L’artista non si laurea

A poche settimane dalla notizie del diploma honoris causa allo chef Massimo Bottura conferito dall’Accademia di Belle Arti di Carrara (Bottura aveva già avuto una laurea ad honorem in Scienze Aziendali dall’Università di Bologna nel 2017) e della nomina di professore onorario all’artista Maurizio Cattelan (già dottore in Sociologia nel 2004 elargita dall’Università di Trento) c’è stato il massimo riconoscimento in Scienze Storiche e Orientalistiche a Christian Boltanski nell’Aula Magna in Santa Lucia. Nel suo discorso da appena laureato, l’artista francese ha detto molte cose che spesso marcano la distanza fra il mondo dell’arte e quello accademico. Ha parlato di infanzia, di un tempo passato, di tragedie, di guerra in un sottofondo di attesa e tenue speranza. Ha raccontato del suo essere vecchio e del tempo inesorabile che passa. Come gli artisti consapevoli, Boltanski ha detto cose che un accademico non avrebbe detto, ed espresso in un tono -senza emozione – composto e fermo, con un lieve distacco, autorevole, il suo punto di vista personale -solo gli artisti ideologici pensano di non essere autobiografici-. Sembrava come se stesse parlando un capo pellerossa davanti ad un senato di giubbe blu.
Perché mai l’artista avrebbe bisogno di essere dotto(re)? Perchè mai avrebbe bisogno di un titolo, di una pergamena? Verrebbe capito e compreso meglio dalla società? Ma che se ne fa della corona di lauro, che è un segno che sta di casa sulle medaglie, sugli obelischi, stemmi e blasoni? E perchè mai dovrebbe sentirsi a suo agio in una istituzione che si chiama Alma Mater? Qualche artista ha mai avuto un rapporto regolare con la famiglia? Boltanski è Dottore in Storia (e non in arte) non perchè la sappia (e sicuramente la sa), ma perchè è un interprete della storia. Questo cambio di status, – l’artista è dotto in storia, non in arte -, permette forse all’istituzione di riuscire a comprendere un ambito più consono.
Si è avuto comunque l’impressione che l’artista con la toga, la stessa indossata da tanti eccellenti professori e professionisti, saggi, dottori e imprenditori che fanno viaggiare il mondo solo a diritto e dalla parte lucida, non sia un’immagine adeguata.
Il giorno prima Boltanski si è incontrato, all’Accademia di Belle Arti, con monsignor Matteo Zuppi nel tentativo di dialogare, di accostare fede, ricerca e arte. Anche se l’artista non ha fede e non ha titoli di studio, ogni tanto le istituzioni cercano un contatto, quando credono che l’arte si stia avvicinando ai loro valori e riferimenti. Starebbe forse all’artista marcare la distanza e a volte declinare l’invito, perchè è forse solo con la divergenza che si possono capire a fondo certe cose.

Lo sciamano

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Il Resto del Carlino giorni fa chiudeva la notizia sugli eventi di Boltanski con un Appuntamenti imperdibili per gli amanti dell’arte contemporanea, nei prossimi mesi protagonista principale… È interessante perché ci dice il punto di vista di un giornale popolare, della gente, sulla questione dell’arte contemporanea che riguarda un artista riconoscibile e non difficile da comprendere. Il tema delle sue opere sembrerebbe chiaro: cerca di preservare il tempo e il ricordo, pratica italiana, fra l’altro, assai comune: non si conservano le ricette culinarie della tradizione, che sono la memoria del territorio e della nostra identità? Eppure questa precisazione che è un evento imperdibile solo per certi palati è degna di nota. Le opere di Boltanski, le sue grandi accumulazioni ordinate, che hanno le radici nella Seconda Guerra Mondiale e nella Shoah, sono esplicite. I fiori recisi della mostra di Villa delle Rose sono simili a quelli che troviamo in Certosa, le installazioni con le lampade-lumino che ricordano i cimiteri, sono operazioni tanto dense quanto poetiche e semplici perché hanno una cifra formale riconoscibile e condivisa. Nelle sue opere, di un perenne bianco e nero, come le foto dei ritratti dei documenti, dei medaglioncini delle ceramiche delle tombe e dei sacrari delle grandi guerre, non ci sono forme ostiche o respingenti. In una recente intervista dice, con un tono un po’ ieratico tipico degli artisti che si sentono in qualche modo vicini al sacro – non sono un artista di oggi: lavoro sulla morte e alla fine ne sono meno spaventato. E ancora: … Non mi sento moderno. Uso un linguaggio di oggi, ma mi pongo domande antiche. In un altro tipo di società, sarei uno sciamano. Trova noioso il mondo dell’arte contemporanea. Usa immagini semplici e immediate ed essendo non moderno (il popolo per sua natura non capisce mai in arte le cose moderne, figuriamoci quelle contemporanee) la sua arte dovrebbe essere popolare. Non è popolare invece, perché ce lo dice il Carlino che è un giornale popolare che parla della sua arte come di un appuntamento imperdibile non per la gente, ma per gli amanti dell’arte contemporanea. È forse colpa della memoria storica mai condivisa fino in fondo dal nostro paese? O è semplicemente il solito disinteresse della società italiana per qualsiasi genere di cultura (che è sempre noiso culturame) ? O non sarà invece che l’arte contemporanea (Boltanski dice che comunque usa il linguaggio di oggi) non può essere popolare? Nonostante tutto Boltanski non è popolare, perché è un artista contemporaneo e l’arte contemporanea non può essere per sua natura popolare. E poi Boltanski, forse, forza troppo: vuole che la sua opera sia per la società, va in periferia, opera in teatro, vuole che in qualche modo abbia un fine condiviso – lo sciamano fa, anche se con strani riti, il bene comune -. Ma forse dimentica che la sua medicina, nonostante un linguaggio comprensibile, ha l’incantesimo (o maledizione?) dell’arte contemporanea che riporta tutto inesorabilmente al suo pubblico e ai suoi amanti.