Desirée Maida – Il suo seminario verterà intorno alla banconota, intesa come oggetto veicolo di immagini e soprattutto oggetto dei desideri ed elemento indispensabile per il proprio sostentamento. Che significato assume oggi il denaro e che simbologie assume nella sua ricerca artistica (mi riferisco alla sua opera Half Dinar)?
Flavio Favelli – Questo interesse per la banconote oltre che venire dal nonno collezionista, è una passione per le immagini perchè va detto che sulle banconote si condensa l’idea di potere di un paese e questo credo sia una faccenda molto interessante. Mi soffermo sulle immagini perchè credo che siano “belle”, ed è una bellezza ambigua e questo è un ingrediente molto importante. La banconota che dipingerò sarà un’opera che riflette le immagini e la loro complessità in rapporto alla mia psiche. Il significato letterale e sociale viene dopo e non è mai il mio primo interesse. Voglio dire che scelgo di lavorare su certe banconote perchè sono enigmatiche per loro natura e non perchè sono “i soldi”. Certo sono anche “i soldi”, ma questa è una considerazione che viene dopo.
Mi interessano le banconote degli anni 70 e 80 perché sono gli anni per me originari e perchè il mondo ha sperimentato e vissuto momenti molto intensi. Ho scritto da poco: “La banconota, soprattutto in passato quando non c’era il bancomat, è sempre stato l’oggetto più usato e maneggiato quotidianamente, come il pane, eppure è il meno conosciuto. Chi si ricorda le 10.000 lire con il busto di Andrea del Castagno in uso per quasi dieci anni? Chi ha notato le 500.000 lire con Raffaello? L’oggetto più importante e più usato è il meno ricordato e spesso ha a che fare con immagini d’arte.“
Half Dinar è un’opera straniante che parte dall’immaginario della mia esperienza.
DM – Può accennarci qualcosa su come si svolgerà il seminario? Come saranno organizzate le “lezioni”? Come immagina che sarà questa esperienza?
FF – Sono sempre in cerca di “cose” che vadano oltre l’opera e la mostra, anche se la prima per me è centrale: senza l’opera, che per me è un’immagine fissa e densa di ingredienti psicologici, non sta in piedi nulla. Allora ho pensato che in uno spazio ibrido come l’Ex Atr oltre al dipinto Half Dinar e alla scultura composizione-assemblaggio, ci poteva stare una piccola mostra di disegni dei migranti africani. Devo dire che queste due parole –migranti africani- non sono semplici da dire oggi. Non amo l’arte che ha un fine diciamo positivo e un destinatario preciso (dai cittadini alle minoranze), nè tanto meno l’arte partecipativa e nemmmeno l’arte con una preoccupazione sociale (penso che molte opere libere abbiano un significato sociale e politico molto più intenso che quelle dichiaratamente di Arte Pubblica). Detto questo un giorno mi sono trovato davanti a dei migranti africani (il fatto che abbia in qualche modo una relazione con loro è un segno) che – secondo una persona – erano poco capaci (per natura?) di lavorare. Ammesso che sapere lavorare sia una cosa assolutamente positiva, ho pensato spontaneamente che sarebbe stato interessante dare a queste persone una matita anzichè il badile o la ramazza (gli unici strumenti ammessi quando si pensa a loro). Grazie alla collaborazione con la Cooperativa Dialogos di Forlì inizieremo la settimana prossima una specie di esercitazione-seminario per cercare di fare disegnare delle banconote, quelle che loro ricordano o che usano; l’Africa ha una storia complicata e complessa sulle banconote. Alla fine il progetto è quello di avere una decina di disegni per fare una piccola mostra sulle banconote africane fatte da questi migranti che immagino ci racconteranno anche molte cose.
Credo che un’operazione del genere tocchi diverse questioni: innanzitutto scoprire e capire il loro punto di vista e poi anche cercare di comprendere un immaginario denso e molte differente. Per me artista molto distante dall’Arte Pubblica, questo progetto mira ad avere immagini inedite, (c’è un’immagine più inedita di una banconota africano disegnata da un migrante africano?) opere (se deciderò che la mostra sarà anche un mio progetto saranno opere a tutti gli effetti) che tenteranno di dare un differente punto di vista da quello che di solito si conosce dell’Africa.
È anche utile ricordare che i primi ad occuparsi in un certo modo di arte africana sono state le avanguardie artistiche (è forse questo battezzo particolare che ha dato il via alle collezioni africane nei salotti, che le ha liberate dalla patina antropologica troppo noiosa). Ma forse anche questo progetto mira a tentare di sondare il magico e il misterico africano, quello di oggi. L’immaginario e l’arte di un migrante africano sciabottato fra Terzo Mondo e Internet, fra deserto e foresta, fra campi di detenzione e CIE, fra vecchi villaggi e bidonville, fra centri di accoglienza e slums è meno vero delle maschere? Forse questo progetto è una specie di controaltare a tutta quella enorme questione delle maschere africane che ogni illuminata e benestante famiglia alto borghese occidentale ha in casa, generalmente convinta di avere uno “spirito” arcaico e originario di quella faccenda così interessante che ruota attorno alla magia e al sacro. E si potrebbe anche dire che quelle maschere vere – che c’è più vero di una maschera africana? – e originali (che si comprano alle aste e dagli antiquari) vengono da un milieu con un grado di primitivismo spesso simile a quello che si affibbia a questi africani di oggi. E allora potrebbe essere interessante mettere in relazione questi due aspetti il primo così “alto” e il secondo così “basso”.
D’altra parte ne stiamo discutendo per la prima volta con Davide Ferri e anche con Claudio Angelini: sta venendo fuori una faccenda molto seria che mette in relazione molte cose. E forse scopriremo che uno del Mali è anche un Dogon.