Nella recente intervista l’ex Magnifico Rettore dice soprattutto una cosa – o lo dice il titolo dell’intervista -: che l’arte fa molta fatica e bisogna investire e anche che si sta perdendo la cultura e l’artigianato. Ne parla come se tutte queste cose appartenessero ad un unico ambito, condiviso. Ci sono invece almeno tre grandi emisferi distanti fra loro, con diversi linguaggi e modi di pensare che a volte s’incrociano, ma sono spesso in conflitto: quello dell’arte del passato, del gusto classico, conservatore contro la generale volgarità dell’oggi, quello diciamo neo-positivista (Chiesa compresa) dove l’arte, tutta, ha un valore col segno più: bellezza ed eccellenza vanno sempre a braccetto con utilità e lavoro: l’arte serve per un generale benessere e accompagna il successo e si intreccia col design e l’artigianato (e qui pure col cibo). E quello dell’arte contemporanea, più consapevole, che oscilla fra la lezione delle Avanguardie e del Novecento e le Biennali in giro per il mondo, ma sempre tallonata (definitivamente?) da gallerie snob e vip cards. Detto questo, considerando che il tempo popolare e populista (non è il momento della Street Art?) ha il suo peso, non si può pensare che la questione sia se il turista vada o meno a vedere il Cimabue o Il Compianto (ma è veramente così percepibile l’effetto sul territorio delle folle che tutti i santi giorni invadono la Cappella Sistina o gli Uffizi? E così Roma o Firenze non dovrebbero essere di conseguenza investite da tale lucente cultura invece che essere rispettivamente simbolo di degrado e di provincialismo nobil-bottegaio?) perchè questi rappresentano soggetti improponibili all’oggi e rimangono solo come svago piacevole senza bucare la nostra esistenza. Il magnetismo dell’immagine sacra-arcaica su fondo oro oppure del Cristo morto (c’è oggi un soggetto più scarico e desueto?) o delle donne che piangono, giacciono in una griglia a comparti stagni che ci ostiniamo ancora a chiamare bellezza.
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L’arte giovane
Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.
Si è parlato recentemente di un fondo a sostegno dell’arte contemporanea attraverso il quale il Comune di Bologna acquisterà opere di giovani talenti da destinare al MAMbo. In questi anni le opportunità per i giovani nell’arte non si contano, del resto i concorsi e premi sono quasi solo per under 35. Ma c’è un vizio di fondo: se i giovani vanno aiutati è perché si pensa che i meno giovani ce la possano fare e se nel mondo del lavoro può essere vero (ma uno dei grandi problemi oggi è la collocazione gli over 50), nell’arte non si può ragionare in questo modo. I non giovani sarebbero così quelli che vendono, come se il corso naturale del fare arte e il suo scopo fosse vendere con una galleria ed avere un mercato (certo è la realtà, ma perché poi tutti si lamentano oggi della commistione fa arte e mercato?) e quindi si dà per scontato che siano arrivati, cioè che solo il mercato sia il fine dell’arte, per cui una volta raggiunto, siano tutti appagati. Un altro vizio è quello dell’idea di profitto: i giovani sono un investimento; se questo ragionamento può tenere per il collezionismo (che non è mai mecenatismo e a cui piace la scommessa) per l’ente pubblico suona male anche perché il soggetto dovrebbe essere solo l’opera dell’artista e non un ragionamento sull’età che in sostanza ricalca il pensiero imprenditoriale. Se invece il motivo fosse la novità, cioè il giovane ha idee più nuove, come nel mondo del lavoro, questo non ha nessun riscontro nell’arte. La produzione dell’artista non ha regole e non può essere presa in considerazione rispetto all’età. In Italia vivere di arte non è semplice considerando che non c’è nessuna agevolazione nel Paese dell’Arte dove, fra l’altro, tutta la politica ad ogni inaugurazione dichiara sempre che l’arte è la linfa e il simbolo del paese. Se le gallerie, i collezionisti, molti artisti e il sistema pensano al mercato, l’istituzione diventa l’unica isola di salvezza di una situazione che in fondo tutti, almeno a parole, detestano. Sostenere solo i giovani è un procedimento del tutto simile al processo di investimento e di capitalizzazione tipico dell’impresa, ma che non può essere applicato all’arte.
Dialogo con Flavia Montecchi
Flavia Montecchi
Che fine fanno i luoghi della tua arte una volta terminata la mostra?
Flavio Favelli
Non so e non ci penso. Alla fine credo sia importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione e il suo significato. Sicuramente i luoghi che scelgo sono importanti per molti motivi, sempre comunque motivi poetici.
FM
In una recente intervista pubblicata sul tuo sito, affermi che: “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra che non hai una buona considerazione del pubblico, affermi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”?
FF
Il pubblico è una convenzione. Ci deve essere, ma è come che non ci sia. Un po’ come quando da bambino giocavo dall’altra parte della casa, era importante che ci fosse mia madre, ma non doveva poi rompere le scatole. In tutte le foto di documentazione delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai delle persone e questo vorrà dire qualcosa. Il pubblico, poi, oggi è la gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e va coi profumi di gran marca. Solo vivendo da quasi vent’anni in un paesino dell’Appenino ho capito la profonda ignoranza e idiozia della gente. Non ho una grande considerazione del pubblico. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status e poi quando penso ad un luogo lopenso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte è lontana da queste cose.
FM
Sempre mantenendo il tema del rapporto tra pubblico e artista, rivendichi in varie occasioni la presenza dell’artista contemporaneo e la sua chiamata in causa in manifestazioni di carattere culturale, che prendono spunto dall’arte senza però poi effettivamente coinvolgere gli artisti (la passata edizione del Festival di Filosofia, come citi tu stesso).
Indipendentemente dalla contraddizione che noto (vedi la domanda precedente), secondo te perché non si interroga l’artista?
FF
Distinguerei comunque il mondo dell’arte oramai assuefatto dalle mostre e dalle fiere ed eccitato solo dalle aste, dalle preview e dagli aneddoti e curiosità sugli artisti e un pubblico che partecipa a dibattiti e conferenze con interesse. Nell’esempio che ho fatto ho notato che si è invitato un imprenditore (di idee conservatrici sull’arte) e non un artista perché si dà per scontato che l’artista possa parlare solo con le sue opere. Nelle conferenze e dibattiti – quei pochi che ci sono – c’è sempre un moderatore che appunto modera l’artista che a sua volta parla come un curatore noioso: gli artisti oggi blaterano qualcosa fra l’apocalittico e il rivoluzionario, ma poi lavorano programmati e precisi per rifornire le gallerie che fanno una dozzina di fiere l’anno e questo non può non incidere su una categoria che è diventata solo imprenditoriale. Quindi un po’ è colpa degli artisti, un po’ della società della cultura che è interessata all’artista solo quando è un maestro. Poi tutti a citare Pasolini (saranno almeno una ventina gli artisti che hanno fatto opere su PPP) dimenticando che allora si criticava e litigava a viso aperto mentre oggi più dei sorrisi tirati dei vernissage non si va…
Non dovrebbe, il suo lavoro, essere già esplicito se inserito in un contesto espositivo selezionato e attento, con una direzione artistica di referenti reali? Mi spiego: nel caso del festival della Filosofia, mancava forse una direzione artistica nella selezione e organizzazione delle mostre temporanee. O no?
FF
L’artista pone delle questioni complicate e deve essere la fonte principale per la sua opera; il suo punto di vista deve essere ancora importante: nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti dovrebbero essere gli unici che eseguono prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella società di oggi che davanti alla tela, al pavimento o al muro, pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing, senza la preoccupazione di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti. Il frullatore degli eventi nell’arte travolge tutto e all’artista deve essere data la possibilità di discutere e parlare del suo punto di vista che non può essere completamente sostituita da quello della direzione artistica. La situazione è comica: da più parti si evoca il ritorno dell’artista-scienziato del passato e dall’altra si fa partecipare l’artista solo alla mostre. (Voglio ricordare una specie di ritornello che spessissimo viene pronunciato da artisti, critici e vari professori quando qualcuno sottolinea il fortissimo potere del mercato che travolge ogni cosa nell’arte: l’arte – la sentenza inizia sempre così – è sempre stata in mezzo alla moneta e al mercato, leggete le lettere dei grandi del passato, parlano sempre di soldi… (il famoso Libro dei Conti del Guercino). E’ ovvio che questa è una grande sciocchezza, in quale campo ci comportiamo come se vivessimo nel 1600? Questi si sentono moderni, ma vogliono gli usi e costumi dei tempi del passato. Il critico (e ovviamente il curatore) è il garante che certifica che l’opera è d’arte ed è colui che la colloca in una tradizione di storia dell’arte, ma questo non può essere l’unico punto di vista sull’opera.
FM
Queste domande – e quelle che ti ho posto durante il nostro incontro – evidenziano come il tuo fare arte sia ricco di contraddizioni, istanza per me molto stimolante e sinonimo di movimento.
Sei con il pubblico e in mezzo al pubblico, ma ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario – per certi versi. Agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Che tipo di artista ti definisci? Ma soprattutto, quando hai cominciato a chiamarti e o a giudicarti “artista”? Parlami del ruolo che ha per te questo nome, consapevole del fatto che non leghi l’arte alla politica.
FF
Beh non è vero che non lo lego alla politica. Non lo lego ad un significato politico preciso, ma la questione politica è ampia con grandi confini. E’ più politico Santiago Sierra o Giorgio Morandi? Solo un pubblico poco attento e superficiale può dire con certezza il primo. L’arte è preziosa perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario, è il luogo della legittimazione dell’alterità, è una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Se i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata e così presuppongono che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male. Il mio progetto Gli Angeli degli Eroi riassume il mio punto di vista. Da un’immagine di mio nonno militare, dalla mia attrazione per le divise – che tengo a distanza – indago il mondo della guerra che ioncontro l’immaginario dello Stato e del Presidente della Repubblica: l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.
FM
Che ruolo deve avere l’artista oggi?
FF
Beh deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere sull’arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere. Niente da fare non lo danno. Ecco che ruolo deve avere quello che non gli permettono di essere.
FM
C’è un artista con cui sei cresciuto e che ti senti abbia fatto parte della tua formazione?
FF
Mio padre per il fatto che si sentiva artista, si sentiva un poeta. Ma poi, come si dice, ha perso la testa, ammesso che gli artisti non la debbano perdere. Dico questo perchè voglio sempre riportare tutto alla mia famiglia, alla mia storia privata che sono le mie immagini e che sono le immagini del mio tempo, perchè l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.
Per fare l’arte
Leggo il programma del Festival della Mente di Sarzana, da poco concluso, che aveva come sottotitolo Come e perché nascono le idee. Interventi sulla creatività, spettacoli, incontri con scienziati, artisti, letterati, storici e filosofi. Salta subito all’occhio l’assenza di artisti visivi. Tra gli invitati non c’è nessun artista visivo. Singolare, perché un festival della mente dovrebbe occuparsi anche dell’arte di oggi, del resto, l’arte contemporanea non è concettuale da parecchio tempo? Scriveva Joseph Kosuth nel 1987: L’opinione prevalente è che l’artista, se ha qualcosa da dire, lo debba esprimere attraverso la propria opera. E naturalmente, alcuni dei miti ereditati … richiedono all’artista più un ruolo da stregone che da intellettuale… (1).
Anche al Festival Filosofia di Modena di quest’anno il tema era “le arti” (!), ma nessun artista visivo è stato invitato nel programma filosofico; lo spazio per gli artisti era confinato nel programma (recinto) creativo delle mostre e installazioni in gallerie e musei, oppure è rimasto negli studi. Un’idea della considerazione che si ha degli artisti è forse la presenza, nel programma filosofico del festival, di Brunello Cucinelli, l’imprenditore che ha come riferimento il Medioevo, il Rinascimento e le cui le pubblicità per vendere vestiti fanno riferimento al nostro Passato perduto: Amiamo i Codici. Messaggeri antichi di Arte e Cultura oppure La Natura è piena d’infinite ragioni (sentenza di Leonardo da Vinci). Pur di non invitare gli artisti si invita un imprenditore che si distinse, anni fa, insieme a Vittorio Sgarbi, nel volere abbattere la chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Ma anche al festival “La Repubblica delle Idee” del giugno scorso, a Bologna, non è stato invitato nessun artista visivo. A “rappresentare” l’arte c’era solo una discussione fra i critici Achille Bonito Oliva e Francesco Bonami, oltre a un programma al museo MAST con una serie di incontri insieme a professionisti del settore artistico, con varia creatività, graffiti, fumetto (si è parlato anche di fare foto col cellulare). Nel paese dell’arte il più importante giornale di progresso fa un festival e ignora gli artisti. E non può passare inosservato, sempre a giugno, che al Festival di RAI Radio3 a Forlì, dal titolo Arte, Cultura, Lavoro, nessun artista visivo era presente nel programma. Anche se spesso la classe dirigente e politica nomina l’arte come la propria stella polare, anche se centinaia di città sono annunciate da cartelli stradali come “città d’arte” e anche se tutti sono convinti che solo la bellezza e l’arte salveranno il mondo (www.brunellocucinelli.com/it/home.html), gli artisti, che l’arte la fanno, non sono contemplati. Credo, in fondo, che ci sia un misto di imbarazzo e disagio a parlare di arte contemporanea, per molti motivi, e così è meglio evitare di invitare gli artisti. Imbarazzo e disagio perché l’arte di oggi, al di là della Biennale di Venezia e del mainstream, che fanno sempre notizia, è complicata, indigesta e soprattutto impopolare. Forse perché l’arte è pensare in modo sofisticato per mezzo delle immagini, delle forme e dei concetti? È forse il sofisticato che crea problemi? Oppure l’arte di oggi è troppo difficile? Quante persone nella vita mi hanno subito avvertito: ah artista? Mi spiace, l’arte contemporanea proprio non la capisco! E molti sono professionisti, classe dirigente, non gente del popolo o italiani medi. Oppure perché l’arte di oggi è vista come banale – lo sapevo fare anch’io – e ci si ricorda dell’artista visivo o solo quando è maturo (il maestro!) o da defunto (anche perché i prezzi delle opere salgono e allora gli eredi e i collezionisti riscoprono l’artista) oppure quando ha un grande successo e diventa un evento da notizia, da giornale quotidiano? (Mi torna in mente mia nonna Tosca, bolognese, che visse sempre in via San Vitale e conosceva le sorelle di Giorgio Morandi. Non le non prese mai sul serio, tranne quando sentì al TG1 che qualcuno aveva acquistato a un’asta una tela di Morandi, pagandola più di mezzo miliardo di lire…). Nei quotidiani l’arte contemporanea viene presa in considerazione solo quando fa “scandalo”, oppure quando i redattori decidono che è arte commestibile per il grande pubblico. Questo generale sospetto ed esclusione appartiene comunque solo all’arte visiva, non è così per la letteratura contemporanea, per il cinema contemporaneo, per il teatro, la musica, la danza contemporanea. Si può allora azzardare un’ipotesi: il Belpaese, il paese dell’Arte Bella (l’unica cosa che mette d’accordo tutti è la grande bellezza della nostra arte – anche i camorristi e i mafiosi appena possono si circondano di bei quadri classici) è arrivata ad una tale bellezza che quell’apice non può più essere raggiunto. Siamo nati e cresciuti nei centri storici più belli del mondo che hanno rilasciato una specie di imprinting-incantesimo impermeabile ad ogni cambiamento e differenza. L’idea di arte si intende così solo come classica, ideale, virtuosa e irraggiungibile, di un passato lontano, di un paradiso e di una bellezza perdute. L’arte di oggi è ancora vista come difficile, noiosa, portatrice solo di scocciature e conflitti. Se il moderno Van Gogh è oramai entrato nell’Olimpo insieme a Giotto e Michelangelo, è solo perché fa fiori e paesaggi: nei cipressi e negli iris si vedono le belle pennellate (il lavoro!) c’è materia, c’è colore, soprattutto è arte che emoziona. È interessante notare che il gusto comune intende l’arte sempre legata in qualche modo all’emozione mentre tale termine è assolutamente bandito nell’arte contemporanea. L’arte del passato in Italia è un moloch, è un padre non permissivo che tiene ancora i figli per i capelli. Sono grandissime, ad esempio, le difficoltà che si trovano a fare arte contemporanea in Toscana, dove il popolo sente di avere nelle vene lo stesso sangue di Giotto. “Icastica”, una rassegna d’arte contemporanea che si è tenuta per pochi anni ad Arezzo, è stata chiusa a furor di popolo. Sembrerebbe poi che a Firenze ormai chiamino a realizzare mostre solo artisti contemporanei super famosi (Damien Hirst, Jeff Koons, Ai Weiwei, Jan Fabre, Bill Viola), quasi per sbertucciarli. Li si espongono in piazza o nei grandi palazzi, loro confessano che sono solo debitori al Rinascimento Italiano proponendo opere che si relazionano alla capitale del Granducato (“Rinascimento Elettronico” è il titolo della mostra di Bill Viola, Koons si ispira a Bernini, Fabre dialoga col Giambologna) e li si rimandano a casa. Un altro aspetto di imbarazzo e disagio è l’abitudine a non riconoscere l’artista visivo contemporaneo come autore: un caso emblematico è il riuscito progetto di Alessandra Andrini del 2005, il monumento al ciclista Marco Pantani, una grande biglia di plastica collocata davanti alla sede dell’azienda Mercatone Uno (che sponsorizzava il ciclista), visibile dall’autostrada A14. Il giorno dell’inaugurazione la “Gazzetta dello Sport” diede ampio riscontro all’evento in prima pagina, non citando l’artista, l’autrice dell’opera (2). Il quotidiano (sportivo) più letto d’Italia non fece altro che assecondare un sentire diffuso, per cui l’arte è cosa del passato, quindi non reale e se si inaugura un monumento al Pirata a nessuno interessa sapere chi l’ha fatto. Ricordo ancora bene, dopo tanti anni, l’esultanza da curva del pubblico romano –romanesco e romanista– all’Auditorium della Musica durante una interpretazione dell’opera di Ennio Flaiano di Roberto Herlitzka (3). L’attore, mentre recitava un passo dello scrittore di Pescara sull’arte odierna (… se avete in cantina … avanzi di gru metalliche, motorette inservibili, non gettate via niente, tingete tutto di vernice rossa antiruggine e mandate a Venezia…) fu inondato da uno scrosciante applauso liberatorio. L’arte della Biennale rimane in fondo quella del film di Alberto Sordi e della moglie Augusta in Le vacanze intelligenti e spesso fa rima con mondezza. La società diventa però meno distante quando servono soldi: ogni anno agli artisti visivi vengono richieste continue donazioni di opere per aste di varia beneficenza. Ma mai qualcuno che chieda il parere agli artisti sulla città, gli artisti agli incontri, ai dibattiti, ai festival della “cultura”. L’arte fa comodo solo come investimento (sembra che oggi l’unica preoccupazione, quando si acquista un’opera, sia quella di avere il certificato di autenticità, la sola garanzia per rivendere l’arte senza intoppi, un giorno…). Se da una parte l’arte contemporanea è diventata quasi di moda (trent’anni fa l’artista americano Vito Acconci già diceva che oramai era diventata un’affare solo da ricchi), con banche che prendono il loro stand alle fiere di arte contemporanea per orientare gli acquisti in vista di interessanti investimenti, dall’altra c’è grandissima ignoranza e superficialità: nei media generalisti l’arte appare solo se provocatoria, o utile a qualche causa (asili, immigrati, ecologia, sguardo al Passato), oppure si vira sulla Street Art, grande mattatrice degli ultimi anni, che ha invaso le città (costa poco ed è di grande effetto), che forse incarna la vera rivincita del gusto del popolo sull’arte “difficile” degli intellettuali. Due anni fa ho telefonato a Enel (ma non è socio del Museo MAXXI di Roma?) per il contratto del mio nuovo studio a Savigno. La gentile signorina mi chiese che attività svolgessi. Scultura e pittura, sono un artista risposi. L’addetta di Enel disse subito che non esisteva la voce artista e mi pose subito davanti ad una scelta: la metto fra gli artigiani o i liberi professionisti? Per Enel, come in generale per il Belpaese, l’artista è una persona non reale, che non esiste e che comunque è meglio che rimanga al buio.
Note
- Joseph Kosuth, L’arte dopo la filosofia, Costa & Nolan, 1987
- Alessandra Andrini mi ha confermato l’incredibile fatto.
- Il minore ovvero preferirei di no. Una lettura in tre atti dall’opera di Ennio Flaiano, con Roberto Herlitzka a cura di Luca Sossella, regia di Jacopo Gassmann.
Testo pubblicato su DoppioZero:
http://www.doppiozero.com/materiali/fare-larte-ci-vuole-lartista
L’arte e la fondazione (di Roma)
Un grande palazzo del centro ha aperto le porte della sua collezione con un nuovo allestimento della quadreria antica e moderna. Una classica quadreria di una fondazione bancaria (l’arte nelle fondazioni ha sempre un ruolo) che col possesso di opere forse cerca di alleggerire il suo compito decisamente materiale e disinvolto: i giuochi di luce di tutti i panni e panneggi dei vari personaggi antichi, compresi i santi, servono a supportare spiritualmente le grandi istituzioni della nostra civiltà. Le opere nella sede in una banca oltre a svelare l’indissolubile legame dell’ambiente del denaro e del potere con l’arte, intesa come investimento e celebrazione di un’idea di società e di cultura, sanciscono definitivamente la sconfitta di quest’ultima che non ha per nulla inciso, nonostante l’Italia ne sia piena, sulla storia moderna e contemporanea del Belpaese. Se c’è uno stato nell’Occidente lontano dalla cultura intesa come cura della conoscenza, dell’intelletto e dei saperi e soprattutto del loro riconoscimento cui l’arte mira, questo è proprio il nostro. Messa velocemente fra parentesi la figura dell’artista maledetto, solitario, reietto e scomodo, oggi, come il ieri dei Carracci, l’arte diventa giusto una conferma di potere e magnificenza. L’arte classica poi -quando qualcosa diventa classico diventa assolutamente innocuo- è finita per essere, nonostante i suoi significati originali, giusto un passatempo fra i divani del salotto del Buon Gusto dove si parla sempre del Bello e della Bellezza che un giorno, dopodomani, salverà il mondo. A forza di ammirare la luce dei Caravaggio, dei Guido Reni e dei Guercini che abbaglia perfino i camorristi, siamo diventati un paese con un rapporto problematico e sospettoso quasi di imbarazzo con l’arte del proprio tempo. Le quattrodici scene dei Carracci del fregio della Storie della Fondazione di Roma del grande palazzo bolognese forse ci confermano che nonostante siano tutti capolavori, le opere antiche, non si sa come e nemmeno il perchè, si prestano comunque oramai a supportare e a condurre a una visione ingessata e ferma nel tempo. Il racconto delle gesta e dei miti del passato– che nell’epoca moderna hanno fatto solo danni- narrati da altissima pittura non può che rivelarsi una storia, a volte storiella, comoda, amabile e giusto gradevole a cui siamo abituati da secoli. Solitamente le opere -ora è il momento del Nettuno- sono oscurate e sottratte alla vista del pubblico per il loro restauro. Si potrebbe invece coprire per un periodo, una specie di anno sabbatico, il fregio dei Carracci della sala delle Storie della Fondazione di Roma con una sorta di impalcatura, una struttura provvisoria, una grande fodera con legni che impedisca di farci sedurre dalle nobili gesta di Romolo, Remo, Amulio e Acrone. E che ci faccia comprendere, giusto per un anno, il senso illusorio dell’arte antica del quale il paese è da troppo tempo ammaliato.