizionano, devi produrre. Tutti gli artisti oggi, tutti, producono per le fiere.
  • Hai mai attraversato un periodo di crisi? La cosiddetta crisi creativa? Come l’hai vissuta e cosa hai imparato da essa?
  • Crisi sempre, nel senso che non sono contento. Se non si è in qualche modo corrisposti nell’arte è pesante, ma quando lo si è mi vengono tanti dubbi. Troppo spesso il successo è squallido, bisogna riconoscerlo. Crisi creativa mai. Ho il mio mondo da finire, per finirlo non mi basterebbero due vite.
  • Come hai vissuto il primo invito alla biennale di Venezia?
  • Mi hanno telefonato. Certo ero contento, ma capii subito che era una cosa un po’ così… molto fumo. Non rimane nulla da queste cose preconfezionate.
  • Partecipare ad una manifestazione importante come la biennale di Venezia, pensi sia un punto di arrivo o un punto di partenza per un artista?
  • Per la verità nessuno dei due. Serve per il sistema, ma poi passa.
  • Cosa secondo te, un artista giovane non dovrebbe mai fare?
  • Non lo so, non do mai consigli.
  • Che consigli senti di dare ai giovani artisti?
  • Non lo so, non do mai consigli.

Lo spettatore / il pubblico

Francesca Bertazzoni – Come immagini e quindi descriveresti la figura di uno spettatore (ovvero pubblico) ideale che entra in contatto, si relaziona con il tuo lavoro? Ovvero quali caratteristiche peculiari vorresti possedesse? Se ci hai mai pensato prima, altrimenti prova a farlo ora.

Flavio Favelli – Devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Come dice Mario Perniola è arte, anti -arte e meta-arte allo stesso tempo. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.

FB – Cercando tra i tuoi ricordi di spettatore d’arte mi descriveresti almeno un’esperienza forte e le ragioni per cui la ritieni tale? Ovvero del tuo incontro con un’opera, sia essa oggetto, performance, evento, allestimento, testo, ecc… che nel bene o nel male ti ha sorpreso e che a distanza di tempo ti riporta esattamente a quel luogo, quelle sensazioni (sorta di effetto Madeleine).

FF – Nel Museo per la Memoria di Ustica a Bologna. L’opera è l’aereo e poi successivamente Boltanski ha fatto un’altra opera sul quell’aereo. Già di per sé l’aereo è un totem, un capro espiatorio immolato nel conflitto fra due mondi, quello Occidentale e del Patto di Varsavia o se si vuole fra due visioni differenti, oppure ancora fra dei deliri di quegli anni…

 

Per Arte Fiera

A causa di Arte Fiera o semplicemente per Arte Fiera è un interessante fenomeno che è entrato, nonostante il ridimensionamento dell’evento di Piazza Costituzione, nelle vene dei bolognesi. Decine di appuntamenti per celebrare arte, arti e variopinta creatività, concentrati in meno di una settimana si affiancano alla manifestazione madre per attrarre il suo pubblico. È così diventata una consuetudine, quasi una festa comandata che fornisce la scusa per ogni evento: moltissime mostre, appuntamenti ed esibizioni credo che non esisterebbero se non ci fosse l’alibi di Arte Fiera. Ed è inevitabile che l’evento prevalga sull’opera, già offuscata dalla pratica stordente del vernissage; ne consegue un gran fiorire dell’installazione, termine disgraziato che chiunque usa per qualsiasi opera d’arte che non sia su tela o di marmo. I recinti sono rotti e i buoi sono scappati da tempo e così siamo diventati tutti artisti, curatori e galleristi, tre occupazioni dove, in fondo, non ci vuole nessun corso, nessun tesserino. Se la grande rivoluzione del cibo ci sta facendo, alla fine, mangiare meglio, non se se si possa dire lo stesso per il gran movimento dell’arte contemporanea, che negli ultimi anni ha assunto un ruolo di assoluto status. La città, come il paese, è ancora comunque spaccata su una questione centrale: il concetto e il significato dell’opera. Tutti a chiedersi in ogni mostra ma cosa vuole dire? Qual è il messaggio? perchè da sempre ci hanno insegnato che è bello o brutto, giusto o sbagliato, bianco o nero. Qual’è il succo? Perché si vogliono risposte che non contemplano altre domande. In questo gran tour cittadino di cose colorate manca un’educazione, manca il tempo mentale di mettersi davanti all’opera, manca soprattutto un momento, necessario, per cercare di comprendere che l’arte vera del nostro tempo ci pone delle questioni che dobbiamo cercare in qualche modo di assumere. Rispetto all’arte del passato, l’arte moderna e contemporanea cerca di abbattere quel vetro, caro a certi, che permette allo spettatore di accostarsi ad un’immagine inedita e farla propria perché è fatta della stessa pasta del nostro vivere, permette al passante di vedere e capire meglio un contesto con una nuova opera che scombina un facile ordine. Che piaccia o no, sono i contrasti il certo soggetto del nostro caro tempo, dove il vero ha mille luci ed ombre che non possono e non devono ridursi ad una comoda eleganza.