La ragazza conturbante

L’ostensione de “La ragazza con l’orecchino di perla” o “con il turbante”, oramai servono termini liturgici, è stata anticipata di una settimana, al 31 gennaio, sia per non lasciare raffreddare l’allenamento visivo iniziato con Arte Fiera, sia per marcare la distanza siderale fra l’arte di oggi e quella del passato.

L’opera è celebre da poco, da pochi anni (la Monna Lisa lo è da più di un secolo) perché piace, non solo alla gente che piace, ma a tutti.

È famosa da poco perché interpreta quello che un vasto pubblico vuole che sia oggi l’arte. E questo l’ha capito il curatore Marco Goldin, direttore di Linea d’Ombra, ma amante dei riflettori, che in un’intervista sulla mostra di Bologna, sentenzia: “… ho la fortuna che il mio gusto coincide con quello del pubblico”.

Non si sceglie, ma si esaudisce.

Non c’è nessuna offerta se non adeguata alla semplice domanda, non c’è differenza.

Il critico dà quello che vuole lo spettatore che per questo paga il biglietto in anticipo.

Il pubblico si specchia nell’accecante fascino del quadro, rimanendo stordito dalla bellezza che ama e che vuole.

L’opera non va più interpretata, riscoperta e tradotta, ma solo esposta al momento giusto.

La “Gioconda Olandese”, con qualche lampo ambiguamente maschile, è bella, esotica, misteriosa e sensuale. Lo sfondo scuro, la bocca socchiusa col lucidalabbra, la perla che brilla, il turbante che sa di Oriente e uno sguardo conturbante ne fanno un’icona moderna, u’’antica bambola suadente.

Forse stanco delle opere difficili, intellettuali, dure, concettuali e provocatorie, il pubblico vuole finalmente la bellezza, la sola che fa rima con l’arte.

Una delle forze del dipinto sta nel fatto che il ritratto non è vero ritratto, ma una “tronie” cioè uno studio, una raffigurazione di un volto ideale e questa immagine ideale si sposa con quello di oggi. Una grande mostra di successo, oggi, si fa con un’opera di pittura del passato e con un ritratto ideale di giovane donna.

Il dipinto è denso, netto, conciso, è poco più grande di un A3.

Non si vedono ambienti, contesti, non ci sono narrazioni: il ritratto, come in una pubblicità di una crema di bellezza, parla da solo e dialoga con ogni spettatore.

È un’mmagine adatta anche per le torte, che si mangia a morsi, impensabile con Padre Pio o con quella della Gioconda.

Quando saremo davanti a lei, illuminata da uno spot e dalla grazia, ci sembrerà ancora più vera, ancora più bella, con quelle labbra carnose alla Scarlett Johansson.

 

La madonna padana

Per certi versi questo è un tempo di interregno fra due avvenimenti d’arte che riguardano due celebri dipinti di donne che coinvolgono la città. È un tempo fra la fine del restauro della Madonna di San Luca nel maggio scorso e l’arrivo de La ragazza con l’orecchino di perla a Palazzo Fava nel prossimo febbraio. Due immagini diverse e lontane che forse hanno in comune solo l’azzurro (appena riscoperto per l’icona) dei loro copricapi e il fatto di essere avvolte da misteri. Misterioso infatti è lo sguardo che filtra dalla lastra d’argento della Madonna che conferisce all’immagine un senso di occulto, quasi come una donna velata, quasi fosse un chador: c’è infatti tutto l’Oriente nella placca addobbata con corone, ori, pietre e perle. Forse è anche per questo motivo che l’icona di San Luca, l’evangelista che la Tradizione vuole come autore, è apparsa senza la custodia negli ultimi anni.

Secondo gli autori dell’operazione il restauro è “sorprendente”, il dipinto è “un vero capolavoro come se l’avesse fatta Giotto o Guido Reni”.

Per il grande mistico e filosofo Pavel Florenskij la pittura dell’icona è uno strumento di conoscenza soprannaturale, non c’è raffigurazione, non c’è rappresentazione. C’è invece testimonianza e contemplazione, conoscenza del mondo spirituale.

Per comprendere bene la differenza ed essere chiari, Florenskij giudica la pittura religiosa dell’Occidente, iniziata col Rinascimento, spingendosi a definirla una “radicale falsità artistica”. Accostare quindi l’icona ad un dipinto di Giotto sembrerebbe una forzatura; è proprio il pittore fiorentino che inizia ad innovare, a superare certi schemi: le mani delle sue Madonne iniziano a muoversi, sono i primi timidi passi verso il moderno, poco a che vedere con la mano dell’icona che appare rigida, così come il braccio e le dita del Bambino. La citazione poi di Guido Reni sembra ancora più ardita. Il fine dell’icona è altro rispetto alla visione dei due artisti e autori, i tempi e le categorie sono differenti e distanti. A meno che tale tesi sia solo un pretesto, assai rischioso, che condurrebbe ad una provenienza del dipinto come “espressione della cultura padana”. Viene in mente la questione dei Bronzi di Riace che per certi hanno origini calabresi.

* Testo originariamente scritto per il quotidiano La Repubblica (ed. Bologna), non pubblicato 

Le Madonne di Bologna

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

È tempo di bilanci per la mostra su Vermeer e si parla di quattrini.
Si inizia con la cultura e con Bologna che non è solo cibo, ma poi il gioco lo fanno gli alberghi e i garage; una mostra convince se lo dicono i tassisti e i ristoratori e ovviamente la grande piaga di questa epoca post-surmoderna: la gente che paga il biglietto.
Il tiro della discussione lo alza Nomisma, che almeno non cita gli scontrini.
Pochi giorni fa, in un fine settimana di primavera e a pochi metri di distanza, si sono incontrate, in qualche modo, due opere d’arte, due dipinti adottati dai bolognesi. La Madonna di San Luca, scesa tradizionalmente in città ed esposta in San Pietro e La Ragazza col Turbante che proprio il giorno dopo si è ritirata per sempre dalla sua dimora di Palazzo Fava per ritornare verso il Mare del Nord. La discesa dell’icona Mariana sembrerebbe una puntuale riappropriazione del territorio, che per mesi è stato l’indiscussa terra di conquista della più bella.
Sì, perchè la Ragazza è più bella della Madonna. Come ci insegna il mondo d’oggi, più ci si fa vedere e più si è visti, e più si è visti, più si è belli. La Madonna, che la tradizione vuole dipinta dall’Evengelista Luca, ha due caratteristiche che la penalizzano: la prima è che è velata. Con la placca d’argento che fa mistero d’Oriente, sembra che indossi un chador. La preziosa lastra copre il dipinto che enfatizza uno sguardo per lo più assente. Forse per questo motivo, da poco tempo, l’icona è visibile in certi periodi, senza velo, forse per renderla più gentile o forse per fare ammirare l’azzurro della tunica appena rinvenuto nell’ultimo restauro. La seconda peculiarità è che è santa, forse più sacra che santa. E questo perchè è antica, viene dall’Oriente (anche se poi è forse Padana) ed è venerata in processione. Le sue discese e salite scandiscono un tempo della tradizione, che condiziona, si dice, anche quello metereologico. I lenti tragitti sono accompagnati da canti, nenie, petali di fiori e incensi. L’esposizione nella Cattedrale, aperta al popolo fino a sera tarda, con fuori i mercanti chiamati per l’evento, rievocano un mondo di una volta che sbiadisce sempre più. Non vedremo mai la sua immagine sulle torte, sulle magliette, sui grembiuli da cucina; solo il santino è ammesso, tenuto in modo esclusivo nella borsette, nei portafogli o nell’angolo di qualche quadro.
Anche se la Madonna di San Luca si è ripresa il campo, gli abbagli degli ultimi eventi rimangono impressi sotto a un portico: nella vetrina della Coroncina, l’antico negozio di ricordini, memorie e identità perdute, ci sono già le due immagini vicine. Sono insieme, in relazione, quasi fossero una coppia. Dopo la mostra su Vermeer, sono due le Madonne di Bologna, quella di San Luca e quella della Perla.