A causa di Arte Fiera o semplicemente per Arte Fiera è un interessante fenomeno che è entrato, nonostante il ridimensionamento dell’evento di Piazza Costituzione, nelle vene dei bolognesi. Decine di appuntamenti per celebrare arte, arti e variopinta creatività, concentrati in meno di una settimana si affiancano alla manifestazione madre per attrarre il suo pubblico. È così diventata una consuetudine, quasi una festa comandata che fornisce la scusa per ogni evento: moltissime mostre, appuntamenti ed esibizioni credo che non esisterebbero se non ci fosse l’alibi di Arte Fiera. Ed è inevitabile che l’evento prevalga sull’opera, già offuscata dalla pratica stordente del vernissage; ne consegue un gran fiorire dell’installazione, termine disgraziato che chiunque usa per qualsiasi opera d’arte che non sia su tela o di marmo. I recinti sono rotti e i buoi sono scappati da tempo e così siamo diventati tutti artisti, curatori e galleristi, tre occupazioni dove, in fondo, non ci vuole nessun corso, nessun tesserino. Se la grande rivoluzione del cibo ci sta facendo, alla fine, mangiare meglio, non se se si possa dire lo stesso per il gran movimento dell’arte contemporanea, che negli ultimi anni ha assunto un ruolo di assoluto status. La città, come il paese, è ancora comunque spaccata su una questione centrale: il concetto e il significato dell’opera. Tutti a chiedersi in ogni mostra ma cosa vuole dire? Qual è il messaggio? perchè da sempre ci hanno insegnato che è bello o brutto, giusto o sbagliato, bianco o nero. Qual’è il succo? Perché si vogliono risposte che non contemplano altre domande. In questo gran tour cittadino di cose colorate manca un’educazione, manca il tempo mentale di mettersi davanti all’opera, manca soprattutto un momento, necessario, per cercare di comprendere che l’arte vera del nostro tempo ci pone delle questioni che dobbiamo cercare in qualche modo di assumere. Rispetto all’arte del passato, l’arte moderna e contemporanea cerca di abbattere quel vetro, caro a certi, che permette allo spettatore di accostarsi ad un’immagine inedita e farla propria perché è fatta della stessa pasta del nostro vivere, permette al passante di vedere e capire meglio un contesto con una nuova opera che scombina un facile ordine. Che piaccia o no, sono i contrasti il certo soggetto del nostro caro tempo, dove il vero ha mille luci ed ombre che non possono e non devono ridursi ad una comoda eleganza.
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La Fiera dell’Arte
La fiera dell’arte o Arte Fiera, un nome all’inglese e poi riconvertito in italiano, aveva un logo bellissimo, un sol levante quasi intero rosso-arancio, come sospeso, con una grafica pulita in un gioco di lettere vuote e piene. Non so bene se questa bellezza fosse tale perchè legata a certi momenti densi e drammatici della fine degli anni 70 -il dramma nei ricordi diventa spesso bello- o perchè fosse veramente nuova e audace, ma rimane una cosa del passato come l’indiscussa importanza della fiera stessa. Quando si entra da Piazza Costituzione c’è molto moderno, molto cemento e ferro; si notano subito le strutture e gli infissi dello stesso colore del sol levante rosso-arancio a ricordarci che una volta si andava per contrasti forti. La fiera dell’arte è diventata sempre più la fiera con l’arte intorno; famoso in un padiglione di anni fa il (grande) vetro dove dietro lavoravano le sfogline per un ristorante temporaneo con le pareti in cartongesso. E’ come se in qualche modo le patine lasciate dalle mostre dei motori, delle piastrelle e delle macchine agricole indebolissero le opere esibite, l’arte stessa, negli stessi casermoni e illuminate da faretti a luce gialla. Gli spot, i piedistalli, le moquette grige, i tavoli coi fiori, qualche stand (non c’è parola italiana decente per definire un’idea di stanza effimera marcata da cartelli, senza soffitto e con pannelli di compensato riverniciati) che prova a distinguersi con pareti nere o in tessuto ignifugo, tentano di guarnire in qualche modo un mercato coperto annuale dell’arte con un centro servizi. La fiera con la sua propaganda, oltre a riuscire a nominare della gente comune come VIP, è così autorevole che conferma in maniera decisa il valore dell’opera dell’artista. Il grande complesso riscaldato di piazza della Costituzione è stato uno dei primi luoghi al mondo dove, insieme ai panini della Camst e ai flute della maison di champagne che ha sempre il suo chiosco, si consuma uno dei più grandi drammi della nostra storia: l’opera d’arte moderna e contemporanea diventa l’unica merce capace di mantenere allo stesso momento opposte proprietà; l’opera può avere un alto valore commerciale ed essere di una natura esclusiva, à la page, un simbolo di distinzione e di classe e insieme mantenere inalterata la sua natura critica, bastarda, reietta ed estranea alle leggi mondane. L’opera d’Arte Fiera è l’unica cosa che incarna e abiura allo stesso istante, come se un brodo potesse essere sciocco e salato allo stesso tempo, le due leggi che muovono il mondo: la mercificazione della donna e il denaro. Negli spazi istituzionali, insieme agli stands di musei e fondazioni che cercano di captare gente, ci sono le banche, oramai di casa in fiera, con servizi di consigli per gli acquisti. E anche quella off che espone alla Stazione Autolinee, un altro spazio molto moderno che ora sembra quasi uno squat, si chiama con un nome inglese che fa rima con gli affari. Durante l’Arte in Città o Art City, la fiera dell’arte che si sposta in centro, spicca quest’anno Lo scintillante mondo di Murakami Takashi in Galleria Cavour, che è -ci informa il comunicato- la galleria dello shopping hight brand nel cuore di Bologna.
La figura facile
Nell’infinita offerta di tipologie, tecniche e immagini proposte oggi dall’arte, forse quella che da tempo mostra segni di stanchezza è la scultura figurativa. Vuoi perchè la carcassa a tempo che ci portiamo addosso pone delle questioni spinose (insomma basta e avanza) o forse perchè la rappresentazione del corpo – in tempo di fresche carneficine – è ancora un grosso problema, ma proporre oggi una statua con riferimenti umani è credo una pesante leggerezza.
Alla fine, a differenza delle cose e dei paesaggi, noi siamo sempre noi e la figura umana si porta dietro un tale bagaglio, ribadito da infiniti pantehon di immagini, che sarebbe il caso di lasciare perdere. Dopo qualche millennio di altissima statuaria, dopo l’esercito di monumenti celebrativi con la varianti equestri e un intero popolo di figure in marmo e bronzo che abita i cimiteri, c’è ancora qualcosa da dire?
Due lampi, forse, chiudono definitivamente il conto: le opere recenti di Marc Quinn che rappresentano persone con gravi malformazioni o arti mancanti e le immagini delle statue a testa in giù dei tanti regimi caduti.
Tuttavia la scultura è ancora viva e popolare e in città gli esempi sono molteplici: dall’autorevole Nettuno fino al recente San Petronio sotto le Torri, dal gruppo del Compianto all’esile bronzo della figura di Lucio Dalla, dal marmo del Galvani al tuffo del goleador Ezio Pascutti nella rotonda Bernardini.
Delle tre maggiori fiere d’arte contemporanea in Italia, Bologna è la più nazional-popolare, e più di Milano e Torino, espone scultura figurativa.
Passato l’interesse per i soggetti cinesi, rimangono le proposte con temi ellenistici e ispirazioni classiche, schiere di ominidi implosi, cristi di ogni passione, cavalieri troppo esistenti, salme spirituali, marmi antropomorfi, bronzi rodin-izzanti, prigioni in meditazione e manichini disumani.
In questi giorni, giusto aldilà della Futa, si è svolto l’incontro ufficiale fra Matteo Renzi e Angela Merkel celebrato proprio sotto la statua della statue: il David di Michelangelo.
Il Premier, l’uomo del voltare pagina, si è affidato alla scultura classica nella città museo di Firenze – che vorrebbe capitale – per rappresentare il Paese.
Il David ha più di cinque secoli e, come tutte le cose antiche, ha allarmanti segni di logoramento. In particolare, l’opera, è di un marmo di non grande qualità, è fragile nella base, soprattutto nelle caviglie e la posizione del corpo inclinato, con vecchie lesioni e nuove fessurazioni, crea trazioni che ne minano la stabilità.