Popolo e rusco

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

A Savigno, recentemente, sono stati sostituiti i nuovi cassonetti per la raccolta differenziata della plastica. Rispetto a quelli di Cosea, i nuovi di Hera non si aprono a pedale, ma hanno due bocche fisse, ognuna poco più grande di un foglio protocollo. Questo nuovo modello obbliga a mettere solo un pezzo di plastica alla volta, presupponendo una popolazione gaia e spensierata che nella giornata non ha un tubo (di che materiale?) da fare se non quello di inserire con attenzione e precisione magari una dozzina di bottiglie, qualche flacone, un po’ di recipienti, una pila di vaschette, una manciata di barattoli, rigorosamente pezzo per pezzo (e nemmeno lasciando cadere, ma pure spingendo per superare le strisce di gomma frangivento ed antipioggia). Operazione che prima si risolveva con un unico gesto: mentre il piede spingeva il pedale, un apriti sesamo inappuntabile, si buttava con grande sollievo, in men che non si dica, un solo sacco pieno di plastiche attentamente raccolte in settimana. Considerando che la spesa della tassa sui rifiuti, il tempo per separare i diversi materiali e il loro (ri)confezionamento per poi portarli nei gran bidoni finali, sono dei doveri privi di ogni interesse e piacere, il passare da un gesto liberatorio ad uno lungo (e se piove?) noioso, disagevole e scomodo compito (il barattolo ha sempre qualche goccia di gelato, il flacone di detersivo, la bottiglia di succo di frutta che nel trasporto si versano l’un l’altro in una miscellanea di colori e viscosità), comporterà sicuramente un grande e gravoso impegno. I cartelli informativi sono chiari, uno in alto e uno in basso, con due icone tanto morandiane quanto globali, che rappresentano il flacone universale e la bottiglia di plastica e indicano che solo quei due formati vanno inseriti nelle bocche così suggerendo che tutti gli altri tipi andranno nell’indifferenziata. Ma i savignesi, forse scarsi di usta, non l’hanno compreso, poichè giacciono da giorni molti sacchi pieni di plastica varia, buttati là, proprio davanti ai nuovi cassonetti gialli.

Piero Manai a Bologna

Nell’aprire la nuova stagione dell’arte bolognese le gallerie d’arte contemporanea P420 e CAR DRDE esporranno delle opere di Piero Manai artista locale morto nemmeno quarantenne nel 1988, l’anno delle medaglie di Alberto Tomba a Calgary. Dopo le mostre da Forni (1974), allo Studio G7 (1976, 1978, 1999), alla San Luca (1993) alla De’ Foscherari (1981, 1983, 1989, 1994, 2000 e 2010) e alla Otto Gallery (2000) oltre che alla GAM nel 1985 e 2004 e a Palazzo Pepoli nel 1988, le due gallerie di nuova generazione riprovano a lanciare sul mercato uno degli artisti più straordinari ed enigmatici degli ultimi decenni (è così che si legge da qualche notizia in rete insieme alla confortante affermazione di Umberto Eco “Manai, dopo Giorgio Morandi, stava continuando il discorso della grande pittura bolognese”, confermando così che l’arte a Bologna è pre o post Morandi e gli artisti continuano o meno la sua pittura). Questa nuova operazione si inserisce sicuramente in un tendenza degli ultimi anni a riscoprire artisti che non hanno avuto il successo che avrebbero meritato, anche se sicuramente c’è qualcosa di più: dopo quattrodici mostre personali in quasi cinquant’anni in cinque gallerie e due musei della città, se due recenti realtà commerciali ci riprovano forse vorrà dire che fino adesso l’artista bolognese non è stato presentato con la giusta immagine e che nell’epoca dell’arte globalizzata Manai non si è ancora affacciato. Ricordo nel 2000 che un critico romano davanti ad una sua opera disse: com’è datato! Sarà interessante capire se questo ipotizzato ritardo sia un peso o una caratteristica positiva. Del resto è una bella presentazione che crea valore all’opera e le due gallerie nel nuovo distretto della Manifattura delle Arti sapranno sicuramente fare emergere quelle qualità di Piero Manai che sono state, probabilmente per troppo tempo, nell’ombra.

Il monumento al container

C’è un architetto che ha progettato per Piazza Verdi un luogo temporaneo con una delle più versatili e familiari strutture della nostra epoca: il container. Le feroci critiche (non centra nulla col contesto!) fanno parte di un punto di vista che vuole che il contesto rimanga sempre tale. Si considerano però il Crescentone (il suo audace decoro-disegno, ammesso che qualcuno l’abbia mai notato, non c’entra nulla) e le sculture di Arnaldo Pomodoro invece parte del contesto solo perchè le hanno viste per un po’, le hanno digerite. Non so se il giovane architetto, sebbene voglia dare scandalo, ne sia consapevole, ma chi progetta, visto che è il suo mestiere, vuole dare una visione e un significato. E allora se un architetto mette, per qualche mese, una torre di ferro di un colore approvato dai controllori del contesto, nella città delle torri, e si grida allo scandalo, allora bisogna iniziare a chiedersi delle cose. Una storiella, non proprio da buttare e da raccontare ai nipotini, potrebbe essere che questi benedetti containers che stanno negli interporti e nelle periferie (che sono brutte, mentre invece le piazze del centro sono belle) sono proprio il simbolo della globalizzazione e sono quelli che ci portano, come Babbo Natale, tutta la nostra cara merce che ogni giorno desideriamo che ci arrivi al pianerottolo di casa. E’ l’altra faccia della medaglia, insieme, ad esempio, alla condizione di quelli che ci lavorano o al contesto di enormi capannoni fatti per contenere tutti i desideri che arrivano col corriere. Se per una volta, per qualche mese, le cose che stanno nei posti brutti, vengono (riverniciate) nei posti belli, non sembrerebbe un gran scandalo, a meno che non si voglia mettere sempre la polvere sotto il tappeto. O sotto il Crescentone.

Il presente sempre inadeguato

Ho abitato in Via Guerrazzi per quasi trent’anni e il portico dei Servi è un’architettura familiare. Ricordo le strutture in pali di legno grezzo attorno alle colonnine esili, che sembravano puntelli di emergenza anche se rimanevano lì anni e che poi avrei rivisto nelle opere di Kounellis alla Salara nel 1995. E il portico immensamente largo dalla parte di Strada Maggiore, forse il più ampio della città. Ora su questo lato scorre una nuova balaustra in metallo, fatta per proteggere le esili colonne, e forse i ciclisti, dai bus e dalle auto. La vicenda di questa barriera-pista/non pista ciclabile ha avuto un cammino complicato fra regole, misure, vincoli e norme da rispettare. Questi telai di metallo bruno che s’illuminano all’interno di notte, appaiono come accessori minimali, discreti: la loro semplicità formale li affranca da qualsiasi relazione col portico e i suoi archi; è roba di altra epoca, altro materiale, altro disegno. Queste barriere sono state bollate negativamente come oltraggiose, sono state definite maniglie di valigia e brutti blocchi orizzontali che contrastano vistosamente con la verticalità del portico….
I termini usati fanno riferimento ad un pensiero e un punto di vista dove il presente, con le sue cose fatte oggi, è per sua natura sempre impresentabile, come se non fosse mai all’altezza, mentre le cose del passato sempre belle. Il termine le maniglia di valigia, usato come esempio di cosa quotidiana, moderna e quindi banale, oltre ad essere una grande invenzione-progetto (e uno dei punti chiave del design) è un vero e proprio simbolo col quale si potrebbe declinare la storia passata e il nostro presente. Dall’epoca di quelle cucite in pelle a quella del trolley, la maniglia di valigia ci accompagna inesorabilmente e sancisce la distanza fra il modo ricco da quello povero, il mondo delle vacanze da quello dell’emigrare per vivere e per mangiare. È questa l’epoca dei migranti senza valigie – e maniglie –, senza bagagli e senza cartoni (e senza lacci di spago). La maniglia di valigia è una complessa metafora sintomo di modernità e civiltà che semmai non può che arricchire di concetti e immagini una balaustra urbana. Il fatto poi che questa sia brutta e contrasti vistosamente con la verticalità del portico… denota un punto di vista quasi confessionale: se c’è un contesto del passato, un’architettura esistente, è per sua natura un canone da prendere come assoluto riferimento, come legge, come dogma. Nel caso del portico, la sua verticalità sarebbe l’unica chiave di lettura per qualsiasi intervento contemplato nelle vicinanze. Saremmo quindi solo capaci di avere un rapporto di sudditanza e riverenza con le forme precedenti. Questa fila di esili stanghettine di metallo grigio non fanno che aggiungere forse un senso di ordine e di pulizia al ritmo sghembo delle colonne dei portici tutti diversi in quel tratto di strada.

Un nuovo Nettuno

Per il restauro del Gigante ci vogliono ancora 150 mila euro da aggiungere ai quasi 700 mila di inizio lavori perchè il Nettuno, e la sua fontana, hanno problemi seri. Cifra anche contenuta considerando che a Firenze dal 2016 al 2018 spenderanno quasi il doppio per il maquillage di quello in marmo di Piazza della Signoria (meno male che il David di Michelangelo accanto è una copia). Visitando il cantiere del Nettuno bolognese si ha l’impressione, complice il pagamento di un biglietto e l’impalcatura-torre occultata da veli, di essere in una specie di grande teca che cela una reliquia a cui, amorevolmente, tecnici solerti si adoperano con infinite cure. La liturgia che sovrintende la santa pratica ha un intervallo di circa trent’anni, tempo limite – pena danni irriversibili – per la salma di bronzo e la sua fontana in marmi. Il restauro presente – si apprende – è più lungo del previsto perchè quello della fine degli anni Ottanta si è scoperto in parte inefficace: occorrono così nuovi balsami e unguenti. È un’eloquente vicenda, a tinte religiose, tutta italiana che impiega lavoro, analisi, studi e capitali per conservare e consolidare, disperatamente, contro pioggie acide, anidride solforosa, polveri sottili e assalti goliardici – epocale e scandaloso fu il bagno di massa con topless dentro la fontana nella notte Mundial del 1982 – un’idea di perferzione e bellezza. Sull’esempio del David, della statua equestre di Marco Aurelio e dei quattro cavalli di San Marco, si potrebbe invece fare una bella copia del Nettuno per evitare questo rituale dispendioso che continuerà in eterno e che non sarà mai risolutorio. Il monumento originale offrirebbe, poi, un’inedita possibilità: dentro uno specifico padiglione coperto, il complesso potrebbe essere collocato in periferia e comunque fuori dalle mura. Questa operazione avrebbe un’importante implicazione per cui la città acquisterebbe uno nuovo luogo-fondazione con un vecchio simbolo. Due nuove presenze, quindi, la copia nel classico luogo e l’originale in un nuovo centro. Forse non comprendiamo che il nostro impasse è proprio nei nostri simboli del passato che danno false sicurezze, vani appigli troppo comodi che da tempo hanno perso smalto e che oggi vanno ripensati. Si tratterebbe di rompere un incantesimo per rifondare una nuova origine con uno spostamento. Il nuovo padiglione col Nettuno –il prossimo anno saranno 130 anni dall’audace Expo dei Giardini Margherita- diventerebbe un punto differente capace di altre e diverse possibilità con echi internazionali. Resterebbe solo da aprire le danze del lungo dibattito sull’inedito spazio da individuare in periferia o, come si dice, fuoriporta.

La Fiera dell’Arte

La fiera dell’arte o Arte Fiera, un nome all’inglese e poi riconvertito in italiano, aveva un logo bellissimo, un sol levante quasi intero rosso-arancio, come sospeso, con una grafica pulita in un gioco di lettere vuote e piene. Non so bene se questa bellezza fosse tale perchè legata a certi momenti densi e drammatici della fine degli anni 70 -il dramma nei ricordi diventa spesso bello- o perchè fosse veramente nuova e audace, ma rimane una cosa del passato come l’indiscussa importanza della fiera stessa. Quando si entra da Piazza Costituzione c’è molto moderno, molto cemento e ferro; si notano subito le strutture e gli infissi dello stesso colore del sol levante rosso-arancio a ricordarci che una volta si andava per contrasti forti. La fiera dell’arte è diventata sempre più la fiera con l’arte intorno; famoso in un padiglione di anni fa il (grande) vetro dove dietro lavoravano le sfogline per un ristorante temporaneo con le pareti in cartongesso. E’ come se in qualche modo le patine lasciate dalle mostre dei motori, delle piastrelle e delle macchine agricole indebolissero le opere esibite, l’arte stessa, negli stessi casermoni e illuminate da faretti a luce gialla. Gli spot, i piedistalli, le moquette grige, i tavoli coi fiori, qualche stand (non c’è parola italiana decente per definire un’idea di stanza effimera marcata da cartelli, senza soffitto e con pannelli di compensato riverniciati) che prova a distinguersi con pareti nere o in tessuto ignifugo, tentano di guarnire in qualche modo un mercato coperto annuale dell’arte con un centro servizi. La fiera con la sua propaganda, oltre a riuscire a nominare della gente comune come VIP, è così autorevole che conferma in maniera decisa il valore dell’opera dell’artista. Il grande complesso riscaldato di piazza della Costituzione è stato uno dei primi luoghi al mondo dove, insieme ai panini della Camst e ai flute della maison di champagne che ha sempre il suo chiosco, si consuma uno dei più grandi drammi della nostra storia: l’opera d’arte moderna e contemporanea diventa l’unica merce capace di mantenere allo stesso momento opposte proprietà; l’opera può avere un alto valore commerciale ed essere di una natura esclusiva, à la page, un simbolo di distinzione e di classe e insieme mantenere inalterata la sua natura critica, bastarda, reietta ed estranea alle leggi mondane. L’opera d’Arte Fiera è l’unica cosa che incarna e abiura allo stesso istante, come se un brodo potesse essere sciocco e salato allo stesso tempo, le due leggi che muovono il mondo: la mercificazione della donna e il denaro. Negli spazi istituzionali, insieme agli stands di musei e fondazioni che cercano di captare gente, ci sono le banche, oramai di casa in fiera, con servizi di consigli per gli acquisti. E anche quella off che espone alla Stazione Autolinee, un altro spazio molto moderno che ora sembra quasi uno squat, si chiama con un nome inglese che fa rima con gli affari. Durante l’Arte in Città o Art City, la fiera dell’arte che si sposta in centro, spicca quest’anno Lo scintillante mondo di Murakami Takashi in Galleria Cavour, che è -ci informa il comunicato- la galleria dello shopping hight brand nel cuore di Bologna.

Italia e Bologna

L’anno scorso ho telefonato a Enel per il contratto del mio nuovo studio a Savigno.
La gentile signorina mi chiese quale attività svolgessi. Scultura e pittura, artista risposi, del resto da vent’anni non faccio altro. L’addetta di Enel disse che non esisteva la voce artista e mi pose subito una domanda senza scampo: la metto fra gli artigiani o i liberi professionisti? Per Enel, come in generale per il Belpaese, l’artista è una persona non reale, che non esiste e comunque non ha bisogno di energia elettrica. L’arte attuale è una cosa lontana, che ogni tanto va giusto ricordata. Bisogna infatti sapere che nella cultura di massa del popolo italiano l’idea di arte del proprio tempo è ancora legata indissolubilmente alla scena del film Le Vacanze Intelligenti con Alberto Sordi alla Biennale di Venezia. Il fatto che molte opere di artisti viventi vengano vendute a cifre più alte delle quotazioni dei nostri Maestri del Passato, ha però incuriosito la classe dirigente del nostro Paese che ogni tanto si accorge che l’arte contemporanea esiste; solo davanti a certe cifre la faccenda non può che diventare seria. Nel 2005 ci fu la mostra Bologna Conteporanea alla GAM, una mostra generale per censire quasi settanta artisti degli ultimi decenni. A distanza di undici anni la città si propone la stessa domanda con una modalità differente, un chiaro segno dei tempi: la retrospettiva dell’arte bolognese si tiene in un museo privato, proprio mentre al Mambo, la galleria comunale, c’è David Bowie, un’esposizione fatta di qualche centinaio di oggetti che non sono opere d’arte (e se ce ne sono non le ha fatte Bowie) insieme al suo shop itinerante e varie amenità.
Visto la natura di questa mostra –che veniva dal Victoria and Albert e non certo dalla Tate Modern- in una città normale sarebbe dovuta andare a Palazzo Fava –adatto alle mostre viaggianti, di cartello e globali, quelle insomma che piacciono all’Ascom- mentre invece quella sull’arte di oggi nella sede comunale.
Ogni due lustri -un artista in salute ne può timbrare anche sette-, Bologna, che ha in uno dei suoi simboli una scultura in bronzo, si accorge che si fa dell’arte in città e che bisogna farla vedere, anche se oggi, come allora, non ci sono fondi per produrre opere inedite. Bologna Dopo Morandi si sarebbe dovuta mostrare nella sede istituzionale del Mambo, con incontri, dibattiti e discussioni – a che serve un museo se non ci si incontra e non si discute?- chiara scelta culturale e politica –sì perchè l’arte è anche politica-, in uno spazio progettato per l’arte di oggi con ampie sale e senza i soffitti a cassettoni, i caminetti e la potestà dei Carracci in mezzo. Si legge poi che la mostra nel Palazzo delle Esposizioni bolognese chiuderà proprio prima di Arte Fiera, l’unico periodo di scambio col mondo contemporaneo in città. Ma non è per questo motivo che ho rinunciato all’invito ad esporre nella bomboniera di Palazzo Fava.

Via Guerrazzi 21

Non c’è posto più fantasmatico di Via Guerrazzi 21.
Ho vissuto ventisette anni fra il primo e secondo piano in tre appartamenti di questo palazzo. Sono venuto qui nel 1974. Mettendo insieme tantissimi momenti direi che alla fine ho passato qualche settimana della mia vita a guardare il giardino interno, le palme a volte con la neve, i fiori del Calicanto e quelli della Magnolia sempreverde.
Via Guerrazzi 21, insieme alla casa di Pavana, è il luogo dove si sono consumate tutte le faccende della mia famiglia, una grande opera letteraria, dove sono stato un personaggio centrale; in fondo con me finisce tutta la storia. Figlio unico e da dieci anni tutore, quasi a difendere e custodire poeticamente e legalmente tutta questa roba.
Roba perché quello che rimane sono mobili, immobili, oggetti ed immagini di una vicenda infinita. All’ultimo piano delle scale ripide e buie, ora tinteggiate da un colore da Soprintendenza, non mi avventuravo mai perché abitava una strana persona, elegante e distinta, sempre con gli occhiali scuri anche se era buio; il Signor B. era invertito come ammoniva mia nonna Tosca. Nell’altro appartamento abitavano le Signorine S. due sorelle anziane quasi invisibili di Palermo che contribuivano al silenzio e all’idea che l’eccezione confermava la regola: in centro a Bologna ci abitavano i bolognesi.
Il primo grande appartamento aveva i pianciti con la veneziana e i soffitti altissimi, uno era affrescato e mio padre aveva messo due faretti colorati uno giallo e uno blu su un ripiano sopra lo stipite della porta, a smalto lucido avorio, per dare un effetto scenografico. Una volta mia madre fece un pranzo per cinque dei mie compagni della scuola media, anche se non ne capii mai il motivo. Da bere c’era spremuta fresca servita in una brocca-thermos con l’interno in vetro e l’esterno in sughero, lavorata e argentata.
Prima di versare mia madre mescolò per un’ultima volta e il vetro scoppiò, un vetro quasi specchio, marezzato con riflessi ottone. Una volta il nonno Carlo, marito di Tosca, mi rimproverò perchè stavo mescolando il tè in senso antiorario.
Non si mescola al contrario! mi riprese.
Tutto aveva un verso e un posto per lui, i piloni del mondo si reggevano con la precisa applicazione delle giuste regole fra cui mescolare in senso orario. Regole chiare di differenti provenienza: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze borghesi. Restai sempre col dubbio che mia madre quella volta mescolò in senso contrario, in modo invertito.

Il Manifesto

Il manifesto del 2016 dell’Associazione tra I familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 è praticamente uguale agli ultimi 33 manifesti degli ultimi 33 anni. Nella frase posizionata in basso, la sola cosa diversa ad ogni anniversario, recita: Il paese deve sapere chi tramite Licio Gelli fu tanto determinato contro la democrazia da finanziare una strage di 85 morti e 200 feriti.
La parte superiore del manifesto è sempre la stessa, c’è la data e un titolo: Strage fascista alla stazione di Bologna, con 85 morti e 200 feriti in colore rosso. L’aggettivo fascista c’è dal 1994. La foto centrale è invece la medesima da 34 anni: la lapide della Stazione, quella interna con la parete lacerata a destra; i lati sono neri e sotto c’è il buco della bomba sul pavimento di mosaico con balaustra di acciaio a protezione. In basso all’angolo sinistra appare l’ultima parte di una panca, quelle che si usavano dagli anni Sessanta, composta da sedie e se ne vedono tre. Un’immagine per nulla cercata, nè studiata, presa al volo, amatoriale, con la luce non uniforme e con ombre che disturbano il soggetto. Il fondo del manifesto è bianco e tutto l’insieme ricorda una copertina di un libro Einaudi. Nel complesso è un manifesto vetusto, annoso, con un’immagine spigolosa, a tratti respingente, con testi duri e un linguaggio datato. E’ un manifesto con nessuna attenzione alla comunicazione; si vede subito dalla seconda riga: in Italia l’accusa di fascismo irrita già la maggioranza del paese. Si può comunicare un fatto del genere in modo differente? Magari con creatività e stile per divulgare, trasmettere, diffondere e per non dimenticare? Come fare per dire di quella data, l’inizio degli anni Ottanta, in pieno anni di Piombo, coi tram col muso che sembravano un cappello di polizia, come il 37 che divenne un carro funebre, col suo rumore da guerra fredda? Anni fa qualcuno voleva che il Museo per la Memoria di Ustica si chiamasse Memorial; un nome che cercava di alleggerire la faccenda, un nome più moderno – la lingua inglese è sempre più moderna della nostra – che sapeva anche di linguaggio sportivo, forse per cercare di alleviare la pesantezza di una vicenda che divide ancora. Ma c’è qualcosa che può sollevare un DC-9 affondato in quasi quattromila metri di mare? Forse il ricordo, la maledetta memoria della bomba del 2 agosto 1980 – il mese delle vacanze – può essere rappresentata solo da una grafica spigolosa, raccontato da testi duri, quasi desueti e per nulla social, mal confezionati per oggi. O da una foto che svela un pavimento di mosaico severo, povero, ma non so perchè elegante, una foto venuta male, che prende per sbaglio una panca della sala d’aspetto, quelle rigide, di legno curvato e scomode, forse di seconda classe e che non sapevamo ancora che fosse design.

Una Quarta Veduta

Forse, dopo il Terzo Paesaggio teorizzato da Gilles Clément, si potrebbe ipotizzare un’altra meta-zona, una Quarta Veduta. La Quarta Veduta sarebbe un luogo artificiale dimenticato del suo significato, tralasciato, non più notato anche se ancora presente e integro. Non ho altri termini per chiamare così l’opera non abbandonata, ma credo inosservata – il contesto è proprio decisivo – della Fontana di Quinto Ghermandi che è davanti al padiglione delle Nuove Patologie del Policlinico Sant’Orsola.
Il complesso di bronzo è interessante perché riprende la grande tradizione delle fontane, oggi praticamente scomparsa; le due vasche in cemento, dentro una grande aiuola, accolgono due gruppi in metallo che hanno a che fare, con qualche distanza, con piante e steli vegetali. Due gruppi di foglie enormi, quasi prestoriche, che ricordano la Gunnera e i padiglioni auricolari degli elefanti, sono viscidi e bagnati dall’acqua che zampilla, insieme a certe canne un po’ midollino un po’ d’organo che ci dicono di una Natura molto moderna e che in quel tempo il verde era solo un colore. Dischi, pali, tubi sono opposti a quello che allora era la Natura e il Naturale. L’invaso grigio di calcestruzzo forma più una pozza d’industria che una vasca coi pesci rossi di un giardino all’italiana. C’è qualcosa di assoluto, da epoca post atomica, in questa Fontana di cemento nudo con corpi freddi e forme ombrose. Attorno alla grande aiuola passeggiano i malati, passano i parenti e, a marcia ridotta, vanno e vengono le ambulanze. Una grande attrazione, che forse Ghermandi non aveva previsto, sono le decine di tartarughe, che rafforzano un’idea di preistoria e di un superfuturo: i rettili – i film e i libri ci hanno abituato così – sono quelli che c’erano e che rimarranno un domani. Chissà se l’autore abbia progettato l’opera tenendo conto del contesto, dell’ospedale o proprio del padiglione delle Nuove Patologie, ma il quadro complessivo, a vedere bene, è di grande intensità.
Mesi fa è stata ricoverata mia madre proprio in quel padiglione; c’era poca speranza e l’operazione non era semplice. Sono entrato un venerdì di fine marzo costeggiando l’aiuola e la Fontana. Era una giornata di sole e le tartarughe nuotavano felici. Mia madre non ce l’ha fatta e al reparto rianimazione – funzionale, organizzato e moderno – un luogo tanto artificiale da sembrare astratto, l’ho vista, l’ultima volta, addormentata.
Davanti alla Fontana ho provato un senso di conforto. Era immobile come sempre, lì, a sfidare il tempo e a testimoniare che l’Arte è diversa dalla Terra, dalla Natura e dalle sue leggi inique, severe ed eterne. È lì a dirci che l’Arte è finzione, che sta su un piano differente, è concetto e utopia. È artificio e astrazione, proprio come l’idea del reparto del padiglione delle Nuove Patologie.