Lo sciamano

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Il Resto del Carlino giorni fa chiudeva la notizia sugli eventi di Boltanski con un Appuntamenti imperdibili per gli amanti dell’arte contemporanea, nei prossimi mesi protagonista principale… È interessante perché ci dice il punto di vista di un giornale popolare, della gente, sulla questione dell’arte contemporanea che riguarda un artista riconoscibile e non difficile da comprendere. Il tema delle sue opere sembrerebbe chiaro: cerca di preservare il tempo e il ricordo, pratica italiana, fra l’altro, assai comune: non si conservano le ricette culinarie della tradizione, che sono la memoria del territorio e della nostra identità? Eppure questa precisazione che è un evento imperdibile solo per certi palati è degna di nota. Le opere di Boltanski, le sue grandi accumulazioni ordinate, che hanno le radici nella Seconda Guerra Mondiale e nella Shoah, sono esplicite. I fiori recisi della mostra di Villa delle Rose sono simili a quelli che troviamo in Certosa, le installazioni con le lampade-lumino che ricordano i cimiteri, sono operazioni tanto dense quanto poetiche e semplici perché hanno una cifra formale riconoscibile e condivisa. Nelle sue opere, di un perenne bianco e nero, come le foto dei ritratti dei documenti, dei medaglioncini delle ceramiche delle tombe e dei sacrari delle grandi guerre, non ci sono forme ostiche o respingenti. In una recente intervista dice, con un tono un po’ ieratico tipico degli artisti che si sentono in qualche modo vicini al sacro – non sono un artista di oggi: lavoro sulla morte e alla fine ne sono meno spaventato. E ancora: … Non mi sento moderno. Uso un linguaggio di oggi, ma mi pongo domande antiche. In un altro tipo di società, sarei uno sciamano. Trova noioso il mondo dell’arte contemporanea. Usa immagini semplici e immediate ed essendo non moderno (il popolo per sua natura non capisce mai in arte le cose moderne, figuriamoci quelle contemporanee) la sua arte dovrebbe essere popolare. Non è popolare invece, perché ce lo dice il Carlino che è un giornale popolare che parla della sua arte come di un appuntamento imperdibile non per la gente, ma per gli amanti dell’arte contemporanea. È forse colpa della memoria storica mai condivisa fino in fondo dal nostro paese? O è semplicemente il solito disinteresse della società italiana per qualsiasi genere di cultura (che è sempre noiso culturame) ? O non sarà invece che l’arte contemporanea (Boltanski dice che comunque usa il linguaggio di oggi) non può essere popolare? Nonostante tutto Boltanski non è popolare, perché è un artista contemporaneo e l’arte contemporanea non può essere per sua natura popolare. E poi Boltanski, forse, forza troppo: vuole che la sua opera sia per la società, va in periferia, opera in teatro, vuole che in qualche modo abbia un fine condiviso – lo sciamano fa, anche se con strani riti, il bene comune -. Ma forse dimentica che la sua medicina, nonostante un linguaggio comprensibile, ha l’incantesimo (o maledizione?) dell’arte contemporanea che riporta tutto inesorabilmente al suo pubblico e ai suoi amanti.

L’arte e la fondazione (di Roma)

Un grande palazzo del centro ha aperto le porte della sua collezione con un nuovo allestimento della quadreria antica e moderna. Una classica quadreria di una fondazione bancaria (l’arte nelle fondazioni ha sempre un ruolo) che col possesso di opere forse cerca di alleggerire il suo compito decisamente materiale e disinvolto: i giuochi di luce di tutti i panni e panneggi dei vari personaggi antichi, compresi i santi, servono a supportare spiritualmente le grandi istituzioni della nostra civiltà. Le opere nella sede in una banca oltre a svelare l’indissolubile legame dell’ambiente del denaro e del potere con l’arte, intesa come investimento e celebrazione di un’idea di società e di cultura, sanciscono definitivamente la sconfitta di quest’ultima che non ha per nulla inciso, nonostante l’Italia ne sia piena, sulla storia moderna e contemporanea del Belpaese. Se c’è uno stato nell’Occidente lontano dalla cultura intesa come cura della conoscenza, dell’intelletto e dei saperi e soprattutto del loro riconoscimento cui l’arte mira, questo è proprio il nostro. Messa velocemente fra parentesi la figura dell’artista maledetto, solitario, reietto e scomodo, oggi, come il ieri dei Carracci, l’arte diventa giusto una conferma di potere e magnificenza. L’arte classica poi -quando qualcosa diventa classico diventa assolutamente innocuo- è finita per essere, nonostante i suoi significati originali, giusto un passatempo fra i divani del salotto del Buon Gusto dove si parla sempre del Bello e della Bellezza che un giorno, dopodomani, salverà il mondo. A forza di ammirare la luce dei Caravaggio, dei Guido Reni e dei Guercini che abbaglia perfino i camorristi, siamo diventati un paese con un rapporto problematico e sospettoso quasi di imbarazzo con l’arte del proprio tempo. Le quattrodici scene dei Carracci del fregio della Storie della Fondazione di Roma del grande palazzo bolognese forse ci confermano che nonostante siano tutti capolavori, le opere antiche, non si sa come e nemmeno il perchè, si prestano comunque oramai a supportare e a condurre a una visione ingessata e ferma nel tempo. Il racconto delle gesta e dei miti del passato– che nell’epoca moderna hanno fatto solo danni- narrati da altissima pittura non può che rivelarsi una storia, a volte storiella, comoda, amabile e giusto gradevole a cui siamo abituati da secoli. Solitamente le opere -ora è il momento del Nettuno- sono oscurate e sottratte alla vista del pubblico per il loro restauro. Si potrebbe invece coprire per un periodo, una specie di anno sabbatico, il fregio dei Carracci della sala delle Storie della Fondazione di Roma con una sorta di impalcatura, una struttura provvisoria, una grande fodera con legni che impedisca di farci sedurre dalle nobili gesta di Romolo, Remo, Amulio e Acrone. E che ci faccia comprendere, giusto per un anno, il senso illusorio dell’arte antica del quale il paese è da troppo tempo ammaliato.