Idee per il futuro

Idee per il futuro è la nuova rubrica di exibart, per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, oltre che per provare a capire come realizzarlo, dopo l’emergenza Covid-19: l’appuntamento di oggi è con Flavio Favelli.

Flavio Favelli (Firenze, 1967), dopo la Laurea in Storia Orientale all’Università di Bologna, prende parte al Link Project (1995-2001).
Ha esposto con progetti personali al MAXXI di Roma, al Centro per l’Arte Pecci di Prato, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, alla Maison Rouge di Parigi e al 176 Projectspace di Londra. Partecipa alla mostra Italics a Palazzo Grassi nel 2008 e a due Biennali di Venezia: la 50° (Clandestini, a cura di F. Bonami) e la 55° (Padiglione Italia a cura di B. Pietromarchi). Nel 2008 realizza Sala d’Attesaambiente permanente nel Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna che accoglie la celebrazione di funerali laici. Nel 2015 l’opera Gli Angeli degli Eroi viene scelta dal Quirinale per commemorare i militari caduti nella ricorrenza del 4 Novembre.
Nel 2017 il progetto Serie Imperiale vince la seconda edizione del bando Italian Council. Nel 2019 tiene la mostra personale “Il bello inverso” a Ca’ Rezzonico, uno dei musei della Fondazione Musei Civici a Venezia, ed esce libro d’artista Bologna la Rossa edito da Corraini Edizioni. Scrive per La Repubblica edizione di Bologna dal 2014.

La parola agli artisti

Tre cose che chiederesti per far fronte al futuro, come professionista dell’arte (Denaro? Possibilità di esporre? Studio gratuito? Minori imposte sulla Partita Iva? Abbassamento dell’IVA per chi decide di investire in arte? Creazione di un sindacato?…)
«Darei questa possibilità: facendo la somma del reddito degli ultimi 3 anni dell’artista, si calcola la media mensile e si divide per due. La cifra che risulta sarebbe lo stipendio mensile che lo Stato dovrebbe all’artista. Senza tasse. Dopo un anno, se l’artista ha venduto di meno della cifra annuale percepita dallo Stato è tutelato, se ha venduto di più, il resto andrà allo Stato. Ogni anno si rivedrà il parametro. Io sarei pronto, vorrei vedere chi ci sta. Perché se si chiedono soldi poi il problema è: a chi vanno? Tutti diventerebbero artisti, scenografi, creativi, e in questo momento populista molti direbbero E perché? A chi? A quelli che fanno la banana o il taglio sulla tela? Nel caso che ipotizzo si verrebbe ad un patto: una reciproca relazione con l’istituzione con cui vorrei avere degli scambi, come l’Italian Council. Con questa proposta/patto vorrei essere preso in considerazione, vorrei, più che essere tutelato, un riconoscimento che lo Stato dovrebbe darmi e altre iniziative (come la possibilità di partecipare a incontri con le amministrazioni). Credo che vada riconosciuto in qualche modo il lavoro dell’artista che mi sembra, -certo bisognerà fare delle distinzioni-, l’unico attore capace di creare senza uno studio di mercato, senza una previsione, senza un piano prestabilito. Anni fa ho esposto una grande opera, dopo mesi di lavoro, in un capannone in disuso vicino a casa sull’Appennino Bolognese. Feci una specie di inaugurazione, dove nel grande spazio di circa 300 metri quadrati si trovava l’opera. Un imprenditore mi disse: e tu tieni questo grande spazio solo per esporre un’opera?».

Ci puoi dire un motivo per cui, secondo te, ancora oggi in Italia si fatica a riconoscere i diritti degli artisti come categoria professionale?
«Giorni fa l’assessore alla cultura di Bologna ha detto che in Italia il lavoro culturale non viene riconosciuto. Già questa è una risposta. Figuriamoci gli artisti. Anni fa avevo scritto questo testo per fare capire la situazione: ci sono tanti fattori. Colpa anche degli artisti stessi. La faccenda è molto seria, certo non è semplice rifiutare possibilità di guadagno, ma si fanno troppe cose a carattere illustrativo e commerciale e questo alla fine pesa. Io stesso mi sono amaramente pentito di un progetto per un gadget di tanti anni fa, cosa che non rifarei. Gli artisti stessi accettano sempre usi e costumi che non fanno altro che mantenere un’idea ferma di un mondo spesso percepito, nonostante tutto, come noioso (ma chi va più alle presentazione dei libri e cataloghi d’arte?) Al The First Morning Fest of Unreasonable Acts nel 2018 a Bologna a cura di Antonio Grulli e Keren Cytter io e Luca Bertolo facemmo una discussione pubblica senza alcun mediatore. Mi sembra che sia stata una cosa unica nel suo genere. Di solito l’artista, se mai parla, viene sempre scortato e moderato dal curatore che appunto lo cura perché evidentemente va curato. D’altra parte gli artisti parlano poco, leggono poco, scrivono poco e, avrebbe detto mia nonna, non sanno nemmeno stare zitti, perché anche quello a volte è importante. L’artista non esprimendo nessun pensiero e presa di posizione (faccio un esempio: in passato non ho accettato di partecipare a due progetti legati alla Chiesa, per il semplice motivo che in quell’ambiente l’opera viene sempre letta in modo univoco e l’artista sembra sempre un messaggero, anche se non se ne rende conto, della bellezza del creato) verrà sempre visto come colui che si accontenta del rapporto che gli offre la società, cioè solo commerciale e questo necessario mezzo, se si tramuta in solo scopo, non può essere altro che scontato; ed è così, in fondo, che l’arte contemporanea viene percepita: come una mera faccenda di mercato. Il problema è che raggiungendo il successo commerciale automaticamente si raggiunge la fama (chi fa soldi è sempre importante) e quindi si entra di diritto nel pantheon degli artisti illustri che, a loro volta, per mantenere tale popolarità, non possono fare altro che ripetere il loro stile, per renderlo riconoscibile, come una firma di successo. Mi sembra che il recente esempio del Tricolore di cartone, plastificato, l’opera d’arte commissionata ad un artista famoso e regalata ai lettori del Corriere della Sera, in pieno periodo di virus a corona, vada in questa direzione».

Parliamo dei danni, oltre a quelli morali. A che progetti stavi lavorando prima di questo isolamento, ma soprattutto prevedi che si concretizzeranno o dovranno essere abbandonati? 
«Mah, tante cose, il punto è che fuori dal mondo dell’arte, il rapporto con aziende ed enti pubblici sarà sicuramente difficile da riprendere. Già prima era arduo, figuriamoci ora, non vedranno l’ora di dire … non è il momento, ora ci sono cose più urgenti».

Intervista uscita su Exibart il 23 aprile 2020.

Intervista per Elle Decor

Quanto è importante per lei il design e come influisce nel suo lavoro?
Il design ha una cosa che l’arte non ha: la faccenda della funzione. E siccome penso che la necessità della (mia) arte venga da conflitti rispetto alla società, al contesto, alla vita, credo che i due mondi abbiano delle distanze difficilmente colmabili. Se c’è una cosa da cui non recedo è intendere l’arte come un qualcosa senza un ruolo preciso, né una funzione chiara, insomma non serve a niente di concreto se non a fare un… cortocircuito, fra il piacere e lo scoperta di certi buchi neri, fra l’immagine e la nostra mente, lampi fra idee, forme e concetti. Questo bagliore, il design, mi sa che lo vede poco. Quindi come pratica-procedimento sono lontano; certo poi ci sono gli oggetti che il design produce di cui mi servo e a cui, generalmente, cambio fine. Diciamo che in certo momenti l’arte serve al design per fargli capire che il prodotto è inutile e forse, a volte, l’arte senza il design non avrebbe idee da smontare.

In che modo le sue opere si riferiscono al mondo dell’architettura?
Per me l’architettura vuole dire casa, le case dove ho vissuto e la mia storia familiare.
Quando penso a me mi appaio in una stanza di queste case. Sono nato a Firenze, la mia parrocchia era San Lorenzo, le tombe medicee, roba bella pesante. Per chi è nato in quella città ha uno strano imprinting, non può avere un rapporto sereno con l’architettura. Nel 2000 a Bologna presi un ex dormitorio delle Ferrovie dello Stato e rinnovai le sue stanze, come un grande ambiente e nel 2003 chiamai La mia casa è la mia mente una mostra a Torino, tanto per essere chiari. Erano pezzi di pavimenti, porte, finestre e neon, anche tappeti. L’architettura per me sono stanze, stanzoni vuoti da ripensare. Un altro progetto lo chiamai Vestibolo. Insomma faccio e devo rifare in qualche modo le case dove ho vissuto e così l’architettura c’entra per forza.

Quali sono i suoi riferimenti specifici nei territori dell’interior design e dell’architettura?
Roba vecchia e luoghi dismessi. E non ho mai pensato al riuso, al dare nuova vita al vintage, la questione è molto diversa: ci sono cose, oggetti e forme che rappresentano un gusto, un tempo, un’idea e un potere. Sono nato in una famiglia borghese dove in casa c’era tutta la transizione fra Ottocento e Novecento e tutta questa faccenda si traduceva in roba con un immaginario intenso, stanze piene, sale colme di antiquariato, arte, utensili, arredi, il culto del possesso e delle belle cose: la storia dell’Occidente e della sua fine. Ho vissuto per anni come in una tomba egizia, ma da vivo. In tutte questo ci dovevo mettere le mani, ma non per il fatto che fosse interessante e bello, ma perché tutto ciò ha una forza psicologica ben diversa dalla chiarezza di oggi.

Intervista pubblicata in parte su Elle Decor il 12 marzo 2020.

Bologna la rossa

Ricalcando i frammenti della sua vita, Flavio Favelli (Firenze,1967) nel suo libro Bologna la Rossa, edito da Corraini e presentato in occasione di “Libri al Maxxi”, mescola memoria, immaginazione, giudizio e percezione. I ricordi di un’infanzia difficile si delineano insieme ad una serie di ricorrenze tragiche, edulcorate da campagne pubblicitarie promosse in parallelo.
Tra le immagini che l’artista ha pubblicato insieme ad altri oggetti più rappresentativi dei suoi momenti vissuti, leggiamo una frase scritta a mano su una cartolina di una vecchia autofficina autorizzata Fiat di Firenze: “La vita non è nulla. È solo un dissolversi d’azioni“. L’inconsueta associazione tra testo, immagini storiche, oggetti trovati tra i suoi ricordi e disegni svela il suo particolare modo di organizzare le informazioni e le relazioni tra di esse.
Le tragedie con i morti, le rovine, le macerie e le loro carcasse di lamiera colorata, coi loro paesaggi brevi e artificiali, spesso portano ricordi volontari e involontari che danzano insieme senza fine“, scrive l’artista sul suo libro, pubblicato a breve distanza dalla morte di suo padre. “Questa lunga storia, fra lui e me, si conclude mentre sto ultimando questa serie di disegni, che sono anche un po’ suoi; questa storia tragica, ma anche intensa, sempre segnata dall’arte – perché è così che in qualche modo l’abbiamo sempre intesa – è stata accompagnata da documenti con scritte, proprio come questa opera“.

Durante l’intervista l’artista racconta il suo lavoro spiegando alcuni passaggi fondamentali che hanno segnato il suo lavoro.

Donatella Giordano – Come hai strutturato il tuo libro?
Flavio Favelli – Il libro è composto da una prima parte scritta intervallata da alcuni documenti della mia famiglia. Si tratta di oggetti trovati che rappresentano un dato molto importante perché attraverso questi si capisce meglio il mio racconto. Ho scelto di pubblicare contemporaneamente anche delle foto originali dell’epoca che consistono in immagini di cronaca che descrivono alcuni episodi avvenuti dagli anni Settanta agli anni Novanta. A queste immagini ho associato quarantanove miei disegni, che in qualche modo si relazionano con questi avvenimenti. Per ogni evento, infatti, ci sono due o tre fotografie che ho associato ad alcuni disegni. Gli eventi documentati hanno tutti una rilevanza nazionale: dalla Strage dell’Italicus del 4 agosto 1974 fino al 1991 con la Banda della Uno bianca. Sono tutti avvenimenti accaduti a Bologna che hanno comportato uccisioni o morti avvenute a causa di incidenti, e proprio per questo motivo si ricordano.

D.G. – Quali sono gli avvenimenti che hai voluto citare, servendoti anche di alcune immagini provenienti da archivi storici?
F.F. – C’è una sequenza molto inquietante che inizia con la Strage dell’Italicus del 4 agosto 1974 e continua con l’uccisione di Francesco Lorusso dell’11 marzo 1977; l’incidente di Murazze di Vado del 15 aprile 1978; la Strage di Ustica del 27 giugno 1980 (l’incidente provocato da un aereo partito da Bologna e diretto a Palermo); la Strage della Stazione di Bologna del 2 agosto 1980; la Strage del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 o ancora una strage che non molti ricordano, conosciuta come la Strage del Salvemini del 6 dicembre 1990 (quando un aereo militare cadde su un istituto tecnico di Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna); la Strage del Pilastro del 4 gennaio 1991 e la Strage dell’Armeria di via Volturno del 2 maggio 1991.

D.G. – Come mai hai deciso di ricordare in questo libro tutti questi avvenimenti legandoli in questo modo alla tua storia personale?
F.F. – Li ho messi insieme perché, anche se non è semplice da dire, attraverso quegli avvenimenti io ho memorizzato numerosi dettagli di quel periodo. Nessuno oggi si ricorderebbe cosa stesse facendo l’11 settembre del 2001 se non fosse successa quella tragedia delle Torri Gemelle a New York.

D. G. – Quindi hai memorizzato questi avvenimenti e anche le situazioni che stavi vivendo in ognuno di quei momenti?
F.F. – Sì certo, ho scritto cosa pensavo e soprattutto ho raccolto gli oggetti e le immagini che avevo attorno in quel periodo.

D.G. – Come nasce l’idea di realizzare questo libro?
F.F. – Questo progetto mi è venuto in mente quando la casa editrice Corraini mi ha proposto di realizzare un Libro d’Artista. Mi è venuta subito in mente un’immagine famosa che appartiene alla storia di Bologna ma che rappresenta un fatto di rilevanza nazionale: l’immagine che riporta il luogo in cui fu ucciso a colpi di pistola lo studente Francesco Lorusso, nel marzo del 1977.  Sopra ai buchi prodotti dai colpi di pistola sul muro, oggi preservati da una teca commemorativa, si vedeva l’insegna del caffè Roversi che però, essendo stata colpita, mostrava le sole ultime tre lettere divenendo così “caffè Versi”.

D.G. – Come mail l’insegna del caffè Roversi ti ha portato alla realizzazione questa numerosa serie di immagini pubblicitarie che hai associato agli eventi storici che ci hai descritto?
F.F. – Ricordando questa immagine ho riflettuto sul fatto che ho fatto spesso questo tipo di associazioni tra immagine tragica e immagine pubblicitaria, dovuta di sicuro agli inserti propagandistici collocati di fianco alle notizie di cronaca sui giornali.
Ad esempio il rapimento di Aldo Moro mi ricorda le pubblicità del J&B, quindi tutte le volte che vedo un whisky J&B mi viene in mente questo episodio.
Oppure il manifesto della pasta Agnesi su sfondo blu mi ricorda la stazione di Bologna mezza distrutta. Ho riflettuto, attraverso un altro ricordo, sul fatto che a volte la pubblicità può essere anche considerata oltraggiosa: molti bolognesi di sicuro ricorderanno l’autobus n.37 che raccoglieva i cadaveri provocati durante la strage della Stazione di Bologna per trasportarli all’obitorio.
Originariamente, lungo le porte laterali, era stata affissa la pubblicità di una nota birra, che però era stata prontamente rimossa in quel periodo.

D.G. – Non credi che questo modo di raccontare gli avvenimenti sia un po’ bizzarro?
F.F. – Credo che io abbia prodotto queste associazioni perché all’epoca di questi avvenimenti ero un bambino. Nella mia ingenuità attribuivo alle immagini lo stesso peso. Guardavo l’immagine della prima pagina di La Repubblica che riportava l’uccisione di Aldo Moro e la pubblicità del whisky J&B allo stesso modo, probabilmente.

D.G. – Tutta la parte testuale che anticipa le immagini rivela alcuni avvenimenti legati alla tua storia personale?
F.F. – Sì assolutamente, tutta la parte scritta racconta di me, della mia famiglia e del mio rapporto con Bologna.

D.G. – Dunque si può dire che sia un libro autobiografico?
F.F. – Sì, certo. Racconto mediante me una parte di storia di Bologna. Ad ogni modo chi lo legge può pensare che sia tutto finto. Ma questo ha poca importanza. Io racconto delle cose ma non so quanto sia importante che siano delle cose realmente accaduto o meno.

D.G. – È la prima volta che scrivi un libro?
F.F. – Beh sì, così si. Per la verità su diversi cataloghi pubblicati ho scritto molti testi personali che parlano sempre di queste faccende.

D.G. – Come mai hai scelto di presentare questo libro che parla di Bologna qui al Museo Maxxi di Roma?
F.F. – Ho riscontrato che, da nord a sud, sono tante le persone legate a Bologna per un motivo o per un altro, anche con notevoli differenze di età. Molti la ricordano per via di un vecchio amore, o per la musica (da Francesco Guccini a Luca Carboni), per la politica o per il cinema.
Tutte queste cose l’hanno resa una città globale già da prima che si parlasse di globalizzazione. Ecco perché ho scelto di presentare il mio libro che parla di Bologna in varie città italiane, partendo da Roma.

Intervista pubblicata su Artribune il 12 marzo 2020.

Planisfero politico

Enrico Davoli: Esistono criteri, modalità e obiettivi a cui cerchi di essere fedele, quando realizzi opere destinate ad una visibilità pubblica, stabile nel tempo?
Flavio Favelli: L’obiettivo principale è sempre la mia poetica, ma declinata verso un’idea generale che cerca di esprimere contraddizione e conflitto perché nell’arena senza capo né coda dello spazio pubblico forse l’unica cosa da offrire è proprio la contraddizione e il conflitto in modo consapevole. In fondo la maggior parte delle altre immagini hanno un fine in qualche modo chiaro. E allora credo sia importante cercare una differenza che possa mettere in scacco tutta la faccenda. Ma sono tentativi che si devono misurare con un pubblico e una società scarica e annoiata. Credo che sia ancora importante proporre un progetto per un territorio pubblico, una città, anche se purtroppo un artista non è mai ben accolto.

ED: Il Planisfero politico di Dozza è, come tutti i tuoi lavori, frutto di un’esecuzione ragionata, mai casuale: i colori si alternano come in un patchwork, composizione ed impaginazione valorizzano al meglio il bianco della parete. Come sei arrivato a individuare, tra le molte possibili, questa soluzione pittorica?
FF: …ho spesso osservato che il contenuto delle opere d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le loro qualità formali e tecniche… (S. Freud, Il Mosè di Michelangelo, 1914). Prima parto dal soggetto che vuole dire qualcosa di preciso e poi viene il resto. Quindi i colori sono venuti dopo. E’ chiaro, come tu sai bene, che questi progetti non sono mai del tutto liberi, perché il potere, qualsiasi potere e la politica vogliono avere sempre la situazione sotto controllo. Avrei fatto un progetto su un sigillo afgano, ma era troppo scomodo, anche se di scomodo c’era solo il fatto di non volere avere grane e problemi. Se l’arte dà immagini di quieto vivere, come la pubblicità, che ruolo ha? Ho pensato, come si fa in Iran, come fanno i registi iraniani da decenni, visto che il regime non ammette critiche e temi non conformi, di seguire lo stesso metodo: lavorare sui temi classici, facili, ufficiali, ma solo in apparenza (ai guardiani quello che importa è solo l’apparenza) e così il planisfero colorato è ammesso. Anche se è un planisfero fatto a mano libera, che si prende gioco dei confini e quindi delle identità oltre che della geografia stessa e del nostro sguardo che pretendiamo sia esterno.

ED: Planisfero politico è un’opera che, in qualche modo, afferma che il mondo, così come lo conosciamo, non è un dato di fatto ma, piuttosto, un’eventualità. Le nazioni che lo compongono non rinviano né ad una situazione vista in passato, né ad un futuro anche solo lontanamente immaginabile. Di quale geografia, di quale storia parlano, questa ed altre mappe che hai realizzato nel corso della tua carriera?
FF: Mettere come soggetto una carta geografica come opera d’arte vuole dire rivederla e ripensarla e questo ad un pubblico attento dovrebbe già bastare. Di solito le mappe su muro esistono per commemorare imperi e regni, sono manifestazione di potere.
Le carte geografiche sono delle strane visioni non veritiere. Sono già delle opere concettuali perché sono proiezioni di pensieri e di idee, una grande visone astratta con l’ingenua pretesa di sollevarci per una attimo dall’avere i piedi su una terra/problema.
Un punto di vista che vorrebbe essere esterno e senza implicazioni, ma gli stati colorati del mappamondo sono segnati con i confini tracciati dalle guerre.
Planisfero politico porta agli estremi questa mia visione di quando ero bambino, dove vedevo con grande piacere gli stati colorati, non sapendo che questo piacere nascondeva delle differenze marcate e ostentate che hanno prodotto sempre violenza in nome di una superiorità. Noi siamo blu a differenza di quello vicino che è verde. Cioè il planisfero politico nasce proprio come ultra astrazione: colorare i territori per distinguerli per fare delle differenze che sono state decise da conflitti. Sarà perché sono nato a Firenze, città speciale da questo punto di vista, lì ho imparato che avere una identità precisa è una grande sciocchezza e sono stato fortunato a venire via da quel buco di città.
La geografia di cui parlo nelle opere con mappe (collage, disegni su carte geografiche trovate) che ho prodotto in questi anni è sicuramente un intreccio di contraddizioni, conflitti e rifiuto delle convenzioni.

ED: Come molti dei materiali che utilizzi nelle tue opere – dalle insegne commerciali alla pubblicità alla filatelia – anche le carte geografiche svolgono nella vita di ogni giorno un ruolo istituzionale e pedagogico, cui è difficile sottrarsi. Come ti relazioni con questa “ombra lunga” che esse proiettano?
FF: Sono ombre alla fine nefaste, sono comunque strumenti di dominio. Alla fine tutti noi giriamo il mappamondo come Chaplin, anche se pensiamo di essere liberi e istruiti scegliendo una località esotica o un “viaggio di cultura”: è un vedere dall’alto per trarne una visione più completa e più facile da possedere. E’ una proiezione in tutti i sensi che si trovano nel vocabolario. E noi italiani su questa faccenda siamo ferrati.
Fra un’espressione geografica, Marco Polo e Cristoforo Colombo (sigarette comprese) e la quarta sponda, passando per l’Impero Romano che ritorna col Fascismo sono concetti determinanti nella nostra storia e poi la Galleria delle Carte Geografiche è nei Palazzi Vaticani, producendo un corto circuito folgorante che viviamo invece come bella visita ad un museo per passare un piacevole fine settimana.

ED: Sin dalla fine dell’età antica, la nozione di “reimpiego” è molto importante, per capire come da una cosa possa nascerne un’altra: ad esempio, le epigrafi, le colonne e i capitelli romani messi in bella vista nell’architettura medievale. Il tuo reimpiego di oggetti e di immagini del recente passato novecentesco, può essere visto anch’esso come una transizione, una riscrittura?
FF: C’è sicuramente questa idea di prendere delle cose dismesse, che si trovano più facilmente perché appunto abbandonate e reiette. Alla fine la mia famiglia con la sua buona educazione mi ha sempre presentato un mondo che se è fatto di cose belle e nuove è per forza migliore. Subito dopo l’Università andavo per discariche, chiarisco subito che la faccenda ecologica non mi ha mai interessato, per trovare delle immagini cariche di significato …poetico. Le rovine industriali, i luoghi scassati per me sono stati luoghi originari dove passare dei bei momenti. Sì una riscrittura con cose passate e meno nobili, anche se poi il reimpiego di per sé non è sufficiente. La forma è alla fine importante che possa danzare col significato.

ED: Più in generale: la monumentalità, l’ufficialità, l’epos, non solo non ti intimoriscono, anzi, ti piace sfidarli sul loro stesso terreno. Come ci si sottrae alla retorica e ai luoghi comuni che spesso inquinano il dibattito pubblico su questi temi?
FF: E’ successo che l’opera Gli Angeli degli Eroi da riflessione personale e progetto di murale sia stata presa dal Ministero delle Difesa e dal Quirinale, dalla stessa figura del Presidente della Repubblica, come opera per rappresentare tutti i militari caduti del paese. E’ perciò difficile mantenere un’autonomia in un territorio dove la società è presente, quando l’arte scende in strada nessuno la legge come arte, ma in modo letterale. Ho da cinque anni un progetto per Bologna sul Nettuno di fianco Piazza Maggiore. L’hanno visto molti assessori e il sindaco e l’alta borghesia della città e forse la Soprintendenza, ma non si sa tutto è avvolto nel mistero da almeno un anno e mezzo. L’assessore alla cultura dopo avere visto il progetto mi ha detto che si potrebbe fare un concorso. Presentare un’idea di fare un’opera su un monumento preciso, quindi già un’idea inedita è sufficiente per fare mettere le mani avanti, per non fare nessuna scelta, non avere nessuna responsabilità. La storia dell’arte è una storia di scelte nette, elitarie, perché la natura stessa dell’arte è elitaria e oggi sempre più artisti, critici e politici stanno impastando l’arte con una creatività condivisa, partecipata, assembleare a carattere ecologista semplicemente perché non hanno idee, hanno paura e rimangono imbarazzati davanti a chi le ha.

ED: Molti tuoi lavori mostrano superfici riccamente texturizzate, attraversate da venature, intarsi, ideogrammi, filigrane. Cosa puoi dirci di questo repertorio ornamentale e simbolico, e dei livelli di significato al suo interno?
FF: Questo nasce dal mio immaginario che ho respirato quando ero bambino nelle case borghesi della famiglia dove l’arte, l’artigianato e gli ornamenti servivano sia per un uso concreto, sia per bellezza. Le cose deliziose in casa erano infinite con un perfetto equilibrio. I servizi per il tè e il caffè, gli argenti, gli avori, i mobili, i gioielli, le monete e i francobolli rappresentavano tutte queste virtù artigiane di ottimo gusto. Tutto l’appartamento di mio nonno era quasi una Wunderkammer, le domeniche le passavo a guardare quelle cose. Ma ho sempre sentito la grande inutilità di tutto ciò, anzi il loro lato dannoso sostanzialmente elitario anche se seduttivo. Ultimamente sono stato a Capodimonte: si esce storditi, si ha un’esperienza sofisticata. Molte mie opere sono costituite da questi materiali da pezzi originali o rifatti, copiati, falsati, interpretati. Sarebbe come ricostruire delle immagini vissute che si perdono oramai, che sono ricordi di ricordi, sono dei collages, assemblaggi, sono dei mostri di una Storia del Passato che oggi si tenta di ripensare e rilanciare col nome di lusso ed eleganza, ma è una faccenda che andrebbe ripensata. Considerando però che sono le poche cose che il mondo ci invidia, la frittata mi sembra fatta, così come lo scacchiere mondiale non è clemente: la Russia fa esercitazioni militari con la Cina in un clima da Prima Guerra Mondiale per fare paura al Giappone e agli USA; nonostante tutto siamo ancora messi così.

ED: Tornando al Planisfero politico: c’è un luogo del mondo in cui ti piacerebbe ridipingerlo, magari modificandone ulteriormente i connotati?
FF: Forse gli Stati Uniti. Sono dell’opinione che senza di loro, in fondo, si starebbe meglio, tutti starebbero meglio. Ma alla fine gli yankee siamo noi un po’ più liberati dai sensi di colpa, siamo noi realizzati nella parte bassa, sbracata, siamo noi insieme ai nostri fottuti desideri. Non a caso il mondo della cultura e dell’arte quando va a NY si sente a casa, gente che prende l’aereo per passeggiare a Central Park come se fosse in pellegrinaggio credendo di essere in un film visto venti anni prima. E senza l’America non ci sarebbe stata l’evento più delirante di tutta la storia dell’umanità: l’11 settembre 2001. Certo però avremmo perso Andy Warhol e molta arte contemporanea che ci ha fatto comprendere quanto siamo spacciati, ma a pensarci bene lo si poteva capire bene anche senza i due Elvis Presley che ci sparano in faccia.

Intervista pubblicata su Fare Decorazione il 7 gennaio 2020.

La terra dei Bronzi

Milena Becci: poche parole per presentarvi. Cos’è Catartica Care, chi siete e da quando siete attivi nel territorio calabrese? Con quale mission?
Catartica Care: Catartica è un progetto culturale nato nel 2013 a Cataforìo – piccolo borgo della Vallata del Sant’Agata nella provincia reggina – come collettivo informale di musicisti, artisti, storici e critici d’arte. Dal 2016 siamo un’associazione culturale no profit che si pone l’obiettivo di attivare nuove riflessioni tramite i linguaggi artistici contemporanei per stimolare una conoscenza attiva su varie sfaccettature, sociali e culturali, in primis legate al territorio d’appartenenza. La nostra base operativa rimane Cataforìo, riuscendo a coinvolgere gli abitanti del borgo che ci aprono sempre molto volentieri le case e gli spazi ormai abbandonati (effetto della classica spopolazione che colpisce soprattutto i paesini) per realizzare mostre, workshop, incontri e proiezioni; ma non ci poniamo confini d’azione territoriali.

Milena Becci: Panorama è il titolo del wall painting che sarà oggi presentato al pubblico di Reggio Calabria. Vuoi raccontarci a quale fatto è ispirato e qual è stata la tua esperienza personale a riguardo?
Flavio Favelli: Mia madre mi portò a vederli a Firenze nel 1981 e sui francobolli sono fra i pochi dittici, cioè due pezzi diversi uniti fra loro che ne fanno una coppia che forse ben rappresenta una specie di equilibrio, sono due santi inediti, caso più unico che raro di antichità diventata realtà. Forse nessuna città vanta questo uso così intenso su delle opere d’arte (non a caso qualche anno fa è uscito proprio un libro sulla questione che però ha il limite di ospitare testi che alla fine non vanno in fondo alla faccenda). Il fenomeno dei Bronzi è fondamentale per capire la Calabria e il Meridione e quindi è compito dell’artista operare, in ambito pubblico, sulle questioni complicate. Anche se li avrei lasciati in fondo al mare.

Milena Becci: Questo non è il primo murale che realizzi in Calabria. Cosa ti attrae di questo territorio e cosa, a tuo parere, è cambiato in ambito culturale dopo la scoperta dei Bronzi? Siamo rimasti nel dubbio espresso dal giornalista negli anni Ottanta, indeciso nel considerare le code fuori dai Musei sintomo di un risveglio culturale o di un divismo analfabeta?
Flavio Favelli: La Calabria è un fermo immagine, a volte raffinato a volte selvatico, che partecipa, non saprei in fondo perché (insieme alla Sicilia e non alle Puglie ad esempio) al mio immaginario personale. Fa parte del Viaggio in Italia che mi fece fare mia madre quando ero bambino e siccome si rivelò un’esperienza ambigua, come lo è l’idea di turismo e di viaggio anche colto, l’ambiguità genera sempre riflessioni profonde. Non so se sia cambiato qualcosa, ma il lavorare e vivere in qualche modo dei momenti in questo territorio ai confini dell’Europa per me è ricostituente. Alla fine non so se la scoperta dei Bronzi sia stata positiva, ho forti dubbi, forse non ci voleva proprio scoprire due belli come dei.

Intervista pubblicata su Exibart il 22 novembre 2019.

Eternity (Il bello inverso)

F/ART – Può parlarci di “Eternity”, l’opera al neon realizzata in occasione della mostra a Ca’ Rezzonico, “Il bello inverso”?
Flavio Favelli – I loghi e i simboli, per me che sono nato alla fine degli anni Sessanta, sono sempre stati molto presenti. La stella in particolare è una specie di talismano che attraversa tutta la storia, sacra e profana, in particolare la stella rossa oscilla fra immaginari molto diversi fra loro, dal Comunismo all’acqua San Pellegrino o alla birra Heineken. E’ un segno eterno, suadente, forse un termometro dei desideri.

F/ART – Come e quando è nato il suo interesse per il neon come materiale espressivo?
F.F. – Le scritte della pubblicità con certe figure e certi slogan mi hanno sempre attirato (Bevete!, Chiedete!, Ghiacciato!) tanto banali, quanto potenti ed irrinunciabili.
Se tutto ciò viene presentato con un filo di vetro colorato e luminoso, fatto quindi per la notte –si vede meglio al buio!- tutta la faccenda diventa molto seria. Appaiono come le scritte dei Dieci Comandamenti, sono delle sentenze visive tanto audaci quanto autorevoli. Se si vedono le cartoline di certe piazze italiane, scopriamo che erano delle vere Las Vegas, con nomi, disegni e loghi colorati, come le mille luci di New York. Tutto ciò, però, serviva a qualcosa di preciso, a scopi commerciali, certo importanti, ma se vogliamo, ovvi. Usare il neon per fare opere d’arte, sarebbe, in fondo, dare ancora di più una connotazione di merce all’arte. Se la scritta luminosa (Cinema, Ristorante, Bar, Hotel, per citare i più nobili) serve la modernità dinamica del consumo (alla fine i nomi di Istituti, Enti, Città e cosa pubbliche non usano il neon per farsi notare) questa natura “infetta” anche l’arte. Ma a volte da certe “malattie” viene forse fuori qualcosa di diverso ed inedito.

F/ART – Quali sono le caratteristiche di questo materiale che risultano più interessanti per il suo lavoro?
F.F. – Direi la sua immagine e il suo immaginario (a volte anche il suo rumore, oggi quasi scomparso), il rimandare velocemente a luoghi e significati. E’ un lavoro complesso e difficile ma con un risultato che ha a che fare con l’effimero (il gas colorato che con una polvere magica accende una linea di zucchero filato) e l’assoluta artificialità.
E’ interessante anche la sua durata, quasi eterna, ho trovato delle insegne ancora funzionanti dopo decine e decine di anni, con colori evanenscenti, quasi un battito in affanno, ma vivo. La sua fragilità.

F/ART – Come si sviluppa il suo lavoro, tra progetto creativo e realizzazione tecnica?
F.F. – Direi che sono concetti, immagini ed idee che si intrecciano. La maggior parte di opere che ho fatto col neon sono diverse riproposizioni di vecchie insegne con significati quindi nuovi. Mi piacciono anche le lettere-scatole di plastica che comunque sono illuminate da neon. Generalmente riuso, con qualche aggiunta o eliminazione, l’insegna dismessa o abbandonata. Negli Stati Uniti una birra usava un neon grande come una valigetta nella vetrine; un perimetro rosso e una scritta azzurra LITE (che si legge lait) e in piccolo in bianco “beer”. Ho tolto “beer” ed è venuto LITE che in italiano è una parola un po’ desueta, ma interessante e complessa, molto di più di una marca di birra.

Riflessioni sul murale di Cosenza (Marulla)

Come ti ho accennato nella tesi parlo di opere d’arte nello spazio pubblico e sono andata a focalizzarmi su quelli che vengono intesi come monumenti nel senso “classico” del termine. Mi hanno attirata i casi in cui la realizzazione di queste opere si è imbattuta in difficoltà tecniche o ha creato un disagio, una discrepanza nella comunità. Gran parte di questo interesse si è accentuato quando sei venuto in aula a parlarci del tuo lavoro su Marulla a Cosenza.

Flavio Favelli. Vi ho parlato anche del mio lavoro Gli angeli degli eroi?
M. Sì.
FF. Penso che quel lavoro abbia più a che fare con il tema dei monumenti, perché di fatto è stato considerato e celebrato come monumento. Il progetto originale era realizzare un murale iscrivendo i nomi dei militari italiani caduti dopo la seconda guerra mondiale, periodo che vede l’Italia in pace. E’ chiaro che non c’è nessun riferimento al “monumento”, perché storicamente i murali venivano usati anche dai regimi ed erano di propaganda, non erano dei monumenti, e soprattutto i monumenti ai caduti, prevedono generalmente l’utilizzo di cemento, ferro, bronzo o marmo. Realizzare questa lista di caduti vernice su muro esattamente come venivano fatte le pubblicità una volta o la street art oggi ha ben poco a che fare con il monumento. Dato che fu il MAXXI ad invitarmi non potevo farlo sul muro del museo, perché non avrebbe avuto senso, l’ho quindi realizzato su un pannello di legno che è poi stato esposto come opera.   E’ stato il Ministero della Difesa a prenderlo per portarlo in Piazza del Quirinale; gli hanno messo un plexiglas sopra e lo hanno trattato come un monumento, è stato celebrato da Mattarella, dai familiari delle vittime e dai militari. C’è sempre un ente che commissiona il monumento: uno stato, un comune, o un’associazione come iveterani in Vietnam o la Comunità Ebraica, di solito si è sempre fatto così e di solito c’è un bando. Ma in entrambi i casi Gli Angeli degli Eroi e Marulla sono stato io a proporre i progetti e siccome erano dedicati uno ai caduti e l’altro ad un calciatore morto, è chiaro che per una sorta di ovvietà (in un caso il Ministero della Difesa e i familiari e nell’altro caso i fan e gli ultras) l’hanno preso come monumento. E’ come se si facesse difficoltà a prendere in considerazione un’opera in sé, si deve darle un senso preciso, collettivo…
Pensiamo alla città di Bologna, l’ultimo memoriale che è stato fatto è il memoriale alla Shoah, all’angolo con la stazione dell’alta velocità, quello è stato commissionata dalla Comunità Ebraica. Quel monumento è stato pensato perché è venuta fuori una piazza che non ci doveva essere; il monumento ha sempre bisogno di un luogo importante in cui essere situato. Questo murale che voglio fare a Bologna ho provato prima a realizzarlo a Firenze, le persone vicino al sindaco mi hanno detto: “sarebbe meglio che ci fosse anche un monumento alle vittime del terrorismo”; purtroppo gli hanno dato un significato letterale e univoco. Per il murale ho chiesto di avere un muro qualsiasi, una strada di passaggio dove non è successo niente di particolare. Un grande monumento che c’è a Bologna è il Memoriale ai Partigiani realizzato sul muro della Sala Borsa. Le foto in bianco e nero sono sotto vetro e si trovano nel luogo dove furono fucilati è un monumento voluto dai parenti delle vittime e dalla cittadinanza. Propongo il mio progetto ma non ho né parenti né amici militari, la prima cosa che mi hanno chiesto quando ho incontrato il Presidente della Repubblica è stata: “ ehai fatto il militare?” e io ho risposto: “no, ho fatto l’obiettore di coscienza”. Ho voluto fare un’opera, non è un monumento ma un ricordo, è un elenco che voglio realizzare in un posto banale, non ha nessuna delle caratteristiche del monumento. Alcuni militari mi hanno chiesto: “ Ma che bello maestro perché non lo fa in una rotonda con una lapide di marmo?” è proprio quello che non voglio fare. Di solito queste lapidi sono o nei sacrari o nei cimiteri o nelle caserme o dov’è nato il fatto. Il pannello che ho esposto al Quirinale adesso è all’Altare della Patria, l’hanno portato là.
Il murale di Marulla è in un muraccio di uno stradone in periferia a Cosenza, sono stato io a voler fare l’opera lì, non c’è nessuna relazione tra la strada e Marulla, entrambi i progetti non hanno a che fare nulla con il monumento se non per il fatto che evocano un soggetto di cui di solito si occupa il monumento. Se ci pensi tutti i ricordi di Padre Pio sono le classiche statue di bronzo in scala 1:1, con le fattezze di Padre Pio​. Me lo hanno detto gli ultras, quello a Marulla è così un anti monumento che loro non lo hanno riconosciuto come opera in ricordo del loro calciatore. Il problema è che loro si aspettavano da me un monumento, secondo loro dovevo risolvergli questa mancanza; lo sbaglio è stato loro, se avessi vinto un concorso sarebbe stato tutto differente: tu vinci, fai un progetto e la famiglia, il comune e il club degli ultras decidono che quel monumento esprime per tutti il ricordo di Gigi Marulla, ma questo l’ho proposto io, loro che mi hanno investito dell’autorità per fare il momnuemto ma è stato un loro errore. Molte persone mi hanno dato torto, soprattutto nel mondo dell’arte, e mi hanno detto: “Guarda che quando sei su un muro pubblico devi capire e in qualche modo stare ad ascoltare quello che dice la gente, il popolo”. Ho sempre detto che non sono un’artista pubblico che fa arte pubblica, ma prendo le mie responsabilità. In effetti poi lo hanno cambiato, il giorno dopo hanno scritto Gigi Marulla e se io non avessi accettato queste possibilità li avrei denunciati perchè quella è una mia opera, ma invece capisco bene, siamo in una strada, quindi accolgo le proteste, accetto le conseguenze, però non accetto il fatto che io debba prendere in considerazione certi desideri della gente che considero banali. L’opera non è commissionata e quindi sono affari miei, ho chiesto al Comune di darmi un muro e loro mi hanno dato il via libera, sul muro faccio quello che mi pare se poi mi tirano le pietre le prendo, se poi mi imbrattano il lavoro la cosa mi diverte e diventa interessante, ma che io mi debba sentire in obbligo di rispettare i gusti di una cittadinanza… che poi una cittadinanza…piano…stiamo parlando degli ultras, di cui metà forse sono anche personaggi un po’ particolari… quando sono 20 persone che fanno casino spesso si crede che rappresentino tutta la città.
Io non sono interessato all’arte pubblica e quindi se non ho scelto di mostrare la faccia del calciatore è perchè volevo andare in una direzione diversa: una località come la Calabria, dove vengono venerati i bronzi di Riace come immagine guida, c’è un’idea di bellezza in quanto ideale, perfetta e cristallizzata. Il problema di questi posti è che si riferiscono alla Magna Grecia come se si riferissero ad un loro recente passato, quando in realtà stiamo parlando di 2000 anni fa; sembra che dalla Magna Grecia ad oggi non ci sia nulla. Per me al nostro paese i bronzi di Riace hanno fatto molto male, bisognava lasciarli lì, sono delle “superbellezze” ingombranti.
Quindi quando mi sono trovato a fare in quel territorio l’immagine di Marulla cosa dovevo fare? la replica? Quelle persone vogliono la semplice banale riconoscibilità, invece io ho cercato di spostare la faccenda, rispettando la mia poetica ho cercato di dare un messaggio differente. Il nostro paese ha sempre avuto bisogno di questi salvatori della patria…queste figure spirituali…come i nostri santi. Quindi ho fatto questo ricordo che rimanda solo alla figurina del Cosenza. Dopo è successo che hanno chiamato uno street artist di nome Lucamaleonte, il sindaco ha chiamato questa persona perché aggiustasse il mio errore; secondo me Lucamaleonte ha fatto una cosa veramente grave, accanto al mio murale ha fatto la copia del poster di Gigi Marulla che avevano fatto i tifosi per il suo funerale (considerando che c’era un muro di 50 metri e più). Allora che senso ha essere artisti contemporanei? Avere un proprio pensiero un proprio punto di vista se uno deve soddisfare i desideri della gente che per riconoscere il suo idolo crea delle immagini che sono venute in modo banale dalla cultura televisiva e generalista e ovvia?. Lucamaleonte realizzando questa cosa commissionata dalla volontà del sindaco, ha tradito il suo spirito di street artist, che di solito negano l’autore, firmandosi sempre con dei nomi di fantasia. In questo caso ha fatto in modo banale quello che gli chiedevano l’autorità e gli ultras, considerando che la street art si nutre ancora di parole come antagonismo e libertà e sfida le regole sociali mi sembra che lui abbia fatto una cosa molto grave per lui e il suo “club”.

M. Secondo te una delle principali caratteristiche del monumento è che venga realizzato su commissione. Per quanto riguarda Gli Angeli degli Eroi, il fatto che la gente lo abbia interpretato come un monumento non basta a renderlo tale secondo te?
FF. L’hanno interpretato come monumento innanzitutto perché la gente l’ha visto in piazza del Quirinale ed è andato Mattarella con i corazzieri a mettere i fiori; i fiori si mettono solo o dov’è morto qualcuno o davanti ad un monumento. Questa cosa de Gli Angeli degli Eroi è stata poco dibattuta perché è stata vista dal mondo dell’arte come se io avessi vinto un bando dei militari, quando invece è forse una delle prime volte in assoluto che un quadro, un’opera, viene messa su muro e vengono posati dei fiori. Non è stata una mia idea, io l’ho esposto come un quadro, un pannello dipinto, sono loro che hanno fatto tutto. Quando vai a toccare questioni come i militari morti, arriva il Ministero della Difesa che dice: “Questi sono affari nostri” . Quando feci la lista dei caduti Anna Mattirolo, la direttrice del Maxxi, mi disse che c’era una lista ufficiale, io volevo prenderla da internet, mi ha detto: “noi siamo un museo dello stato metti che che una lista non ufficiale arriva al Ministero della difesa? ”. Io non avrei chiamato, non mi interessava lavorare con il ministero, per me è un’opera d’arte per loro una glorificazione dei caduti, ma non c’entra niente. Volevo fare un’opera che facesse vedere che quando il paese è in pace ci sono dei militari che muoiono per la patria, questa cosa mi ha sempre fatto molta impressione. Quando ero ragazzo bisognava fare il militare in modo obbligatorio, io scelsi di fare l’obiettore di coscienza, e per un anno feci un’altra cosa. Come ho sempre detto, il mio lavoro nasce anche da questo rapporto ambiguo con la divisa e con la guerra, mio nonno è tornato dalla Russia, conservo questa sua foto in cui indossa una divisa. Il nostro paese ha un rapporto particolare con il mondo militare e credo che al di là di questa faccenda la questione dei militari sia sempre poco risolta.
Voglio fare un’opera che metta le cose in chiaro, vorrei spostare una consapevolezza per dire che tutta questi argomenti non devono andare nelle caserme, non devono andare nei monumenti della piazza perché quando fai un monumento, sappiamo già che viene scansato automaticamente dalla popolazione. Questo progetto che non sono ancora riuscito a fare lo voglio realizzare in una strada, mentre tu passi leggi nome, cognome Congo…1973 (ad esempio) e tu ti domandi: “cosa sarà?” Poi vai a cercare con il telefonino e ti rendi conto che questa cosa è reale, sono cittadini che per 5000 euro vanno in missione e che alcuni ci hanno rimesso le penne, sono persone che a mi hanno sempre fatto molta impressione,se vai a vedere su internet c’è anche la loro foto su Facebook.Tutta questa cosa non può essere solo una faccenda del Ministero della difesa o di quelli che amano le armi, l’esercito e l’appartenenza ad un esercito; qui non stiamo parlando dell’esercito ma della storia e della vita del paese. Quest’opera è stata presa come monumento e io l’ho permesso per il semplice fatto che era molto interessante, ogni artista permette l’interpretazione della propria opera. Io dico che non è un monumento per il semplice motivo che credo ci siano almeno tre condizioni per cui il monumento si possa definire tale: 1-dev’essere realizzato con materiali in qualche modo durevoli e nobili, 2-deve provenire da una richiesta di una commissione e non è l’idea di una persona, ci deve essere un’autorità che decide 3-dev’essere in piazza o in un luogo che ha a che fare con l’accaduto del soggetto del monumento. Nel progetto non ci sono nessuna di questi tre motivi

M. In un’intervista sulla rivista Zero dici che secondo te un artista che lavora nel pubblico non deve avere responsabilità, non ti interessa l’opinione del pubblico?
FF. Prendiamo il caso di Marulla, qualcuno ha detto: “Facciamo un incontro con la cittadinanza” è chiaro che puoi fare l’incontro con la cittadinanza per spiegare il progetto, se poi la cittadinanza dice: “Noi vogliamo fare così” …l’artista che lavoro fa? Se avessi fatto questo incontro con gli ultras loro cosa avrebbero detto? O ci fai la faccia o ci fai il numero nove e a me queste cose non piacciono, e gli avrei risposto: “No non lo faccio”. Una persona , vedendo la figurina vuota,mi ha detto che quello poteva rimandare a Matteo Bergamini, un calciatore che si diceva si fosse suicidato ma il cui caso è stato riaperto dopo molti anni perché si pensava ad un omicidio. Allora ho detto: “Vedi che questa cosa che non ti ha fatto riconoscere Marulla ti ha permesso di ricordare Bergamini? Vedi che questa cosa alla fine ha un senso?” C’è una scollatura tra la gente e la storia dell’arte moderna e contemporanea, un divario. Un po’ come nel film di Alberto Sordi “Le vacanze intelligenti” in cui lui e la moglie,, siamo ancora a quei livelli. Credo che l’arte contemporanea sia una questione elitaria, non per la gente che ha i soldi ma per la gente che ha voglia di pensare; in fondo stiamo parlando di concetti e segni visivi. Quando vado in edicola a Savigno dove vvo ci sono tra 15 e 20 giornali scandalistici che parlano sempre delle stesse cose: Belen, Corona e compagnia; non c’è praticamente nessun giornale di arte, allora perchè se faccio una cosa d’arte quelli che abitano si sentono in diritto di venirmi a dire: “Ma a me non piace”; le persone bon si interessano per una vita d’arte e pretendi di aver voce in capitolo? Spesso nelle assemblee ho fatto delle presentazioni pubbliche, è un classico, la persona alza la mano e dice: “Io non m’intendo d’arte però…”. Io non sono d’accordo che la città e la piazza siano dei cittadini, perché i cittadini (tranne qualche piccolo comitato) non sono assolutamente interessati a queste cose. Tutta la storia dell’arte in italia è stata fatta da due o tre persone, il Re, il Papa e il Sindaco, l’artista faceva quello che volevano loro, è banale oggi dire “mettiamola ai voti” , se l’arte contemporanea non viene capita e l’artista si deve mettere ai voti dovrà sempre inventarsi un’opera più commestibile per le persone, allora anche la natura dell’artista e la sua poetica verrà a patti per vincere dei concorsi.

Hic et Nunc

Carla Ingrasciotta – Quest’anno sarai protagonista in fiera con l’opera “Hic et Nunc”, una lounge creata per accogliere i visitatori ad Arte Fiera. Potresti darci qualche anticipazione rispetto a questo progetto?
Flavio Favelli – Simone Menegoi mi aveva invitato a ripensare lo spazio della Vip Lounge, ma poi, per vari problemi, abbiamo pensato ad un No Vip Lounge, come l’abbiamo chiamato in questi mesi di lavoro, un grande salotto dove potere sostare al Centro Servizi che è una specie di grande piazza coperta prima dell’accesso ai padiglioni. Hic et Nunc è in fondo una grande stanza senza tetto con una trentina di poltroncine; sarà segnalata da due insegne luminose trovate e rinnovate, una con un orologio e l’altra con le lettere originali della vecchia insegna del negozio di dischi Nannucci, famoso in tutta Italia, che trovai anni fa. La fiera è un luogo di baccano visivo e ho cercato di creare un ambiente dove si possa arrestare tutto questo insieme ad un’idea di luogo problematico, desueto e seducente allo stesso momento. Le due insegne tentano di dare un senso di città, una città vuota. Come altri ambienti, quando li penso li vedo senza presenze. In fondo creare un ambiente d’arte è creare un’opera d’arte e questa ha sempre un diverso rapporto con la realtà. Certo nell’ambiente d’arte si può abitare e ci si può sedere, ma è più una possibilità virtuale, direi un specie di scusa; anche le poltroncine sono oggetti pensati, credo di non essermi mai veramente seduto.

CI – Fiorentino di nascita, hai studiato a Bologna dove hai vissuto per 30 anni nella tua casa di Via Guerrazzi, per altro sede della tua installazione in occasione di Art City Bologna 2018. Durante tutti questi anni hai visto la città evolversi, cambiare. Come ti sembra la scena artistica attuale rispetto al tuo arrivo in città?
FF – Credo che il problema sia la città, non la scena artistica. L’arte attuale viene sempre percepita come uno svago, c’è la grande parentesi di Arte Fiera. Ci sono aziende che fanno eventi solo durante Arte Fiera, come se si avesse bisogno di una scusa per sostenere e divulgare l’arte. In questi anni per due volte è venuto il Presidente del Consiglio a Bologna per la presentazione di FICO e del nuovo SUV della Lamborghini: in nessuno dei due casi si è fatto qualche progetto d’arte d’arte, tutti sempre a parlare della nostra tradizione e del nostro passato: nella storia di questo paese –si può dire da Roma al Fascismo- l’arte del tempo ha sempre affiancato i grandi eventi della società e, tranne rare eccezioni, questa tradizione si è arrestata. L’unico sussulto l’ha dato la Street Art che però è diventata troppo presto una creatività popolare e moralista.

CI – Attualmente vivi e lavori a Savigno, un paesino sull’Appennino bolognese. In che modo questo luogo influenza la tua ricerca artistica?
FF – Savigno è una zona “bianca” rispetto alla “rossa” Emilia (ammesso che lo sia ancora). E’ un paesino chiuso, duro, dove il cibo ultimamente sembra essere l’unica salvezza. Alla fine la cosa importante è il silenzio, sia a casa sia in studio c’è molto silenzio, che permette meglio l’eco delle mie immagini, delle mie questioni poetiche.

CI – Quali sono per te le realtà artistiche più interessanti di Bologna? Quali sono i tuoi posti preferiti?
FF – Da circa 15 anni non frequento tanto realtà artistiche, dopo la fine del Link Project abitando a Savigno non “scendo“ molto spesso in città. Non frequento nemmeno locali in particolare, diciamo che ultimamente sento più la politica, come interesse e in qualche modo come impegno. La situazione attuale è veramente pesante. Oggi mercoledi 23 gennaio 2019 il giornale Libero sul web ha un titolo in prima pagina che dice: “Calano il fatturato e Pil ma aumentano i gay”. Tutto ciò è ributtante, piano piano la gente italica sta riscoprendo le sue radici, probabilmente la sua vera vocazione contro il culturame.

CI – Quali sono i progetti a cui stai attualmente lavorando?
FF – Sto lavorando ad un libro d’artista con l’editore Corraini. Si chiamerà Bologna La Rossa una serie di disegni inediti sui miei ricordi personali in relazione alle tragedie che hanno avuto luogo in città e che ho ancora bene in mente. E’ poi un progetto nel museo Ca’ Rezzonico a Venezia per il prossimo maggio. In una delle sale metterò un assemblaggio fatta coi pannelli del pavimento che per mesi ha coperto i gradini del ponte dell’Accademia. Sono consumati con bande gialle che segnavano gli scalini, lise da pedoni. Una specie di abrasione continua e quotidiana con segni e ombre in sfumatura e dissolvenza.

Intervista pubblicata su My Art Guides (gennaio 2019)

Half Dinar, un seminario di disegno con i migranti

Linda Chiaramonte, collaboratrice del quotidiano Il Manifesto, intervista Flavio Favelli sul workshop di disegno con i migranti correlato alla mostra “Half Dinar” presso EX ATR, Forlì.

LC – Com’è andata con i ragazzi del workshop?

FF – Sorprendentemente bene. Hanno partecipato con passione, alla mostra si fotografavano continuamente coi loro disegni.

LC – Alcuni dati pratici: quanti sono, da quali paesi arrivano, com’è nata l’idea, e soprattutto come si è svolto, (nel senso: al primo incontro com’è andata? hai dato loro in mano carta e matite, colori? se ti va di raccontarmi le varie fasi del lavoro fatto insieme).

FF – Erano diciotto, dalla Nigeria, Mali, Gambia, Cameroun, Guinea Bissau e Somalia. Mesi fa sono stato al Comitato per la Lotta Contro la Fame del Mondo a Forlì, centro di raccolta missionario che sostiene progetti nel Sud del mondo. Frequento il Centro da tempo, mi interessano molti materiali che selezionano con ordine; quello che di solito si butta, loro lo conservano per venderlo per sostenere i loro fini. Stavo prendendo degli specchi, quando un operatore locale ha chiesto un aiuto a dei giovani uomini africani che stazionavano al Centro. Questi, un po’ impacciati, hanno iniziato a caricare nell’auto gli specchi. Ho pensato così alle frequentissime polemiche sul cosa e come fare lavorare gli immigrati, di solito occupazioni di fatica associate a badili, scope e ramazze. Lavori sempre umili che sono oramai di pertinenza degli stranieri dei paesi poveri. Soprattutto gli africani spesso bollati come inabili e inadatti al lavoro per natura.
Ho pensato così a cosa succederebbe a dare una matita in mano a questi neri africani, che sono i meno considerati (sicuramente dei magrebini o dei medio orientali, islamici). Ho così pensato di fare un seminario-esercitazione di disegno sui soldi, uno degli oggetti più desiderato e grande veicolo di immagini. Così Città di Ebla si è messa in contatto con Dialogos e hanno trovato donne e uomini interessati a partecipare a questo seminario. Il primo giorno ci siamo conosciuti e poi hanno iniziato a disegnare, fra timori ed incertezze, copiando dalle fotocopie o dai loro smartphone, le banconote che avevano scelto.

LC – Mi ha colpito molto la frase: “con un foglio e una matita in mano siamo tutti uguali” senza differenza di razza colore ecc… mi dici qualcosa su questo?

FF – Le matite Giotto erano famose per l’illustrazione nella scatola-astuccio dove un pastorello – Giotto da ragazzo – disegnava con perferzione un agnello. L’italiano è cresciuto così, col mito del grande artista che sapeva disegnare e dipingere e da allora chiunque si trovi davanti ad un foglio bianco viene attraversato dai fantasmi che ha nelle vene – Giotto, Michelangelo, Raffaello – perché l’arte, il disegno, la pittura significa bellezza intesa come armonia. Davanti ad un foglio bianco con una matita in mano certo, siamo tutti uguali, perché sperimentiamo che il disegno, tradisce, nonostanti gli sforzi, parte di noi.

LC – Cosa ti ha restituito come artista questa esperienza? E a loro, e a noi pubblico?

FF – I paesi di loro provenienza sono paesi dove ci sono molti problemi e probabilmente molti di loro hanno avuto poco tempo per se stessi e sicuramente per disegnare.
Credo che disegnare “senza sapere disegnare” (ma è un falso problema, gli artisti fanno opere d’arte, i pittori i quadri e gli scultori le sculture) sia un grande lusso che pochi si possono permettere e penso che questo tempo prezioso passato in questo seminario sia importante perché è strappato agli obblighi martellanti della vita di oggi. Ho conosciuto persone, nonostante siano generalmnete giovani, con storie “lunghe”, complesse e drammatiche. Mi piace pensare che questi disegni portino con sé immagini e riflessi di un continente così complicato e intenso, lontano e anche dannatamente vicino.
Bisognerebbe iniziare a pensare e a comprendere che l’Africa è una nostra (lo dico da occidentale) creatura; non c’è più nulla di africano, forse qualche savana e qualche km di deserto, ma il resto, tutto ciò che concerne l’umano è stato timbrato e vidimato (marchiato?) dalla nostra parte di mondo. Ecco perché “aiutamoli a casa loro” anche se sembra un’idea ragionevole, è una banale e triste illusione. Casa loro non c’è più, c’è solo la nostra, con qualche cantina o solaio.
Per cercare di rispondere, come artista non sono mai tanto preoccupato del pubblico, per l’artista – è questo il suo ruolo – il fine è seguire le sue immagini. Che queste a volte abbiano la fortuna (o sfortuna?) di incontrare il favore delle persone, del popolo, della gente è una questione non così semplice.
Questo progetto nasce per costruire nuove immagini senza mediazioni, è una questione della mia arte e dell’arte.

LC – Come dialoga e si inserisce con il lavoro artistico svolto finora? Cosa cambia nel tuo sguardo, se lo cambia?

FF – Direi che questo tentativo di dare dei punti di vista diversi e non ortodossi alla banconota, oggetto chiave della nostra storia, è una pratica che ho intrapreso da anni. Ho fatto grandi tele, collage, incisioni sui soldi, carta (moneta) che spesso incontra l’arte.
Anni fa volevo dipingere una grande banconota (le 500.000 lire con Raffaello) su una parete di una casa abbandonata a Savigno dove abito, l’edificio apparteneva ad una fondazione legata alla Chiesa e il prete del paese non mi diede il permesso, perché l’immagine del denaro non gli piaceva. Considerando che il patrono di Savigno è San Matteo, proprio il patrono dei banchieri, mi è sembrata una bella storia da raccontare.

LC – Credi di proseguire su questa linea?

FF – Sto pensando di organizzare un altro seminario, con persone differenti, sempre con questo soggetto della banconota.

LC – Quanto al tuo lavoro, come hai spiegato la tua poetica ai ragazzi?

FF – Alla fine loro erano interessati a fare, a disegnare. Credo che l’importante per loro sia stato il poter passare dei momenti diversi rispetto alla banconota. Replicarla, copiarla, cambiarla, riformarla, è un momento creativo e di riflessione che credo sia necessario oltre che a loro a tutti in un momento di grande confusione generale.

LC – Mi potresti raccontare la storia di quel nonno somalo di uno di loro che parlava italiano? mi sono persa una parte del racconto…

FF – Afrah viene dalla Somalia, un paese instabile da decenni. Suo nonno parlava italiano perché la Somalia era colonia italianae anche dopo, nonostante l’Italia avesse perso la guerra dal 1950 al 1960 l’ONU assegnò al nostro paese l’amministrazione della ex colonia. Mi è sembrato veramente beffardo il destino di Afrah, che aspetta un documento di asilo da un Italia che ha invaso il suo paese dalla fine dell’ottocento fino al 1940 circa e che fino negli anni Settanta (!) le banconote recavano la scritta Banca Nazionale Somala.

Un seminario di disegno con i migranti

Desirée Maida – Il suo seminario verterà intorno alla banconota, intesa come oggetto veicolo di immagini e soprattutto oggetto dei desideri ed elemento indispensabile per il proprio sostentamento. Che significato assume oggi il denaro e che simbologie assume nella sua ricerca artistica (mi riferisco alla sua opera Half Dinar)? 

Flavio Favelli – Questo interesse per la banconote oltre che venire dal nonno collezionista, è una passione per le immagini perchè va detto che sulle banconote si condensa l’idea di potere di un paese e questo credo sia una faccenda molto interessante. Mi soffermo sulle immagini perchè credo che siano “belle”, ed è una bellezza ambigua e questo è un ingrediente molto importante. La banconota che dipingerò sarà un’opera che riflette le immagini e la loro complessità in rapporto alla mia psiche. Il significato letterale e sociale viene dopo e non è mai il mio primo interesse. Voglio dire che scelgo di lavorare su certe banconote perchè sono enigmatiche per loro natura e non perchè sono “i soldi”. Certo sono anche “i soldi”, ma questa è una considerazione che viene dopo.
Mi interessano le banconote degli anni 70 e 80 perché sono gli anni per me originari e perchè il mondo ha sperimentato e vissuto momenti molto intensi. Ho scritto da poco: “La banconota, soprattutto in passato quando non c’era il bancomat, è sempre stato l’oggetto più usato e maneggiato quotidianamente, come il pane, eppure è il meno conosciuto. Chi si ricorda le 10.000 lire con il busto di Andrea del Castagno in uso per quasi dieci anni? Chi ha notato le 500.000 lire con Raffaello? L’oggetto più importante e più usato è il meno ricordato e spesso ha a che fare con immagini d’arte.“
Half Dinar è un’opera straniante che parte dall’immaginario della mia esperienza.

DM – Può accennarci qualcosa su come si svolgerà il seminario? Come saranno organizzate le “lezioni”? Come immagina che sarà questa esperienza?

FF – Sono sempre in cerca di “cose” che vadano oltre l’opera e la mostra, anche se la prima per me è centrale: senza l’opera, che per me è un’immagine fissa e densa di ingredienti psicologici, non sta in piedi nulla. Allora ho pensato che in uno spazio ibrido come l’Ex Atr oltre al dipinto Half Dinar e alla scultura composizione-assemblaggio, ci poteva stare una piccola mostra di disegni dei migranti africani. Devo dire che queste due parole –migranti africani- non sono semplici da dire oggi. Non amo l’arte che ha un fine diciamo positivo e un destinatario preciso (dai cittadini alle minoranze), nè tanto meno l’arte partecipativa e nemmmeno l’arte con una preoccupazione sociale (penso che molte opere libere abbiano un significato sociale e politico molto più intenso che quelle dichiaratamente di Arte Pubblica). Detto questo un giorno mi sono trovato davanti a dei migranti africani (il fatto che abbia in qualche modo una relazione con loro è un segno) che – secondo una persona – erano poco capaci (per natura?) di lavorare. Ammesso che sapere lavorare sia una cosa assolutamente positiva, ho pensato spontaneamente che sarebbe stato interessante dare a queste persone una matita anzichè il badile o la ramazza (gli unici strumenti ammessi quando si pensa a loro). Grazie alla collaborazione con la Cooperativa Dialogos di Forlì inizieremo la settimana prossima una specie di esercitazione-seminario per cercare di fare disegnare delle banconote, quelle che loro ricordano o che usano; l’Africa ha una storia complicata e complessa sulle banconote. Alla fine il progetto è quello di avere una decina di disegni per fare una piccola mostra sulle banconote africane fatte da questi migranti che immagino ci racconteranno anche molte cose.
Credo che un’operazione del genere tocchi diverse questioni: innanzitutto scoprire e capire il loro punto di vista e poi anche cercare di comprendere un immaginario denso e molte differente. Per me artista molto distante dall’Arte Pubblica, questo progetto mira ad avere immagini inedite, (c’è un’immagine più inedita di una banconota africano disegnata da un migrante africano?) opere (se deciderò che la mostra sarà anche un mio progetto saranno opere a tutti gli effetti) che tenteranno di dare un differente punto di vista da quello che di solito si conosce dell’Africa.
È anche utile ricordare che i primi ad occuparsi in un certo modo di arte africana sono state le avanguardie artistiche (è forse questo battezzo particolare che ha dato il via alle collezioni africane nei salotti, che le ha liberate dalla patina antropologica troppo noiosa). Ma forse anche questo progetto mira a tentare di sondare il magico e il misterico africano, quello di oggi. L’immaginario e l’arte di un migrante africano sciabottato fra Terzo Mondo e Internet, fra deserto e foresta, fra campi di detenzione e CIE, fra vecchi villaggi e bidonville, fra centri di accoglienza e slums è meno vero delle maschere? Forse questo progetto è una specie di controaltare a tutta quella enorme questione delle maschere africane che ogni illuminata e benestante famiglia alto borghese occidentale ha in casa, generalmente convinta di avere uno “spirito” arcaico e originario di quella faccenda così interessante che ruota attorno alla magia e al sacro. E si potrebbe anche dire che quelle maschere vere – che c’è più vero di una maschera africana? – e originali (che si comprano alle aste e dagli antiquari) vengono da un milieu con un grado di primitivismo spesso simile a quello che si affibbia a questi africani di oggi. E allora potrebbe essere interessante mettere in relazione questi due aspetti il primo così “alto” e il secondo così “basso”.
D’altra parte ne stiamo discutendo per la prima volta con Davide Ferri e anche con Claudio Angelini: sta venendo fuori una faccenda molto seria che mette in relazione molte cose. E forse scopriremo che uno del Mali è anche un Dogon.