Il Manifesto

Il manifesto del 2016 dell’Associazione tra I familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 è praticamente uguale agli ultimi 33 manifesti degli ultimi 33 anni. Nella frase posizionata in basso, la sola cosa diversa ad ogni anniversario, recita: Il paese deve sapere chi tramite Licio Gelli fu tanto determinato contro la democrazia da finanziare una strage di 85 morti e 200 feriti.
La parte superiore del manifesto è sempre la stessa, c’è la data e un titolo: Strage fascista alla stazione di Bologna, con 85 morti e 200 feriti in colore rosso. L’aggettivo fascista c’è dal 1994. La foto centrale è invece la medesima da 34 anni: la lapide della Stazione, quella interna con la parete lacerata a destra; i lati sono neri e sotto c’è il buco della bomba sul pavimento di mosaico con balaustra di acciaio a protezione. In basso all’angolo sinistra appare l’ultima parte di una panca, quelle che si usavano dagli anni Sessanta, composta da sedie e se ne vedono tre. Un’immagine per nulla cercata, nè studiata, presa al volo, amatoriale, con la luce non uniforme e con ombre che disturbano il soggetto. Il fondo del manifesto è bianco e tutto l’insieme ricorda una copertina di un libro Einaudi. Nel complesso è un manifesto vetusto, annoso, con un’immagine spigolosa, a tratti respingente, con testi duri e un linguaggio datato. E’ un manifesto con nessuna attenzione alla comunicazione; si vede subito dalla seconda riga: in Italia l’accusa di fascismo irrita già la maggioranza del paese. Si può comunicare un fatto del genere in modo differente? Magari con creatività e stile per divulgare, trasmettere, diffondere e per non dimenticare? Come fare per dire di quella data, l’inizio degli anni Ottanta, in pieno anni di Piombo, coi tram col muso che sembravano un cappello di polizia, come il 37 che divenne un carro funebre, col suo rumore da guerra fredda? Anni fa qualcuno voleva che il Museo per la Memoria di Ustica si chiamasse Memorial; un nome che cercava di alleggerire la faccenda, un nome più moderno – la lingua inglese è sempre più moderna della nostra – che sapeva anche di linguaggio sportivo, forse per cercare di alleviare la pesantezza di una vicenda che divide ancora. Ma c’è qualcosa che può sollevare un DC-9 affondato in quasi quattromila metri di mare? Forse il ricordo, la maledetta memoria della bomba del 2 agosto 1980 – il mese delle vacanze – può essere rappresentata solo da una grafica spigolosa, raccontato da testi duri, quasi desueti e per nulla social, mal confezionati per oggi. O da una foto che svela un pavimento di mosaico severo, povero, ma non so perchè elegante, una foto venuta male, che prende per sbaglio una panca della sala d’aspetto, quelle rigide, di legno curvato e scomode, forse di seconda classe e che non sapevamo ancora che fosse design.

L’arte site specific

L’arte contemporanea va sempre difesa e discussa, perché a differenza di quella del passato, dovrebbe essere più libera e soprattutto più articolata, più complessa.

Bisogna quindi difendere i tre semplici e nudi festoni, che di festa hanno poco, dell’artista Luca Vitone? Anche se la difesa diventa difficile e la questione è molto spinosa? Chi semina vento raccoglie tempesta e se la tempesta viene da ambienti impegnati e attenti alla memoria del Paese, qualcosa non va.

Se un’opera d’arte viene pensata con un fine educativo e civico e s’incammina nell’orizzonte della verità o della giustiza, rischia di perdere la sua essenza e forse diventa semplice, troppo semplice e così anche fragile.

Il passo falso dell’arte che si avvicina alla politica e alla realtà è quello di prendere una posizione, dimenticando che l’arte contemporanea è una faccenda ampia, è meta-arte e anti-arte al tempo stesso. Perché dare all’opera un fine, uno scopo, un colore, un compito? Perché comprimerla in anguste paratie del bene contro il male, della giustizia contro l’iniquità? Più un’opera è autonoma, più si porterà dentro naturalmente questioni decisive del nostro tempo e del nostro vivere, magari senza risposte, ma con molte domande. Se Vitone si fosse fermato a sottolineare l’ispirazione al quadro di De Chirico (ma perché gli artisti devono sempre citare i maestri?) avrebbe sicuramente reso sospeso e metafisico il significato dell’opera. Fra segni esoterici e triangoli deisti ognuno avrebbe discusso col proprio demone.

Invece si vuole racconta la storia della P2 e dice l’autore: “come cittadini italiani dobbiamo sentirci responsabili della sua presenza e rivelarla”.

L’artista così diventa un cittadino impegnato con spirito critico.

L’abitudine degli artisti a raccontare i fatti oscuri del Paese col fine, forzato, di fare chiarezza (non cercheranno per caso la verità?) è sempre più d’uso.

L’artista non interpreta il mondo col suo punto di vista, ma diventa un mero traduttore, un semplice cronista attento alla bontà del suo operato.

Con quest’opera, poi, ci si vuole richiamare alle feste religiose del Sud Italia, con tre esili festoni. Chi ha visto le monumentali e assordanti costruzioni di luminarie di Scorrano nel Salento, si renderà conto di quanto sia inadeguato il paragone.

L’arte di oggi non cerca la meraviglia e lo stupore, così cari al pubblico, che gli apparati della tradizione religiosa creano, e ne patisce le conseguenze.

Bologna è una città ostica all’arte contemporanea e quindi se si vuole fare un’opera attenta al contesto, site specific, come vuole il cerimoniale dell’arte pubblica, bisogna conoscerlo. Bisogna sapere che la ferita del 2 Agosto a Bologna è aperta.

Bisogna sapere che ad ogni anniversario in Piazza Medaglie d’Oro, l’aria è tesa e sono ancora le 10 e 25.