Hic et Nunc

Carla Ingrasciotta – Quest’anno sarai protagonista in fiera con l’opera “Hic et Nunc”, una lounge creata per accogliere i visitatori ad Arte Fiera. Potresti darci qualche anticipazione rispetto a questo progetto?
Flavio Favelli – Simone Menegoi mi aveva invitato a ripensare lo spazio della Vip Lounge, ma poi, per vari problemi, abbiamo pensato ad un No Vip Lounge, come l’abbiamo chiamato in questi mesi di lavoro, un grande salotto dove potere sostare al Centro Servizi che è una specie di grande piazza coperta prima dell’accesso ai padiglioni. Hic et Nunc è in fondo una grande stanza senza tetto con una trentina di poltroncine; sarà segnalata da due insegne luminose trovate e rinnovate, una con un orologio e l’altra con le lettere originali della vecchia insegna del negozio di dischi Nannucci, famoso in tutta Italia, che trovai anni fa. La fiera è un luogo di baccano visivo e ho cercato di creare un ambiente dove si possa arrestare tutto questo insieme ad un’idea di luogo problematico, desueto e seducente allo stesso momento. Le due insegne tentano di dare un senso di città, una città vuota. Come altri ambienti, quando li penso li vedo senza presenze. In fondo creare un ambiente d’arte è creare un’opera d’arte e questa ha sempre un diverso rapporto con la realtà. Certo nell’ambiente d’arte si può abitare e ci si può sedere, ma è più una possibilità virtuale, direi un specie di scusa; anche le poltroncine sono oggetti pensati, credo di non essermi mai veramente seduto.

CI – Fiorentino di nascita, hai studiato a Bologna dove hai vissuto per 30 anni nella tua casa di Via Guerrazzi, per altro sede della tua installazione in occasione di Art City Bologna 2018. Durante tutti questi anni hai visto la città evolversi, cambiare. Come ti sembra la scena artistica attuale rispetto al tuo arrivo in città?
FF – Credo che il problema sia la città, non la scena artistica. L’arte attuale viene sempre percepita come uno svago, c’è la grande parentesi di Arte Fiera. Ci sono aziende che fanno eventi solo durante Arte Fiera, come se si avesse bisogno di una scusa per sostenere e divulgare l’arte. In questi anni per due volte è venuto il Presidente del Consiglio a Bologna per la presentazione di FICO e del nuovo SUV della Lamborghini: in nessuno dei due casi si è fatto qualche progetto d’arte d’arte, tutti sempre a parlare della nostra tradizione e del nostro passato: nella storia di questo paese –si può dire da Roma al Fascismo- l’arte del tempo ha sempre affiancato i grandi eventi della società e, tranne rare eccezioni, questa tradizione si è arrestata. L’unico sussulto l’ha dato la Street Art che però è diventata troppo presto una creatività popolare e moralista.

CI – Attualmente vivi e lavori a Savigno, un paesino sull’Appennino bolognese. In che modo questo luogo influenza la tua ricerca artistica?
FF – Savigno è una zona “bianca” rispetto alla “rossa” Emilia (ammesso che lo sia ancora). E’ un paesino chiuso, duro, dove il cibo ultimamente sembra essere l’unica salvezza. Alla fine la cosa importante è il silenzio, sia a casa sia in studio c’è molto silenzio, che permette meglio l’eco delle mie immagini, delle mie questioni poetiche.

CI – Quali sono per te le realtà artistiche più interessanti di Bologna? Quali sono i tuoi posti preferiti?
FF – Da circa 15 anni non frequento tanto realtà artistiche, dopo la fine del Link Project abitando a Savigno non “scendo“ molto spesso in città. Non frequento nemmeno locali in particolare, diciamo che ultimamente sento più la politica, come interesse e in qualche modo come impegno. La situazione attuale è veramente pesante. Oggi mercoledi 23 gennaio 2019 il giornale Libero sul web ha un titolo in prima pagina che dice: “Calano il fatturato e Pil ma aumentano i gay”. Tutto ciò è ributtante, piano piano la gente italica sta riscoprendo le sue radici, probabilmente la sua vera vocazione contro il culturame.

CI – Quali sono i progetti a cui stai attualmente lavorando?
FF – Sto lavorando ad un libro d’artista con l’editore Corraini. Si chiamerà Bologna La Rossa una serie di disegni inediti sui miei ricordi personali in relazione alle tragedie che hanno avuto luogo in città e che ho ancora bene in mente. E’ poi un progetto nel museo Ca’ Rezzonico a Venezia per il prossimo maggio. In una delle sale metterò un assemblaggio fatta coi pannelli del pavimento che per mesi ha coperto i gradini del ponte dell’Accademia. Sono consumati con bande gialle che segnavano gli scalini, lise da pedoni. Una specie di abrasione continua e quotidiana con segni e ombre in sfumatura e dissolvenza.

Intervista pubblicata su My Art Guides (gennaio 2019)