Il soggetto e le singolarità nell’arte

APPROFONDIMENTI / SPECIALE ARTE PUBBLICA

Un po’ di tempo fa Flavio Favelli mi segnala un suo testo su Sentimiento Nuevo (a cura di Davide Ferri e Antonio Grulli, edizioni MAMbo), antologia che raccoglie interventi tenuti nel 2013 durante un seminario nel museo bolognese. Favelli mi dice che ha preso una posizione molto netta sull’Arte Pubblica, «facendo anche nomi e cognomi». Lo leggo e penso che sia il caso di approfondire la questione, non solo perché condivido in parte alcune sue obiezioni, ma anche perché Favelli è un artista che lavora anche nello spazio pubblico e dunque la cosa si fa più interessante. Decido di mettere a confronto le sue tesi con quelle di un curatore molto attivo in questo campo, Marco Scotini. Flavio mi chiede di “entrare” nel dialogo e che sia io a rivolgere delle domande ad entrambi. Ecco il risultato di questo confronto, in cui entrano in gioco non solo riferimenti teorici, ma anche vissuti personali. Un vis-à-vis molto intenso, e a volte anche aspro (Adriana Polveroni, direttrice di Exibart).

Flavio Favelli: «Mi occupo di ciò che mi rapisce e che mi provoca piacere. E quello che mi rapisce è il rapporto fra gli oggetti che ho visto, gli ambienti dove ho vissuto e le immagini della mia mente. È un rapporto sicuramente non libero, incestuoso e ambiguo, ma mi provoca uno stato di forte eccitazione»

Marco Scotini: «L’idea di un’arte del soggetto è stata quella borghese e non potrà più essere tale. A meno che quest’idea si voglia forzare dentro un sistema neofeudale, come quello attuale, che cerca di ristabilire i soggetti e le procedure della vecchia arte. Al costo di investimenti finanziari e forme repressive ufficiali»

Flavio Favelli: «Ho dei sospetti quando sento artisti che operano per la società, per l’altro, per il pubblico. Si mira anche alla de-soggettivazione, una specie di fioretto per arrivare poi alla redenzione. Si tirano fuori virtù da catechismo che mirano alla figura dell’artista come intellettuale austero d’avanguardia, che sta sulla barricata tanto cara a certi ambienti di salotto. Che rifiuta l’essere autore e l’aureola dell’opera. Si de-soggettivizza il Maestro, ma non il conto corrente»

Marco Scotini: «Quando pensiamo a una nuova Arte Pubblica, questa non è più vincolata all’idea dello Stato e neppure all’idea di popolo che l’ha accompagnata. Allora, possiamo parlare di un’arte delle singolarità piuttosto che di un’arte della de-soggettivazione»

Marco Scotini: «Non c’è un’estetica scorporabile dal politico. La grande eredità di Kant non sta nel tenere separati gli ambiti della fisica, dell’etica e dell’estetica (cosa irriproponibile), ma di fare dell’estetica, delle sue regole facoltative, la chiave di volta della costruzione delle soggettività. È, in sostanza, la cura del sé»

A.P.: Le vostre posizioni rivelano due idee dell’arte radicalmente antitetiche che cerco di presentare attingendo da vostri testi e opere. E che sintetizzo così: una, quella di Favelli, che rivendica la singolarità e addirittura l’autoreferenzialità dell’arte. E l’altra, quella di Scotini, che invece si basa su un assunto plurale: i “Molti”, come fondamento di un’arte nella sfera pubblica. La prima domanda è obbligata: perché secondo te, Flavio, l’arte è privata?

Flavio Favelli: «Credo di non potere uscire dalla mia esistenza, posso parlare solo per me, anche se nessuno vive in una torre d’avorio. Posso dire che lo scomporre, il ricomporre, il mettere insieme, distruggere e ricostruire fanno parte di una pratica quasi quotidiana, perché prima è psicologica e poi artistica. Distruggere il passato al fine di preservarlo (1) è un processo che mi sta accompagnando da tanto tempo. Ho iniziato da bambino, ho iniziato con raccogliere i cocci, perchè qualcosa si era rotto. E il soggetto sono gli oggetti che sono eterni e che hanno un forte potere. Certo che è finito tutto da un pezzo, ma io credo ancora nell’opera, che non sempre è distinta dall’oggetto, già il mio sguardo sull’oggetto è una fase dell’opera. Oggi si vuole ancora di più mettere in crisi l’opera, ma solo perchè non si riesce più a vederla o non la si vuole vedere o perché non si è più capaci. Anche quando ho creato ambienti per un pubblico e una funzione, il mio primo proposito è stato sempre quello della mia esigenza personale, che è quella di indagare il mio passato perchè provoca in me piacere. Mi occupo di ciò che mi rapisce e che mi provoca piacere. E quello che mi rapisce è il rapporto fra gli oggetti che ho visto, gli ambienti dove ho vissuto e le immagini della mia mente. Oggetti che hanno un destino eterno diversamente da me. È un rapporto sicuramente non libero, incestuoso e ambiguo, ma mi provoca uno stato di forte eccitazione. È un piacere anche complesso, doloroso ed dolcissimo allo stesso momento. Investe la mente e il corpo e allaga la psiche. Ho l’impressione che suoni riprovevole provare piacere, sembrerebbe anzi un tabù dell’arte. Per cui ho dei sospetti quando sento artisti che operano per la società, per l’altro, per il pubblico. Si mira anche alla de-soggettivazione, che potrebbe essere vista come una specie di fioretto per arrivare poi alla redenzione. Sono propositi alti, nobili, ideali, ma ideologici e contradditori. Si tirano fuori virtù da catechismo che mirano alla figura dell’artista come un intellettuale austero d’avanguardia, che sta sulla barricata tanto cara a certi ambienti di salotto, che rifiuta l’essere autore e l’aureola dell’opera, ma nello stesso momento vuole la scena e mai si oppone al mercato. Si de-soggettivizza il Maestro, ma non il conto corrente. In una ultima intervista che ho letto l’artista Gian Maria Tosatti che sentenzia: “Non sarebbe errato, quindi, dire che il mio lavoro non consiste nel fare opere, ma nel farle generare da ogni individuo”. (2) Sparisce l’autore, l’artista è solo un mezzo, una specie di martire che immola la sua opera per il prossimo, quasi una transustanziazione. Ma questo è Cristo e credo che non ci sia posto per Cristo nell’arte contemporanea che è incarnata col potere, l’economia, col Nemico, con una visione del mondo che è piramidale. Il momento della creazione dell’opera per me è devastante, è lo scontro fra i mondi della mia mente; gli “effetti visivi” che molti artisti rigettano sono essenziali, fondamentali. Passare il tempo con gli oggetti è vitale, anche se sono imprendibili».

Come reagisci, Marco, a questa idea di privatezza ma, direi di più, a questa rivendicazione forte della soggettività?

Marco Scotini: «L’idea di Flavio non è sbagliata per principio, è solo un po’ ‘tolemaica’, cioè storicamente arretrata. Come in tutti i grandi periodi di trasformazione possono continuare a esserci delle sopravvivenze. Che intendo dire? Che l’arte e la cultura sono sempre produzioni storicamente determinate e il concetto di un’arte del soggetto, di un’arte “interiore” (psicologica e privata), ha fatto il suo tempo. Ha accompagnato l’ascesa e il declino di una classe sociale precisa. Se ci interessa ancora l’arte come vettore di libertà, desiderio e innovazione non potremo più pensarla come “interiorità”. Da un lato: cos’è l’interiorità al tempo di Facebook e di Twitter? Dall’altro: non si vorrà per caso pensare che l’introduzione dei mercati finanziari nell’economia artistica abbia a che fare con l’arte in un senso strutturale? L’idea di un’arte del soggetto è stata quella borghese e non potrà più essere tale. A meno che quest’idea si voglia forzare dentro un sistema neofeudale come quello attuale che cerca di ristabilire i soggetti e le procedure della vecchia arte al costo di investimenti finanziari e forme repressive ufficiali. I van Gogh e gli Artaud (vere essenze di quell’idea) non possono più esserci, ma neppure c’erano al tempo di Leonardo o Simone Martini. Il problema non è solo quello del soggetto-artista ma di tutte le istituzioni che attorno gli sono state create. Queste funzioni oggi (come il museo, ecc.) sono integrate e non costituiscono un problema per nessuno. Anzi potremmo dire l’opposto. Se mai separano le funzioni intellettuali e creative dai loro concatenamenti, le interrompono dalla propria sperimentazione, le sottraggono all’immanenza della composizione sociale per iscriverle nella valorizzazione e nel controllo esercitati dall’industria culturale. Allora che cos’è un’arte “dei e per” i molti? Non dunque un’arte per il popolo o un’arte sociale, ma un’arte dei molti. Potremo pensarla ancora dentro il suo schema occidentale e moderno? Le tradizioni dell’arte africana, quelle islamiche, quelle oceaniche come ci appaiono oggi? Queste culture ormai dislocate, le dovremo continuare a ricondurre, come Picasso, alla dimensione del soggetto? Oppure c’è dell’altro a venire?».

Un’altra critica che Favelli fa all’Arte Pubblica è rivolta al “dogma” del site specific. Ce la puoi esporre?

F.F: «Oramai nei comunicati stampa appare questa specie di sigillo sinonimo di qualità: appositamente realizzato per l’occasione. Insinuando quasi la superiorità di questo tipo di opere dalle altre progettate senza contesto. Insomma, se non si realizza per l’occasione, per l’ambito e per il luogo, l’opera non è così interessante. Questo vuole dire che non si vuole più credere nell’opera, vista solo come un monolite, avulso dal milieu, che è il solo che può darle vita. Si cerca di “attivare” l’opera, renderla fruibile, renderla partecipata. Ma questa per me è superficialità. Pochi oramai parlano dell’opera. C’è anche chi esorta a fare opere più comprensibili. Mi sono accorto che ho creato molte opere che non ho mai esposto, che ho raccolto molto materiale che giace ancora nei miei spazi, che per me sono delle anticamere, che contengono, come in una tomba egizia, molte immagini che oscillano fra la mia mente e questa specie di archivi. È fortissima l’ambizione di esporre al pubblico, ma è un pubblico che non è un fine, ma solo un mezzo che forse ha solo la funzione di decretare la fine della vita dell’opera, ma solo perchè ne sto già pensando un’altra. Il pubblico serve per fare il funerale all’opera. Gli oggetti sono eterni, non come le opere. L’opera è un oggetto trasformato che è depositaria di un enorme potenziale metaforico e immaginale e le metafore sono più grandi della realtà. Oggi si preferisce guardare oltre, attorno e con intenti sociali, perchè il site specific è sempre legato comunque ad un fine propositivo, come ad esempio di chi vuole Dio nell’arte. L’arte è estranea ai bisogni. È un pensiero fortemente tradizionale pensare che l’arte abbia un significato positivo, viene in mente Tolstoj…Il Vaso di Pandora dell’arte contemporanea, per dirla con Mario Perniola, è arte, meta-arte, antiarte insieme, chi vuole portare questo mondo in una direzione impegnata va fuori tema».

Qual è invece per te, Marco, il senso del “site specific”? 

M.S.: «Come sai, Adriana, negli ultimi anni, abbiamo cercato di integrare e trasformare questa importante idea. Abbiamo cercato di estenderla a tutte le latitudini. Con i miei amici l’abbiamo definita prima “audience specific”, poi “fight specific”. Non potendoci più ancorare a un luogo fisico, sono apparse all’orizzonte queste moltitudini contestuali che sono state la vera innovazione culturale, sociale e linguistica. Le abbiamo identificate come il vero produttore e ricettore di un’arte in senso nuovo. Queste moltitudini si sono trovate assieme per la prima volta nella storia: non le legava più un territorio, una religione, un’ideologia politica. In un’accezione inattesa ci hanno insegnato a ridefinire lo spazio, a vivere il tempo, ad inventare nuove relazioni sociali, semiotiche e culturali. Altro che artisti: questo general intellect era un super-artista collettivo, plurale, a n facce, a n corpi, a n voci, a n sguardi. Ci sembrava incatturabile. Ora stanno cercando di bloccarlo con tutti i mezzi. Ma non ce la faranno».

Come abbiamo visto, Flavio critica anche un altro cardine dell’arte realizzata con una tensione pubblica: la “de-soggettivazione”. Ne parla a proposito della posizione assunta da Gian Maria Tosatti e da Claire Fontane. A prima vista la “de-soggettivazione” sembrerebbe sposarsi all’idea dei “Molti” di Marco che evidentemente va oltre il criterio della soggettività. Ce la puoi spiegare, Marco?

M.S.: «Che vuol dire oggi farsi riconoscere, essere soggetti identificabili? Fare la spalliera della sedia alla maniera di Philippe Stark piuttosto che secondo il look Ron Arad? Tutta questa idea dello stile l’ha liquidata (e molto in fretta) il design e il fashion brand. Per il resto c’è in cantiere tutta un’altra idea di pensare noi stessi che non passa più per il soggetto moderno. Abbiamo parlato di soggettività che è qualcosa di totalmente differente. L’identità oggi è buona solo per i dispositivi biometrici di controllo e di sicurezza. Quando pensiamo a una nuova Arte Pubblica, questa non è più vincolata all’idea dello stato e neppure all’idea di popolo che l’ha accompagnata. Allora, possiamo parlare di un’arte delle singolarità piuttosto che a un’arte della de-soggettivazione. Comunque quest’arte è de-soggettivizzatta, se è vero che si è sbarazzata del soggetto (con i suoi doveri moderni, di essere sempre uguale a se stesso). Ma questo non vuol dire che è un’arte inqualificata e inqualificabile. Tutt’altro. È un’arte delle singolarità».

Flavio attacca anche una certa pratica artistica, oggi piuttosto in voga, che si riassume nella “citazione”. “Molti artisti oggi – scrive in La rivoluzione dei megafoni (Sentimiento Nuevo) – sono quasi studiosi, ricercatori, esploratori e viaggiatori, non più autori. Sono meri traduttori: danno voce e nemmeno la loro”. Che cosa pensi di questa pratica, Marco?

M.S.: «Oggi l’artista si è trasformato nello storico (Narkevičius o Zaatari), in geografo (gli Atlanti Eclettici), in ricercatore che lavora con gli archivi. Lo sfondo di molta parte del dibattito recente sulle relazioni tra arte e politica corrisponde all’erosione dell’orizzonte utopistico dell’arte, su cui era fondato il suo potere di generare contro-concetti. Il potere dell’arte sta nella capacità di immaginare cose in maniera diversa, nella sovversione e trasgressione dei confini di una modernità disciplinare. Sotto i parametri del regime disciplinare, l’immaginazione utopistica era alimentata dalle idee di trasgressione, sovversione ed emancipazione fondate su di un “fuori” e un “oltre”. Queste idee hanno formato un’economia dell’immaginario, che fondeva immaginazione creativa e istanze politiche emancipatorie. Oggi, al contrario, dobbiamo re-immaginare ogni cosa in ogni campo».

Un problema che mi pare sotteso all’intervento di Favelli riportato in Sentimiento Nuevo è di ordine esperenziale. E mi spiego: Flavio non accetta la posizione, in questo caso espressa da Lara Favaretto, secondo cui la vera arte è quella che “innesca dubbi e discussioni”. Mentre tutta l’altra sarebbe pressoché inutile. Intanto, Marco, vorrei conoscere la tua posizione a questo proposito.

M.S.: «Qui siamo ancora in un terreno moderno. È chiaro che Godard è un artista perché s’interroga in ogni lavoro su cos’è il cinema. Ma questo era possibile perché c’era il cinema classico che, in un certo senso, decostruisce. Ma oggi quali sono le nostre istituzioni? Come fa Hito Steyerl, il filmmaker è attento alle classi di immagini in circolazione (immagini ricche, immagini povere), alla loro velocità di circolazione, fuori dell’istituzione. Quelle immagini che tutti noi produciamo ogni giorno e riceviamo ogni giorno: sul cellulare, l’Ipad, you tube. Interveniamo su ciò in cui ognuno (dal Cairo a Roma) lavora ogni giorno. Ecco ancora quest’Arte Pubblica del general intellect».

Flavio rivendica “l’esperienza reale, la vicenda vissuta”. L’arte ha bisogno di poggiare su un’esperienza reale che è necessariamente privata. Anche Scotini rivendica in qualche modo il carattere esperenziale dell’arte, ma spostando il soggetto dall’uno ai Molti, scardina di fatto l’idea stessa di esperienza. È così?

M.S.: «Se vogliamo con ciò intendere un’esperienza contemplativa, sì: non è più così. Già Benjamin parlava della “percezione distratta”. L’intensità c’è ancora, ne abbiamo più bisogno che mai. Ma questa non passa con l’interiorità. Ero qualche giorno fa a Istanbul con Vasif Kortun (il direttore di Salt) e mi diceva della grande intensità provata da tutti con Gezi Park. “Una comune di pochi giorni” mi diceva Vasif».

Inoltre, a questa idea di esperienza plurale Marco lega una possibilità (quasi “forte” direi) dell’estetica: “l’essere contemporaneo, sganciato da tutte le forme di determinismo che lo collegavano ad ambiti di appartenenza, è chiamato ad autodefinirsi e a negoziare la propria individualità attraverso regole facoltative”. Quindi, sintetizzando molto, compie un’azione estetica. Dove si recupera, se si recupera per te, Flavio, la possibilità estetica? Te lo chiedo perché facilmente si sarebbe portati a pensare che un’arte singolare, privata si ponga il problema estetico.

F.F.: «Forse posso dire che non mi pongo un problema estetico, ma una questione che viene prima di quello estetica, quella esistenziale. Ma voglio essere ancora più chiaro: il mio problema è del significato, cioè voglio ricostruire tutte le immagini che ho creato spontaneamente nel mio passato, quando non avevo consapevolezza artistica, per il semplice motivo che amo solo quelle e vogliono dire per me tanto. Mi seducono perché hanno un sapore diverso. E allora vuole dire proporre e riproporre cose nuove per fare vivere meglio le vecchie e respirarle. E quando le respiro a pieni polmoni sono semplicemente più felice e in quei momenti potrei anche morire. Certo è una felicità effimera, ma è la mia grazia in una specie di eterno ritorno».

A Marco chiedo di esprimere meglio questa idea estetica dell’arte nella sfera pubblica, che evidentemente va oltre i criteri kantiani.

M.S.: «L’estetico appunto. È una parola nuova e straordinaria per comprendere l’attualità. Io ripeto sempre che la contemporaneità è una produzione estetica. Qualche tempo fa si diceva con Gerald Raunig che tutti i pensatori della modernità partivano dalla politica per arrivare all’estetica. Il primo è stato Kant: la Critica del giudizio è l’ultima. Questo vale anche per Sartre, per Adorno, per tutti gli altri. Per noi oggi è diverso. Non c’è un’estetica scorporabile dal politico. In che senso? La grande eredità di Kant non sta nel tenere separati gli ambiti della fisica, dell’etica e dell’estetica (cosa irriproponibile), ma di fare dell’estetica, delle sue regole facoltative, la chiave di volta della costruzione delle soggettività. È, in sostanza, la cura del sé e l’ultimo Foucault ce l’ha insegnato. Da allora se esistono nuove soggettività, esistono a patto di essere una costruzione estetica, una sperimentazione, un’innovazione».

NOTE:
(1) Chris Sharp, Non proprio come me lo ricordavo, in Flavio Favelli, a cura di Alberto Salvadori, Mousse Poublishing, 2013
(2) Gian Maria Tosatti, intervista, Artribune (2013)