Quanto è importante per lei il design e come influisce nel suo lavoro?
Il design ha una cosa che l’arte non ha: la faccenda della funzione. E siccome penso che la necessità della (mia) arte venga da conflitti rispetto alla società, al contesto, alla vita, credo che i due mondi abbiano delle distanze difficilmente colmabili. Se c’è una cosa da cui non recedo è intendere l’arte come un qualcosa senza un ruolo preciso, né una funzione chiara, insomma non serve a niente di concreto se non a fare un… cortocircuito, fra il piacere e lo scoperta di certi buchi neri, fra l’immagine e la nostra mente, lampi fra idee, forme e concetti. Questo bagliore, il design, mi sa che lo vede poco. Quindi come pratica-procedimento sono lontano; certo poi ci sono gli oggetti che il design produce di cui mi servo e a cui, generalmente, cambio fine. Diciamo che in certo momenti l’arte serve al design per fargli capire che il prodotto è inutile e forse, a volte, l’arte senza il design non avrebbe idee da smontare.
In che modo le sue opere si riferiscono al mondo dell’architettura?
Per me l’architettura vuole dire casa, le case dove ho vissuto e la mia storia familiare.
Quando penso a me mi appaio in una stanza di queste case. Sono nato a Firenze, la mia parrocchia era San Lorenzo, le tombe medicee, roba bella pesante. Per chi è nato in quella città ha uno strano imprinting, non può avere un rapporto sereno con l’architettura. Nel 2000 a Bologna presi un ex dormitorio delle Ferrovie dello Stato e rinnovai le sue stanze, come un grande ambiente e nel 2003 chiamai La mia casa è la mia mente una mostra a Torino, tanto per essere chiari. Erano pezzi di pavimenti, porte, finestre e neon, anche tappeti. L’architettura per me sono stanze, stanzoni vuoti da ripensare. Un altro progetto lo chiamai Vestibolo. Insomma faccio e devo rifare in qualche modo le case dove ho vissuto e così l’architettura c’entra per forza.
Quali sono i suoi riferimenti specifici nei territori dell’interior design e dell’architettura?
Roba vecchia e luoghi dismessi. E non ho mai pensato al riuso, al dare nuova vita al vintage, la questione è molto diversa: ci sono cose, oggetti e forme che rappresentano un gusto, un tempo, un’idea e un potere. Sono nato in una famiglia borghese dove in casa c’era tutta la transizione fra Ottocento e Novecento e tutta questa faccenda si traduceva in roba con un immaginario intenso, stanze piene, sale colme di antiquariato, arte, utensili, arredi, il culto del possesso e delle belle cose: la storia dell’Occidente e della sua fine. Ho vissuto per anni come in una tomba egizia, ma da vivo. In tutte questo ci dovevo mettere le mani, ma non per il fatto che fosse interessante e bello, ma perché tutto ciò ha una forza psicologica ben diversa dalla chiarezza di oggi.
Intervista pubblicata in parte su Elle Decor il 12 marzo 2020.