Intervista di Valentina Tebala

Valentina Tebala – Caro Flavio, non potrei iniziare l’intervista senza introdurre il motivo per cui ci siamo conosciuti che è anche il medesimo per il quale io stessa ho avuto modo di approfondire con interesse il tuo lavoro. Ovvero il murale che hai realizzato a Cosenza invitato ai Bocs Art nel 2015 e la diatriba che ne è conseguita tra gli addetti ai lavori e non: “Il caso Marulla” con tutte le sue problematiche inerenti l’Arte pubblica, che qui evitiamo di indagare ulteriormente. Piuttosto un elemento che mi ha molto colpito – tra il marasma di spunti di riflessione nati da quella vicenda – probabilmente anche per un fattore personale e biografico, è il tuo rapporto con il Sud d’Italia. Mi pare di avvertire come un’attrazione, una fascinazione oscillante tra due poli opposti, come Eros e Thanatos. Hai lavorato e frequentato spesso il Sud, ma non hai risparmiato parole anche parecchio critiche nei confronti di questi luoghi così «esotici»…

Flavio Favelli – Cara Valentina, ti rispondo da Palermo, sono i giorni di Manifesta. Mi sento molto legato all’isola e a questa città, dove ho fatto molti progetti e preso soggetti di questo universo per molte opere. E’ come se qui avessi più tensioni, più immagini che generano altre immagini che si allacciano al mio bagaglio italiano della penisola. Ho scelto di fare un intervento con due artisti Giuseppe Buzzotta e Toni Romanelli, siamo tre differenti generazioni, abbiamo preso un negozio sfitto, in Via Roma, con scritto Fenomeno sulla vetrata. E’ un negozio moderno, con arredi bianchi e grigi, doveva forse vendere abbigliamento per uomini attuali ed esigenti, ma di una eleganza troppo globale per essere vera, un negozio lontano da quello che un visitatore si aspetta da Palermo coi suoi palazzi nobiliari fra il dimesso e lo sbragato e così maledettamente belli quanto inutili; direi proprio questo: A Palermo e in Sicilia c’è una bellezza eccessiva, stordente, inutile, come il dolce della Martorana, che è più dolce dello zucchero. Abbiamo proprio scelto un posto capace di rispecchiare il gusto e l’immaginario della città degli ultimi quarant’anni, che sembrano lontani da chiese ricamate e edifici antichi. Qui si spinge di più che da altri parti sull’apparire… ai matrimoni gli uomini sono imbellettati e infagottati come damerini, le donne giunoniche e a volte provocanti, ma con sempre un qualcosa di domestico, casareccio e bambini d’appertutto quasi a dire che la famiglia, nonostante le sue puntuali crudeltà, è la base di tutto. Mi piacciono tutte queste sovrapposizioni, un infinito collage meridionale, dove tutto in qualche modo rinasce con grandi fratture e cicatrici. E’ il tema delle rovine, comuni a tutto il Sud Italiano, che al Nord non ci possiamo permettere. Posso dire amo il Meridione Italiano perché è rovinato, rovine che insieme alla vita quotidiana di un paese comunque del primo mondo, generano riflessioni, nuove immagini e così sto dicendo che il Sud è fonte per me di ispirazione per l’arte. Ma ciò è fertile perché si collega alla mia vita che su certi ricordi di luoghi, oggetti e cose fonda la sua vita poetica. Ho visitato con mia madre il Sud quando ero bambino e questo ritrovare dopo tanti anni certe vedute come cartoline psicologiche infonde in me una certa eccitazione mentale, che proviene da un sentire ambiguo fra piacere, passione e malinconia e concorre a generare delle figure nuove le cui origini vengono da immagini-ricordi scomposte, riassemblate e quindi-anche distrutte.
Il Sud è poetico anche perché è povero e la povertà mantiene viva una certo modo poetico e letterario.
Tutto ciò può sembrare un attengiamento esotico, come dici, uno sguardo superficiale e pittoresco, ma è anche il terreno su cui si muove l’artista, che non è interessato all’essere politicamnte corretto.
(Ho notato, vicino alla stazione, sul marciapiede, tre poltrone da esterno in bambù abbandonate, di sapore modernista, audace. Le ho prese e caricate in auto che ho messo poi in un garage. Il giorno dopo ho dato una mancia inaspettata al parcheggiatore, legale, che mi ha tenuto l’auto e con una maglietta rossa con scritto Grease mi ha detto: grazie, faccio fare la colazione ai bambini!
La colazione ai bambini, come in una novella o in uno spot del Mulino Bianco.

VT – Gli oggetti, che di frequente utilizzi per costruire le tue opere, hanno una valenza altamente simbolica per te, quasi simbiotica, perché rappresentano o evocano una storia, principalmente la tua; lo stesso vale per le immagini. I fatidici anni Ottanta – lo hai detto più volte – hanno avuto un’influenza sulla tua vita veramente importante. Invece, se dovessi portarti dietro qualcosa degli altrettanto fatidici anni Duemila, precisamente di quest’ultimo ventennio, quali oggetti, immagini o icone credi che potrebbero entrare nel tuo lavoro?

FF – Gli anni Settanta e Ottanta sono stati ambigui e demoniaci, per me, per la mia famiglia e per l’Italia che era già un paese globale prima della globalizzazione. Sono stati due decenni della mia formazione di persona e di vita con la famiglia, segnati da un destino severo. Ecco perché sono per me cruciali perché le cose drammatiche che vivevo in famiglia erano le stesse, con gli stessi meccanismi, che viveva il paese. Negli anni Duemila mi manca, e meno male, quel rapporto originario con la famiglia e quindi tutto è più tranquillo; sono stato sicuramente meglio, ma è tutto meno interessante. Diciamo che cerco di portare sempre le immagini e le questioni psicologiche di quel mio periodo dell’origine nei tempi successivi. E’ come se funzionassi come una stato autarchico con i propri miti di fondazione, che sono tali perché sono passati e irraggiungibili. Forse ho un problema col vivere il presente, che uso giusto per sviluppare diversi punti di vista sul mio passato. Per risponderti direi comunque –non ho dubbi- la tragica e folle epopea dell’11 Settembre 2001 fino a Ground Zero con le due vasche del 2011 e il museo sotto nel 2014. Il Memoriale di Ground Zero è un intreccio sinistro nato dal tentativo di rappresentare un evento impensabile che rimarrà per sempre angosciante. L’inadatto immaginario statunitense ha creato una specie di terrazza-belvedere interrata che ammira le fondazioni ancora scassate delle Torri Gemelle dallo stupro dei terroristi. Ho già scritto della mia passione per gli aerei e sull’11 Settembre http://www.doppiozero.com/materiali/vari-abissi e questo enorme monumento senza monumento, ma con cavità e catacombe è forse l’opera più significativa della nostra cara storia.

VT – Flavio Favelli appare come una persona introversa, solitaria, eppure le sue opere sono di lui una sorta di libro aperto. Letteralmente, Flavio, tu hai aperto più volte al pubblico persino le porte di quella che è stata per molto tempo casa tua e della tua famiglia, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Visitandola la prima volta in occasione della scorsa edizione di Arte Fiera, mi sei sembrato un ottimo “padrone di casa” nel raccontare al pubblico i wall painting che hai poi realizzato nelle varie stanze dell’abitazione: come quelli che riproducono le etichette delle compresse Tavor o il codice fiscale di tua [madre/nonna?], per esempio.

FF – Credo che la condizione dell’artista sia drammaticamente ambigua: da una parte ha a che fare con le sue immagini e i suoi problemi diciamo visivi, dall’altra deve fare uscire fuori tutto ciò e deve cercare comprensione. Comprensione che non sarà mai esaudita, pena la perdita del suo demone. Solo parlando col pubblico, che è una presenza retorica, si riesce a comprendere meglio se stessi e soprattutto le opere. Solo parlando a braccio dopo una decina di volte di Via Guerrazzi 21, parlando via via delle cose che appaiono, posso capire meglio cosa sto facendo. Il pubblico, è una comparsa, è come quando la mamma stava a sentire recitare la tua poesia, non faceva nulla, non doveva fare nulla, era ed è solo una presenza passiva, come è venuto se ne va. Parlare con le persone, poi, è importante: parlando dell’opera si comprende l’enfasi, lo slancio o il distacco che si ha col pubblico; si comprende, definitivamente, il rapporto che si ha con se stessi.

VT – A Bologna hai realizzato tanti progetti: la Sala d’Attesa al Pantheon del Cimitero della Certosa o il lavoro Itavia Aerolinee con l’opera Cerimonia-india hotel 870 allestita in Piazza Maggiore in occasione del 30° anniversario della Strage di Ustica, fino al progetto vincitore della 2° edizione di Italian Council 2017, Serie imperiale, presso la Casa del Popolo e la ex miniCoop di Bazzano, che vorrei raccontassi brevemente.

FFHo sempre avuto e ho tutt’ora tanti progetti per Bologna perché è la città dove abito e devo dire che non è per nulla semplice realizzarli. Ho partecipato al bando Italian Council col progetto Serie Imperiale, due francobolli che posseggo, col volto di Vittorio Emanuele III, desueti e scomodi per via di soprastampe di annessioni (Zara per l’occupazione tedesca e Repubblica Sociale Italiana) che ho ingrandito e poi dipinto su due muri interni e speciali: una stanza riunioni della Casa del Popolo e un ex supermercato Mini Coop. Queste due sur-immagini appartengono al conflitto: sono sgarbi, sfregi, atti di sabotaggio e di censura-offesa; sono scritte violente di invasione, annessione e appropriazione di territori e di immagini. Sono timbri di inchiostri rossi e neri su un volto viola di sangue blu. Una volta eseguite e presentate saranno poi strappate con un procedimento artigianale eseguito da professionisti e montate su tela a comporre l’opera-dittico Serie Imperiale. I due muri privati dalle pitture saranno parte costituente dell’opera perché anziché rasarli e tamponarli come di solito avviene, saranno basi per un intervento permanente che ricorderà le pitture. L’otturazione, il buco come studio, indagine e lavoro, diventerà essa stessa opera d’arte. Il timbro Zara e Repubblica Sociale Italiana non sono altro che diverse otturazioni, una specie di damnatio memoriae moderna, così come la tamponatura dei due muri, che lasceranno un anti-dipinto su intonaco, come fosse una cancellatura-abrasione controllata e pensata.

VT – Ora ti chiedo cosa pensi della situazione artistica contemporanea a Bologna e in Italia in generale. C’è qualche artista – attivo anche fuori dal nostro paese – di cui ammiri o segui particolarmente il lavoro?

FFDalla fine degli anni Novanta lavoro come artista e ho conosciuto i piani alti della città che ama un po’ l’arte direi per svago e per collezionismo, che sono due cose importanti, ma non sono un vero interesse per l’arte. Ci sono grandi fortune e grandi capitali, musei privati e fondazioni, ma c’è veramente poco di interessante. Due grandi avvenimenti cittadini, FICO (il più grande parco agroalimentare al mondo) e la presentazione del nuovo SUV della Lamborghini sono avvenuti senza arte; per la prima volta nella nostra storia italiana, l’arte, in momenti importanti, non c’è. Tutti a parlare di tradizione, di eccellenza, del Belpaese, ma poi la realtà è questa. Se a quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica, per la prima volta questo paese (per tutto il mondo il paese dell’arte) con l’Italian Council, dà la possibilità agli artisti del suo tempo di esprimersi, si comprende meglio la situazione.

VT – Un tuo prossimo progetto, che sia già in fase di realizzazione o ancora soltanto immaginato?

FF – Gli Angeli degli Eroi, la lista dei militari italiani morti dopo il 1945 in missioni di pace. Il progetto viena da una foto della mia famiglia che riassume un rapporto complesso: quella del mio nonno materno Carlo in divisa, mentre passeggia per Piazza Maggiore a Bologna. Mio nonno, che tornò dalla Campagna di Russia. Riconosco in lui un modello estetico molto forte che è riassunto in quella foto in uniforme.
CARO LUCA GRAZIE! GLI ANGELI DEGLI EROI TI SORRIDONO MENTRE  TI FANNO LA SCORTA D’ONORE FINO ALLA LUCE DI DIO IN PARADISO!!! VIVA L’ITALIA
Quando ho visto questa scritta fatta su un cartone probabilmente dai parenti di Luca Sanna, soldato morto in Afghanistan nel gennaio 2011, durante il suo funerale a Roma, ho provato la stesso turbamento di quando visitai anni fa il Sacrario di Redipuglia. Immagini estranee che proprio per il fatto che sono lontane, perchè le teniamo lontane, si scoprono a volte drammaticamente vicine. Gli Angeli degli Eroi è anche il tentativo di avvicinarsi al linguaggio di questo cartello scritto in modo solenne ed epico da genti di un mondo lontano e desueto. E’ però un mondo che da qualche parte mi fa sentire in qualche modo partecipe. Il progetto consiste in un grande wall painting su un muro pubblico con la lista dei militari caduti.

Serie Imperiale. Intervista di Ilaria Siboni

Il progetto le è stato commissionato? Che tempi di realizzazione ha avuto (bando, organizzazione, realizzazione delle pitture)?

No, è un mio progetto vincitore del bando Italian Council. Il bando è complicato, meno male che Nosadella Due mi ha affinacato a compilare le parti più noiose: dico noise perchè oramai tutti i (pochi) bandi sono burocratici e soprattutto danno molto e troppo spazio agli eventi collaterali, cioè non basta fare un progetto interessante per un’opera, ma si deve descrivere e dimostrare (cito dal bando) la strategia di promozione e comunicazione, la proposta di eventi, attività di formazione ed educative… Insomma Giorgio Morandi non avrebbe vinto l’Italian Council.

Da quale elemento è partito per svilupparlo, dai luoghi o dalle immagini/oggetti?

Ho pensato ad un’opera più vicina ed intima possibile al mio immaginario.
Del resto è il mio modo di operare. I francobolli sono parte della mia esperienza; il mio punto di vista è però sul complesso corpo delle immagini:
gli stati attraverso le banconote veicolano l’idea di potere che hanno. E cos’è l’arte se non delle immagini in relazione al potere? Avendo vissuto molto in solitudine, o intensamente in solitudine probabilmente ho imparato a vivere le cose e le immagini – che sono i veri compagni della giornata quando si è soli- nella loro intensità. Cioè i francobolli e le banconote di certi paesi lontani erano “belle” e sostenevano la volta celeste dell’universo borghese di mio nonno dove tutto aveva una ragione ed una collocazione. Questi oggetti, oggi, continuano ad avere questo valore diciamo psicologico. Sono immagini che hanno costruito il pantheon del potere (poco dopo che avevo consegnato il progetto a settembre 2017, a dicembre ci fu la polemica del ritorno del Re Vittorio Emanuele III, in Italia non sono fantasmi ma questioni ancora aperte)

Che ruolo ha avuto, in un progetto così complesso, la curatela?

Direi organizzativa, fra luoghi, presentazioni delle varie fasi e catalogo hanno fatto un gran lavoro. Il catalogo, che poi è un libro è, credo, molto interessante.

La documentazione in VR e la programmazione delle attività legate a Serie Imperiale sono connaturate all’opera o sono nate successivamente?

È stata un’idea di Elisa Del Prete, importante perchè la Casa del Popolo è in vendita e la ex Coop verrà demolita; a breve, quelle due sale dove ho dipinto Serie Imperiale non esisteranno più, in questo caso la VR sarà un documento importante.

Definirei il progetto d’arte pubblica, è d’accordo? Vista la sua natura ibrida, è stato complicato far accogliere l’idea?

Sono molto critico sull’Arte Pubblica, anzi per me l’ideologia dell’Arte Pubblica è una gran brutta cosa. L’Arte Pubblica ha uno scopo (come dice Alberto Garutti) di rivolgersi ai cittadini e comunque ha sempre un fine positivo, preoccupandosi della polis. Io penso che l’arte non debba avere nessun scopo se non quello dell’arte stessa. Mi sembra che l’Arte Pubblica persegua in qualche modo la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è in fondo un’arte del bene contro il male. E’ un’arte con un colore, proprio come ad esempio vuole la Chiesa. Come cittadino ho certe idee, ma come artista sono guidato dalle miei immagini che non si preoccupano se sono immagini giuste o attente all’immigrazione. L’arte, come disse Perniola, è arte, meta-arte e anti-arte allo stesso momento. Se i sindaci vogliono l’arte per abbellire le città con i murali degli artisti (di serie B) della Street Art, se vogliono fare dialogare parti differenti, se vogliono sensibilizzare con la cultura eco e green, benissimo, fanno il loro mestiere, ma quando lo fanno gli artisti per me è avvilente.
Penso anche che più è intima l’opera più può portare a varie riflessioni sociali e politiche. L’opera è pubblica già da sé, se si parla di Arte Pubblica vuole dire forzare, vuole dire non capire l’opera, vuole dire non capire che l’opera ha diversi piani di lettura che non vanno privilegiati e forzati. Un direttore di museo in Italia anni fa disse su Flash Art : …Trovate temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini. (F. Cavallucci, Arte e libertà, Flash Art n.275, 2009). Certo… Signor No! Spesso gli artisti che fanno Arte Pubblica sono illustrativi, letterali e credo anche che ci sia un grande senso di colpa strisciante: si fanno opere giuste e utili forse per controaltare al fatto che costano molto? Ma la differenza di ricchezza non è una delle cose più odiose del mondo? Forse chi si occupa di arte dovrebbe chiarire queste faccende. Ha un significato più pubblico l’opera di Giorgio Morandi o di Santiago Sierra? Io sarei molto cauto.
È stato molto complicato eravamo sotto elezioni e il Comune è stato freddo con questa opera, il Re spaventa ancora. Ho messo la faccia del Re col timbro Zara alla Casa del Popolo, c’è stato un piccolo dibattito con qualche persona, ma oramai sono finiti i tempi dei dibattiti… Il problema (è sempre colpa dell’Arte Pubblica) è che l’opera d’arte (non c’erano dubbi, dipingere il Re su un muro è un’opera d’arte oltrettutto l’opera ha vinto il bando del MiBACT ed è per lo Stato un’opera d’arte) non si legge come opera d’arte ma solo come provocazione fine a se stessa . Non si capisce che l’opera ha uno status diverso e quindi finché si ragiona sempre con un metro semplice (il Re fascista alla Casa del Popolo) non si capisce niente. Non è un Re fascista alla Casa del Popolo è un dipinto su muro di un francobollo originale (quindi trovato) dove il Re ha in faccia il timbro Zara (la città della ex Jugoslavia o il brand di moda?) Se si mette un timbro in faccia ad una persona è laudativo o censorio?

Che tipo di risposta ha dato il pubblico, in particolare i cittadini di Bazzano? E quale è stata la partecipazione alle tante iniziative che ne accompagnano l’evoluzione?

Non è tempo di partecipazioni. Bazzano è una cittadina seduta, c’era poca gente, i ragazzi al bar Arci non sono venuti a vedere le opere che stavano nello stesso stabile (il bar è a piano terra della Casa del Popolo, la ex Coop è attaccata allo stesso edificio). È tutto finito da un pezzo. L’assessore alla cultura del comune di Valsamoggia non si è mai fatta vedere, abita a Firenze.

La sintesi, la selezione accurata delle parti che vanno a comporre l’opera, l’eleganza, sono elementi che si ritrovano nelle sue opere. A questo proposito per l’otturazione avrebbe potuto scegliere un qualsiasi altro colore compreso uno di quelli che componevano le opere iniziali. Perchè ha scelto l’intonaco bianco?

Sull’eleganza come dici (a tal riguardo per risponderti in modo diretto ti allego una foto di un mio murale) la questione credo sia importante: sono nato in un milieu borghese dove il bello significava le “belle cose”. In casa di mio nonno c’erano vasi cinesi, avori, ceramiche di Faenza, servizi Ginori e argenteria importante. Aveva anche un Fortuny alle pareti e mobili di grande antiquariato. I cioccolatini che non mancavano mai, stavano in una grande ciotola di Barovier e Toso. Questa bellezza ed eleganza, per la persona diversa e consapevole –come l’artista- che riesce a superare questa (diabolica) apparenza si trova in una situazione complicata: se tutto ciò era rassicurante e oggettivamente bello nascondeva però miti e riti banali e tristi tipici dell’idea borghese italiana: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze familiari; senso dei soldi e degli affari, doppiezza e regole di società.
Insomma ancora tutto ciò che regna il modo di oggi, dalla politica alla finanza.
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.

Di chi è la proprietà delle opere staccate? E per le stesse si è pensato ad una collocazione “finale”?

Sono dello Stato, del MIBACT. Saranno in prestito al MAMbo di Bologna.

Questo lavoro ha un rapporto con i suoi lavori precedenti? Oppure il suo punto di partenza è l’oggetto?

Ho fatto molte opere con le immagini (dei francobolli). Queste immagini, questi santini, sono ricorrenti, fanno parte del mio ambiente ideale che ho introiettato: è la bella casa borghese, dove succedono le peggio cose. La famiglia era così importante che i miei genitori hanno avuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota…

Ci sono artisti che ritiene suoi riferimenti, da un qualsiasi punto di vista, o che ama particolarmente?

Devo essere sincero: sono talmente inondato da urgenze personali che per i maestri non ho tempo. Vedo che molti artisi citano decine di artisti e intellettuali (Pasolini!) forse per irrobustire la loro poetica… Gli avi sono la mia famiglia e questo mi basta e avanza perché per me l’artista è un autore in conflitto ed è soprattutto solo, senza padri, né madri (perché la mia famiglia sono dei fantasmi).

Nel suo lavoro è importante il rapporto con il pubblico? Ritiene che l’artista sia tenuto, in qualche modo, a rendere conto al suo pubblico?

Ho scritto da qualche parte a riguardo: devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.

Cosa pensa sia legittimo per l’artista contemporaneo? Soprattutto quando interviene nell’ambito dell’arte pubblica.

La faccenda del mio murale sul calciatore Luigi Marulla nel 2015 a Cosenza, riassume la questione: ho fatto un’opera su un muro pubblico e i tifosi e il pubblico l’hanno contestata. Molti mi hanno detto che ho sbagliato perché l’arte su un muro pubblico deve essere presa in considerazione come Arte Pubblica. Mi hanno detto che “se avessi fatto più chiaro il calciatore avresti accontentato tutti”. Ma io non faccio opere per accontentare (le mie opere non accontentano me, figuriamoci gli altri). Avevo in mente un’opera e l’ho fatta. Quell’opera dava informazioni e ragionamenti differenti rispetto all’immaginario comune del pubblico. E’ l’artista che deve dare immagini differenti e non accontentare le masse (i cittadini?) . In una città dove manca l’acqua a corrente, dove si costriusce il ponte di Calatrava più alto d’Europa, dove l’assessore è stato prima Vittorio Sgarbi e poi Padre Fedele, frate noto ultrà della curva, dove un medico pulisce le seppie nel lavandino dell’ospedale e dove per la prima partita di serie B della squadra il campo non è pronto prechè sembra arato, l’artista deve accontentare la città con immagini condivise?

Si è fatto un’idea del perché l’arte pubblica contemporanea abbia acquisito tanta attenzione?

Credo che faccia comodo. Gli artisti che aderiscono all’Arte Pubblica evidentemente sono poco interessati ad avere una propria poetica e pescano da vari temi più o meno attuali (o non ce l’hanno proprio) e sicuramente è più semplice e più remunerativo fare progetti con soggetti cari all’opinione intellettuale oppure di semplice commestibilità per il pubblico. In un momento di grande crisi finanziaria e di un certa sguaiatezza della genti, il sospetto e la distanza sull’arte contemporanea diventa più marcato (se a Roma per il Museo MACRO la giunta Cinque Stelle lo dà per la prima volta ad una persona fuori dal mondo snob dell’arte un motivo ci sarà). Perché dobbiamo spendere soldi per l’arte contemporanea che è per un’elite snob e radical chic si chiede la gente? Il soggetto pubblico così è costretto a guarnire la cosa con la “pubblica utilità”. Alla insistente e martellante domande della masse “che vuole dire?”, “qual è il messaggio?” (dopo venti anni di mostre posso dire che la domanda è sempre quella) l’istituzione deve giustificare in qualche modo la faccenda con un “aiuta l’asilo”, “lavora con gli immigrati” oppure “riqualifica il quartiere”. Cioè l’arte deve servire dannatamente a qualcosa, deve essere utile. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo anni fa rispose ad esponenti della Lega Nord di Torino che contestavano tutta la baracca del contemporaneo, che una mostra, mette in moto economie. Ecco dove siamo arrivati: si deve giustificare l’arte perché fa economia. In questo clima utilitaristico l’Arte Pubblica ha buon gioco ed è tutto un rincorerre buoni propositi: si tenta di cercare la verità in grandi tragedie, si sensibilizza sulle minoranze, si opera sulle cattive condizioni dei lavoratori. Si crea un’arte sensibile al sociale con una morale chiara. Il fine è la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è un’arte del bene contro il male. Ma questo è la fine dell’arte contemporanea, gli artisti non l’hanno ancora capito.

Quali ritiene siano gli elementi, le dinamiche più significative del suo processo artistico?

Copio e incollo da sopra:
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.
Aggiungo la parola piacere. Amo fare le mie opere perchè mi danno un piacere ambiguo che mette le mani fra ricordi di ricordi, immagini e reminiscenze e rievocazioni di momenti vissuti che sono tanto privati quanto pubblici, perchè questa oscillazione fa parte della natura dell’artista. Sembra una bestemmia, ma gli artisti, che fanno sempre gli impegnati, non dicono mai che provano piacere quando lavorano.

L’amministrazione pubblica è stata partecipe e ha collaborato alla promozione del progetto?

Come dicevo prima pochi hanno partecipato e con grande fatica. Molti si sono presi paura del Re. Poi un esempio su tutti: la Coop, che qui ha radici profonde, ha dato un contributo per il catalogo tanto insignificante che il direttore della Fondazione Rocca dei Bentivoglio (ex sindaco PD) voleva rifiutarlo. E il libro ha una lunga riflessione sulla storia degli edifici del quartire che ho scelto come ambiente per la mia opera.

E naturalmente mi interessa chi acquisisce la proprietà del dittico una volta staccato.

È e rimane dello Stato.