L’arte alla carta

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Dopo il grande successo di pubblico, la scultura in bronzo con Lucio Dalla, compresa di cornice e totem con didascalia, ha inaugurato un inedito dibattito sulla scultura e sull’arte celebrativa a tema, proprio quella che Arturo Martini definiva lingua morta.
Come una reliquia di una società tradizionale, così la panchina social raccoglie insieme gente normale e famosa che le conferisce uno status taumaturgo. Ma oltre all’opera di bronzo osannata da chi ama l’arte finchè ci si siede sopra ed è partecipata, c’è ora un altro posto dove sedersi in gloria e poco distante da quella del cantautore: è nell’ultima sala della mostra di Edward Hopper a Palazzo Fava, ed è a pagamento.
Anche il più distratto dei visitatori dell’esposizione percepirà il senso di sospensione e solitudine delle opere dell’artista americano, una dimensione quasi privata; tutto sembra psicologico, introspettivo e anche nella generale introduzione della mostra nel sito web si legge dell’autore come uomo schivo e taciturno. Fino a che non ci si imbatte nell’ultima sala per un gran finale che trasforma un’opera del solitario artista in un facile prodotto da provare, come in uno scaffale del supermercato. Il quadro scelto come immagine della retrospettiva, Second Story Sunlight, quello forse più hopperiano e americano, con due donne sul balconcino di una casa, è riprodotto con una proiezione su un muro. Per uno strano marchingegno il visitatore disinvolto può diventare parte del quadro stesso sostituendosi alla donna seduta sulla sedia. Ognuno diventa soggetto e autore insieme. In particolare la donna anziana potrebbe avere a che fare con la moglie che viene usata spesso come soggetto, vera è propria ossessione di Hopper e questo particolare, per nulla di secondo piano, sottolinea ancora più la complicata natura del rapporto col genere umano del pittore, quasi a dirci che forse è proprio l’opera, e solo lei, a dare voce a quello che non può fare l’artista nelle relazioni della vita. L’immagine dipinta è così barattata per lo sfizio del visitatore che entra nella tela, e svilita dalla pratica più banale e indotta dell’ultimo decennio: il selfie. Il neo autore-usurpatore si porterà via in qualche modo il suo ritratto che storpia il dipinto originale in nome di un comunismo artistico con biglietto a pagamento. Tutto ciò sarebbe stato impossibile se l’artista fosse vivente, semplicemente perchè nessun autore degno di questo nome permetterebbe un’operazione del genere su una sua opera. Tale intrattenimento ha un approccio al quadro casual e volgare inteso proprio come si legge sulla Treccani: del volgo, degli strati socialmente, culturalmente ed economicamente inferiori della popolazione, anche se questa trovata non è nata dalla gente, ma pensata da chi crede che l’arte sia un po’ pesante e vada ravvivata con qualche coup de théâtre a tinte personalizzate. Non so se ci sia un quadro nella nostra storia occidentale che abbia un titolo più complesso e raffinato, ma oggi, hanno deciso, che La luce del secondo piano è forse troppo noiosa per vederla e basta.