Si apprende sui giornali che nel programma de La Casa dei Pensieri della festa dell’Unità, alla voce arte, ci sono quattro invitati: due indiscussi artisti, Pierpaolo Calzolari e Concetto Pozzati e due storici dell’arte, Eugenio Riccomini e Andrea Emiliani. Uno di settanta anni e gli altri tre prossimi agli ottanta.
Alla festa nazionale dell’unico importante partito di progresso italiano risalta questa scelta focalizzata sul passato. Tipico della credenza tutta italiana è il pensiero che l’artista sia tale quando è un saggio maestro o da defunto.
Questo cliché appartiene solo all’arte visiva, non è così in letteratura, nel cinema, nel teatro e nella musica. E questo per via del nostro inestimabile patrimonio che acceca e affossa ogni pratica nuova dell’arte. Il risultato, nello scacchiere odierno, è che un’opera di un artista britannico vivente prossimo ai 50 anni costa molto di più di un capolavoro del Guercino. Se si invitano, poi, solamente due storici dell’arte, notoriamente distanti dall’arte contemporanea, si marca proprio questa tradizionale estraneità del Paese alla cultura dell’immagine del nostro tempo, oramai monopolizzata dalla TV e dalla cultura generalista di internet e della stampa.
Se c’è un pensiero, duro a morire, in Italia, è quello che l’arte contemporanea sia una specie di inganno; direi lo stesso tipo di un atteggiamento sospetto di un mussulmano integralista verso l’occidente. In entrambi casi è beata ignoranza.
L’arte contemporanea è spesso vista come trascurabile, chiusa in un mondo snob e criptico, abitato da intellettuali radical-chic. Impera lo sapevo fare anch’io o il nessuno sa più dipingere. Mentre i fari indiscussi della cultura, Regno Unito e Stati Uniti, investono nell’arte di oggi, in Italia il picco della discussione, oggi, verte se spostare o meno i Bronzi di Riace dal garage di Reggio Calabria, – perché la nuova sala dove sono collocati sembra un garage –, all’Expo di Milano.
D’altra parte, il partito, non ha mai manifestato tanto interesse per l’arte. All’ombra di Guttuso c’è sempre stato poco, forse perché la figura dell’artista, per via del suo personalismo, non si integra tanto con l’idea dell’Unità.
L’arte, invisa ai conservatori, spesso sbeffeggiata dai media, ostaggio del mercato, dalle fiere e dallo star system internazionale, confusa dalle schiere di creativi e graffitisti, è così calpestata.
La cultura dell’immagine ha sempre interessato poco la sinistra, ieri come oggi.
Se il colosso Unipol, da sempre vicino al partito, nel suo spazio d’arte mostra i quadri di Carlo Levi, una specie di Guttuso, ma più triste, si capisce meglio la storia del Paese.
Il resto, da tempo, lo fa Mediaset. Anche a Bologna.