Il 30 novembre scorso sono stato a trovare mio padre. Da un anno a questa parte ci vado circa una volta al mese. Prima ci andavo una volta ogni tre mesi. Oramai ci telefoniamo poco, una volta ogni quindici giorni. È tanto che non gli scrivo, da quando è venuto l’euro poi non gli ho mandato nemmeno le cartoline, forse perché sono legato a quelle che gli spedivo quando ero bambino coi francobolli della Turrita o Siracusana coi colori densi, netti [1].
Termina così Mario Fortunato il suo scritto “Il vestibolo nudo” nel 2005: Ed è appunto al padre, a questa figura sgranata ma anche straordinariamente nitida, che tutta la ricerca di Favelli pare rivolgersi [2].
Ho riletto spesso il suo testo. Dopo non ho più rivisto Mario, forse che ci siamo tenuti a distanza? Come se gli avessi offerto un fianco e lui avesse capito.
Simone Menegoi mi telefonò poche ore prima di mandarmi il testo per questa pubblicazione e mi disse che potevo cambiare o togliere certe parti, evidentemente c’erano cose che mi avrebbero potuto colpire o che non avrei avuto piacere che fossero pubblicate.
Lessi di un fiato. Gli dissi che andava bene così. Rimasi impressionato da una parte:
- mi parlò dell’evento traumatico che aveva spezzato in due la storia della sua famiglia: la malattia psichica di suo padre… Mi diceva queste cose pacatamente, con un distacco consumato, non privo di sfumature ironiche. Mi diede l’impressione di averle già raccontate molte altre volte.
È vero, le ho raccontate con consapevolezza molte volte e questo dalla fine degli anni novanta. Per circa venticinque anni non ne avevo mai parlato con nessuno con una certa chiarezza.
Nemmeno con mia madre, perché non si poteva parlare dell’aria che si respirava. Con lei quando lo si nominava si diceva Manlio e non mio padre, lei lo chiamava Manlio non suo marito. Ottenne il divorzio e l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota, sulla sua carta d’identità c’è scritto nubile, per lo Stato sono figlio di ragazza madre da quando avevo dieci anni.
Come tutte le volte che vado a trovare mio padre sono partito verso mezzogiorno per Gavinana, frazione di San Marcello Pistoiese. La Montagna Pistoiese è un mondo duro e spesso triste sempre uguale da quando ero bambino tranne che per le donne slave, polacche e moldave che in questi ultimi anni hanno invaso il territorio.
Mio padre vive in un Centro Socio Sanitario da più di una decina d’anni. Questa volta l’ho trovato stanco, con difficoltà a camminare e curvo.
Si è sorretto a me appena mi ha visto e ha subito addentato un pezzo di pizza che con due pezzi di focaccia era tutto quello che avevo portato e che comunque mi aveva chiesto.
Mangiava avidamente, l’arcata gengivo-dentaria quasi usciva dalla bocca – come un cane rabbioso – per non sporcarsi di pomodoro o di unto, ma è come se si fosse scordato che doveva anche camminare e le gambe hanno ceduto, non d’un tratto, ma a poco a poco come se si stessero dolcemente sgonfiando.
Avvertito il peso che aumentava sul mio braccio ho serrato i muscoli e l’ho sorretto.
Sostenere un peso quando il braccio è alzato sollecita soprattutto il deltoide oltre ai dorsali: le braccia sono state sempre il mio punto debole e questo era l’esercizio più doloroso e noioso quando andavo in palestra, alla Atlas in via Oberdan a Bologna. Appeso all’avambraccio, come uno strano animale dinoccolato a un ramo, Manlio Favelli ha continuato ad addentare la preda/focaccia come una bestia feroce o un bambino arrabbiato o come un matto perché mio padre è matto da tanto tempo. Non danno scampo i termini della perizia psichiatrica del 16 gennaio 1976:
soggetto eristico, logorroico, con interpretazioni non adeguate della realtà, soggetto a sindrome fobico-ossessiva con imponenti note ansiose ipocondriache, soggetto a sindrome distimica in fase ipomaniacale, fino alla finale diagnosi di sindrome delirante di tipo schizofrenico e schizofrenia paranoidea.
Spesso mi immergo nella grande quantità di documenti, dichiarazioni, relazioni, certificati del tribunale, della Magistratura, del Ministero, di avvocati, giudici, medici, psichiatri, tutori e funzionari. Chili di carte in carta velina, intestata, timbrata, bollata, protocolli, ricevute e fotocopie, tante fotocopie in carta chimica, lucida, grigia chiara. E poi tante lettere e cartoline mai partite, viaggiate, tassate, vidimate dal carcere o dal manicomio.
Babbo, stai per cadere.
L’ho sempre chiamato babbo. Babbo lo rassicura e rassicura soprattutto la situazione, ristabilisce i ruoli. Babbo per lui è come un richiamo della foresta, conferma un’idea e uno stato spesso messa in discussione dalla Situazione. La Situazione è peggiorata per via dell’ambiente di lavoro, le Ferrovie dello Stato e poi i miei nonni materni, i suoi suoceri, che hanno messo contro di lui anche mia madre. Così la Situazione è esplosa definitivamente. Per chiarirla, esaminarla, discuterne e risolverla mio padre ha lottato per quasi quarant’anni.
E per quasi quarant’anni ho dovuto fare un doppio gioco come un agente 007 al servizio della mia sopravvivenza. Ho giocato, come si dice, di rimessa, per parare i colpi, ma anche barato e mentito, sviato, temporeggiato. Mia madre, amante della Storia Classica, mi ha sempre parlato di Quinto Fabio Massimo console romano, detto il temporeggiatore.
Ho passato così trentotto anni cercando di rimandare ogni cosa. Da bambino dovevo fare i compiti, andare in gita con la mamma, andare al mare o andare a trovare i nonni, da grande c’era l’Università, gli amici, i viaggi, la meritata estate e poi il lavoro. Ad ogni iniziativa di mio padre rispondevo cercando di impastare tutto di burocrazia, carte che non si trovavano, permessi scaduti, perizie non confermate, inettitudine dei giudici, lentezza delle Poste, tradimento della mamma, inefficienza del nostro avvocato, intransigenza del loro avvocato. Già, il nostro-loro avvocato. A volte alleato, a volte nemico.
Da quando avevo sette anni il rapporto con mio padre è stato ambiguo. Era il male che aveva offeso mia madre, ma al tempo stesso io ero il suo angelo. Se l’era presa con tutti tranne che con me. Anche se non poteva – era interdetto – veniva a Bologna per cercarmi e io fuggivo.
Mia madre malediceva Basaglia che aveva aperto i manicomi. Che ne sapeva Basaglia dei matti, che ne sapeva di mio padre?
Lo sorreggo fino al letto, non è pesante oppure sono i miei muscoli che si sono attivati, quando sono in emergenza i muscoli tirano di più, in certi momenti si diventa più forti, inaspettatamente più forti.
Il 6 febbraio 1978 mio padre si arrampicò al primo piano di Via Guerrazzi dove abitavo.
Mi ricordo tutto molto bene. Lo portarono via tre agenti di polizia con le pistole in pugno dopo avere sfondato la porta della mia camera, cercando di mantenere una voce calma e formale:
Signor Favelli, apra.
Nel 2001 feci una mostra alla Galleria Maze di Torino dove esponevo tre porte, quella della mia camera da letto, quella della camera di mia madre e quella del salotto che avevo preso dopo che l’appartamento era stato ristrutturato nel 1993. La mostra si chiamava Archivio. Nessuno le comprò, non mi ricordo nemmeno il prezzo, ammesso che ne avessero uno.
Spesso quando tornavo a casa guardavo la grande inferriata della finestra del piano terra che dava sulla strada. Mio padre si era arrampicato alla grata e poi si era tirato su con un colpo di reni per aggrapparsi alla ringhiera della porta finestra della mia camera del primo piano di un palazzo del 1600.
L’impressione di Simone è vera: mi diede l’impressione di averle già raccontate molte altre volte. Sì, ho tentato spesso di raccontare la storia mia e di mio padre perché questa storia mi ha segnato, raccontarla significa masticarla, diluirla, chiarirla, renderla manifesta e oliare i cardini di quelle porte.
Fino al letto, dicevo, lui si è messo a sedere continuando a mangiare.
Trema, dondola, fa dei movimenti ripetitivi, sembrerebbe Parkinson, del resto ha preso neurolettici per più di cinquant’anni, pasticche, capsule, pillole, in tutto più di un quintale di roba. Cento chili.
È la prima volta che lo vedo così malconcio e provato. È la prima volta che lo vedo innocuo.
Ma è anche la prima volta che ho forse tirato un sospiro di sollievo dopo trentotto anni.
Mio padre non sa che sono artista o forse sì, sono stato al solito sempre vago forse perché c’è stata sempre un’idea che siamo entrambi artisti. Forse perché lui si è sempre sentito artista e io perché sono suo figlio. Quando mi chiede: che si dice in giro? So che si riferisce ai circoli, agli ambienti letterari, alla poesia, come se fossimo ancora nell’ottobre 1967 a Firenze, quando scriveva poesie, la colazione coi bomboloni al bar, il cinema e soprattutto il tempo con mia madre.
Mio padre ha sempre vissuto come speciale il suo tempo, tutti i suoi momenti: quando si è artisti si vive sempre con un faro acceso addosso, un occhio di un dio dietro le spalle, lo sguardo del mondo che ti segue sempre, una platea seduta e composta sempre attenta.
Lo so bene perché ho tutte le sue agendine, le teneva in tasca, scriveva ogni giorno, da artista sapeva che doveva lasciare dei documenti per sé, per l’arte, per il tempo, per la platea. E biglietti, fogli, foglietti, retri di scontrini e ricevute di ristoranti, biglietti del bus, del treno, tutti scritti con data e ora come se ogni momento fosse quello decisivo.
Metto tutto per iscritto. Era questa la più grande minaccia che mio padre intimava al mondo intero.
Ogni giorno un commento, un nome di medicina da assumere, diversi nomi di donna, i film del cine e soprattutto Anna, mia madre.
Il 13 ottobre 1975 mi portò a Roma, era la prima volta per me, avevo quasi otto anni. Mia madre non lo sapeva e avvertì la polizia. Dormimmo all’hotel San Giorgio di via Amendola vicino a Termini, camera 406, fu l’ultima notte che ho dormito con mio padre. Capivo che c’era qualcosa di strano perché non avevo il pigiama, ma mi distrassi presto perché c’era un frigo-bar pieno di bibite. La mattina mio padre andò dal direttore e disse che siccome era un poeta non avrebbe pagato. Sul cartoncino dell’albergo c’è scritto: sono senza soldi e dietro il resoconto della nostra ultima serata:
2 Aranciate + 2 Pepiscola [3] + Zabov.
* Testo pubblicato in AA:VV, Flavio Favelli, Mousse Publishing, Milano 2013
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NOTE:
[1] Ho notato che da circa metà degli anni ottanta la grafica dei francobolli della Repubblica è cambiata, i francobolli risultano policromi, quasi fossero senz’anima oppure è semplicemente una mia impressione o la mia solita visione delle cose che non riesce a vedere in modo differente il mondo dopo la metà degli anni ottanta. L’opera L’imperatrice Teodora del 2011 è l’ingrandimento di una di queste cartoline.
[2] Mario Fortunato, Il vestibolo nudo, in Flavio Favelli, Vestibolo, Segno Associati, 2005.
[3] Mio padre scrive proprio così: Pepiscola anziché Pepsi Cola.