Half Dinar, un seminario di disegno con i migranti

Linda Chiaramonte, collaboratrice del quotidiano Il Manifesto, intervista Flavio Favelli sul workshop di disegno con i migranti correlato alla mostra “Half Dinar” presso EX ATR, Forlì.

LC – Com’è andata con i ragazzi del workshop?

FF – Sorprendentemente bene. Hanno partecipato con passione, alla mostra si fotografavano continuamente coi loro disegni.

LC – Alcuni dati pratici: quanti sono, da quali paesi arrivano, com’è nata l’idea, e soprattutto come si è svolto, (nel senso: al primo incontro com’è andata? hai dato loro in mano carta e matite, colori? se ti va di raccontarmi le varie fasi del lavoro fatto insieme).

FF – Erano diciotto, dalla Nigeria, Mali, Gambia, Cameroun, Guinea Bissau e Somalia. Mesi fa sono stato al Comitato per la Lotta Contro la Fame del Mondo a Forlì, centro di raccolta missionario che sostiene progetti nel Sud del mondo. Frequento il Centro da tempo, mi interessano molti materiali che selezionano con ordine; quello che di solito si butta, loro lo conservano per venderlo per sostenere i loro fini. Stavo prendendo degli specchi, quando un operatore locale ha chiesto un aiuto a dei giovani uomini africani che stazionavano al Centro. Questi, un po’ impacciati, hanno iniziato a caricare nell’auto gli specchi. Ho pensato così alle frequentissime polemiche sul cosa e come fare lavorare gli immigrati, di solito occupazioni di fatica associate a badili, scope e ramazze. Lavori sempre umili che sono oramai di pertinenza degli stranieri dei paesi poveri. Soprattutto gli africani spesso bollati come inabili e inadatti al lavoro per natura.
Ho pensato così a cosa succederebbe a dare una matita in mano a questi neri africani, che sono i meno considerati (sicuramente dei magrebini o dei medio orientali, islamici). Ho così pensato di fare un seminario-esercitazione di disegno sui soldi, uno degli oggetti più desiderato e grande veicolo di immagini. Così Città di Ebla si è messa in contatto con Dialogos e hanno trovato donne e uomini interessati a partecipare a questo seminario. Il primo giorno ci siamo conosciuti e poi hanno iniziato a disegnare, fra timori ed incertezze, copiando dalle fotocopie o dai loro smartphone, le banconote che avevano scelto.

LC – Mi ha colpito molto la frase: “con un foglio e una matita in mano siamo tutti uguali” senza differenza di razza colore ecc… mi dici qualcosa su questo?

FF – Le matite Giotto erano famose per l’illustrazione nella scatola-astuccio dove un pastorello – Giotto da ragazzo – disegnava con perferzione un agnello. L’italiano è cresciuto così, col mito del grande artista che sapeva disegnare e dipingere e da allora chiunque si trovi davanti ad un foglio bianco viene attraversato dai fantasmi che ha nelle vene – Giotto, Michelangelo, Raffaello – perché l’arte, il disegno, la pittura significa bellezza intesa come armonia. Davanti ad un foglio bianco con una matita in mano certo, siamo tutti uguali, perché sperimentiamo che il disegno, tradisce, nonostanti gli sforzi, parte di noi.

LC – Cosa ti ha restituito come artista questa esperienza? E a loro, e a noi pubblico?

FF – I paesi di loro provenienza sono paesi dove ci sono molti problemi e probabilmente molti di loro hanno avuto poco tempo per se stessi e sicuramente per disegnare.
Credo che disegnare “senza sapere disegnare” (ma è un falso problema, gli artisti fanno opere d’arte, i pittori i quadri e gli scultori le sculture) sia un grande lusso che pochi si possono permettere e penso che questo tempo prezioso passato in questo seminario sia importante perché è strappato agli obblighi martellanti della vita di oggi. Ho conosciuto persone, nonostante siano generalmnete giovani, con storie “lunghe”, complesse e drammatiche. Mi piace pensare che questi disegni portino con sé immagini e riflessi di un continente così complicato e intenso, lontano e anche dannatamente vicino.
Bisognerebbe iniziare a pensare e a comprendere che l’Africa è una nostra (lo dico da occidentale) creatura; non c’è più nulla di africano, forse qualche savana e qualche km di deserto, ma il resto, tutto ciò che concerne l’umano è stato timbrato e vidimato (marchiato?) dalla nostra parte di mondo. Ecco perché “aiutamoli a casa loro” anche se sembra un’idea ragionevole, è una banale e triste illusione. Casa loro non c’è più, c’è solo la nostra, con qualche cantina o solaio.
Per cercare di rispondere, come artista non sono mai tanto preoccupato del pubblico, per l’artista – è questo il suo ruolo – il fine è seguire le sue immagini. Che queste a volte abbiano la fortuna (o sfortuna?) di incontrare il favore delle persone, del popolo, della gente è una questione non così semplice.
Questo progetto nasce per costruire nuove immagini senza mediazioni, è una questione della mia arte e dell’arte.

LC – Come dialoga e si inserisce con il lavoro artistico svolto finora? Cosa cambia nel tuo sguardo, se lo cambia?

FF – Direi che questo tentativo di dare dei punti di vista diversi e non ortodossi alla banconota, oggetto chiave della nostra storia, è una pratica che ho intrapreso da anni. Ho fatto grandi tele, collage, incisioni sui soldi, carta (moneta) che spesso incontra l’arte.
Anni fa volevo dipingere una grande banconota (le 500.000 lire con Raffaello) su una parete di una casa abbandonata a Savigno dove abito, l’edificio apparteneva ad una fondazione legata alla Chiesa e il prete del paese non mi diede il permesso, perché l’immagine del denaro non gli piaceva. Considerando che il patrono di Savigno è San Matteo, proprio il patrono dei banchieri, mi è sembrata una bella storia da raccontare.

LC – Credi di proseguire su questa linea?

FF – Sto pensando di organizzare un altro seminario, con persone differenti, sempre con questo soggetto della banconota.

LC – Quanto al tuo lavoro, come hai spiegato la tua poetica ai ragazzi?

FF – Alla fine loro erano interessati a fare, a disegnare. Credo che l’importante per loro sia stato il poter passare dei momenti diversi rispetto alla banconota. Replicarla, copiarla, cambiarla, riformarla, è un momento creativo e di riflessione che credo sia necessario oltre che a loro a tutti in un momento di grande confusione generale.

LC – Mi potresti raccontare la storia di quel nonno somalo di uno di loro che parlava italiano? mi sono persa una parte del racconto…

FF – Afrah viene dalla Somalia, un paese instabile da decenni. Suo nonno parlava italiano perché la Somalia era colonia italianae anche dopo, nonostante l’Italia avesse perso la guerra dal 1950 al 1960 l’ONU assegnò al nostro paese l’amministrazione della ex colonia. Mi è sembrato veramente beffardo il destino di Afrah, che aspetta un documento di asilo da un Italia che ha invaso il suo paese dalla fine dell’ottocento fino al 1940 circa e che fino negli anni Settanta (!) le banconote recavano la scritta Banca Nazionale Somala.

Un seminario di disegno con i migranti

Desirée Maida – Il suo seminario verterà intorno alla banconota, intesa come oggetto veicolo di immagini e soprattutto oggetto dei desideri ed elemento indispensabile per il proprio sostentamento. Che significato assume oggi il denaro e che simbologie assume nella sua ricerca artistica (mi riferisco alla sua opera Half Dinar)? 

Flavio Favelli – Questo interesse per la banconote oltre che venire dal nonno collezionista, è una passione per le immagini perchè va detto che sulle banconote si condensa l’idea di potere di un paese e questo credo sia una faccenda molto interessante. Mi soffermo sulle immagini perchè credo che siano “belle”, ed è una bellezza ambigua e questo è un ingrediente molto importante. La banconota che dipingerò sarà un’opera che riflette le immagini e la loro complessità in rapporto alla mia psiche. Il significato letterale e sociale viene dopo e non è mai il mio primo interesse. Voglio dire che scelgo di lavorare su certe banconote perchè sono enigmatiche per loro natura e non perchè sono “i soldi”. Certo sono anche “i soldi”, ma questa è una considerazione che viene dopo.
Mi interessano le banconote degli anni 70 e 80 perché sono gli anni per me originari e perchè il mondo ha sperimentato e vissuto momenti molto intensi. Ho scritto da poco: “La banconota, soprattutto in passato quando non c’era il bancomat, è sempre stato l’oggetto più usato e maneggiato quotidianamente, come il pane, eppure è il meno conosciuto. Chi si ricorda le 10.000 lire con il busto di Andrea del Castagno in uso per quasi dieci anni? Chi ha notato le 500.000 lire con Raffaello? L’oggetto più importante e più usato è il meno ricordato e spesso ha a che fare con immagini d’arte.“
Half Dinar è un’opera straniante che parte dall’immaginario della mia esperienza.

DM – Può accennarci qualcosa su come si svolgerà il seminario? Come saranno organizzate le “lezioni”? Come immagina che sarà questa esperienza?

FF – Sono sempre in cerca di “cose” che vadano oltre l’opera e la mostra, anche se la prima per me è centrale: senza l’opera, che per me è un’immagine fissa e densa di ingredienti psicologici, non sta in piedi nulla. Allora ho pensato che in uno spazio ibrido come l’Ex Atr oltre al dipinto Half Dinar e alla scultura composizione-assemblaggio, ci poteva stare una piccola mostra di disegni dei migranti africani. Devo dire che queste due parole –migranti africani- non sono semplici da dire oggi. Non amo l’arte che ha un fine diciamo positivo e un destinatario preciso (dai cittadini alle minoranze), nè tanto meno l’arte partecipativa e nemmmeno l’arte con una preoccupazione sociale (penso che molte opere libere abbiano un significato sociale e politico molto più intenso che quelle dichiaratamente di Arte Pubblica). Detto questo un giorno mi sono trovato davanti a dei migranti africani (il fatto che abbia in qualche modo una relazione con loro è un segno) che – secondo una persona – erano poco capaci (per natura?) di lavorare. Ammesso che sapere lavorare sia una cosa assolutamente positiva, ho pensato spontaneamente che sarebbe stato interessante dare a queste persone una matita anzichè il badile o la ramazza (gli unici strumenti ammessi quando si pensa a loro). Grazie alla collaborazione con la Cooperativa Dialogos di Forlì inizieremo la settimana prossima una specie di esercitazione-seminario per cercare di fare disegnare delle banconote, quelle che loro ricordano o che usano; l’Africa ha una storia complicata e complessa sulle banconote. Alla fine il progetto è quello di avere una decina di disegni per fare una piccola mostra sulle banconote africane fatte da questi migranti che immagino ci racconteranno anche molte cose.
Credo che un’operazione del genere tocchi diverse questioni: innanzitutto scoprire e capire il loro punto di vista e poi anche cercare di comprendere un immaginario denso e molte differente. Per me artista molto distante dall’Arte Pubblica, questo progetto mira ad avere immagini inedite, (c’è un’immagine più inedita di una banconota africano disegnata da un migrante africano?) opere (se deciderò che la mostra sarà anche un mio progetto saranno opere a tutti gli effetti) che tenteranno di dare un differente punto di vista da quello che di solito si conosce dell’Africa.
È anche utile ricordare che i primi ad occuparsi in un certo modo di arte africana sono state le avanguardie artistiche (è forse questo battezzo particolare che ha dato il via alle collezioni africane nei salotti, che le ha liberate dalla patina antropologica troppo noiosa). Ma forse anche questo progetto mira a tentare di sondare il magico e il misterico africano, quello di oggi. L’immaginario e l’arte di un migrante africano sciabottato fra Terzo Mondo e Internet, fra deserto e foresta, fra campi di detenzione e CIE, fra vecchi villaggi e bidonville, fra centri di accoglienza e slums è meno vero delle maschere? Forse questo progetto è una specie di controaltare a tutta quella enorme questione delle maschere africane che ogni illuminata e benestante famiglia alto borghese occidentale ha in casa, generalmente convinta di avere uno “spirito” arcaico e originario di quella faccenda così interessante che ruota attorno alla magia e al sacro. E si potrebbe anche dire che quelle maschere vere – che c’è più vero di una maschera africana? – e originali (che si comprano alle aste e dagli antiquari) vengono da un milieu con un grado di primitivismo spesso simile a quello che si affibbia a questi africani di oggi. E allora potrebbe essere interessante mettere in relazione questi due aspetti il primo così “alto” e il secondo così “basso”.
D’altra parte ne stiamo discutendo per la prima volta con Davide Ferri e anche con Claudio Angelini: sta venendo fuori una faccenda molto seria che mette in relazione molte cose. E forse scopriremo che uno del Mali è anche un Dogon.