Serie Imperiale. Intervista di Ilaria Siboni

Il progetto le è stato commissionato? Che tempi di realizzazione ha avuto (bando, organizzazione, realizzazione delle pitture)?

No, è un mio progetto vincitore del bando Italian Council. Il bando è complicato, meno male che Nosadella Due mi ha affinacato a compilare le parti più noiose: dico noise perchè oramai tutti i (pochi) bandi sono burocratici e soprattutto danno molto e troppo spazio agli eventi collaterali, cioè non basta fare un progetto interessante per un’opera, ma si deve descrivere e dimostrare (cito dal bando) la strategia di promozione e comunicazione, la proposta di eventi, attività di formazione ed educative… Insomma Giorgio Morandi non avrebbe vinto l’Italian Council.

Da quale elemento è partito per svilupparlo, dai luoghi o dalle immagini/oggetti?

Ho pensato ad un’opera più vicina ed intima possibile al mio immaginario.
Del resto è il mio modo di operare. I francobolli sono parte della mia esperienza; il mio punto di vista è però sul complesso corpo delle immagini:
gli stati attraverso le banconote veicolano l’idea di potere che hanno. E cos’è l’arte se non delle immagini in relazione al potere? Avendo vissuto molto in solitudine, o intensamente in solitudine probabilmente ho imparato a vivere le cose e le immagini – che sono i veri compagni della giornata quando si è soli- nella loro intensità. Cioè i francobolli e le banconote di certi paesi lontani erano “belle” e sostenevano la volta celeste dell’universo borghese di mio nonno dove tutto aveva una ragione ed una collocazione. Questi oggetti, oggi, continuano ad avere questo valore diciamo psicologico. Sono immagini che hanno costruito il pantheon del potere (poco dopo che avevo consegnato il progetto a settembre 2017, a dicembre ci fu la polemica del ritorno del Re Vittorio Emanuele III, in Italia non sono fantasmi ma questioni ancora aperte)

Che ruolo ha avuto, in un progetto così complesso, la curatela?

Direi organizzativa, fra luoghi, presentazioni delle varie fasi e catalogo hanno fatto un gran lavoro. Il catalogo, che poi è un libro è, credo, molto interessante.

La documentazione in VR e la programmazione delle attività legate a Serie Imperiale sono connaturate all’opera o sono nate successivamente?

È stata un’idea di Elisa Del Prete, importante perchè la Casa del Popolo è in vendita e la ex Coop verrà demolita; a breve, quelle due sale dove ho dipinto Serie Imperiale non esisteranno più, in questo caso la VR sarà un documento importante.

Definirei il progetto d’arte pubblica, è d’accordo? Vista la sua natura ibrida, è stato complicato far accogliere l’idea?

Sono molto critico sull’Arte Pubblica, anzi per me l’ideologia dell’Arte Pubblica è una gran brutta cosa. L’Arte Pubblica ha uno scopo (come dice Alberto Garutti) di rivolgersi ai cittadini e comunque ha sempre un fine positivo, preoccupandosi della polis. Io penso che l’arte non debba avere nessun scopo se non quello dell’arte stessa. Mi sembra che l’Arte Pubblica persegua in qualche modo la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è in fondo un’arte del bene contro il male. E’ un’arte con un colore, proprio come ad esempio vuole la Chiesa. Come cittadino ho certe idee, ma come artista sono guidato dalle miei immagini che non si preoccupano se sono immagini giuste o attente all’immigrazione. L’arte, come disse Perniola, è arte, meta-arte e anti-arte allo stesso momento. Se i sindaci vogliono l’arte per abbellire le città con i murali degli artisti (di serie B) della Street Art, se vogliono fare dialogare parti differenti, se vogliono sensibilizzare con la cultura eco e green, benissimo, fanno il loro mestiere, ma quando lo fanno gli artisti per me è avvilente.
Penso anche che più è intima l’opera più può portare a varie riflessioni sociali e politiche. L’opera è pubblica già da sé, se si parla di Arte Pubblica vuole dire forzare, vuole dire non capire l’opera, vuole dire non capire che l’opera ha diversi piani di lettura che non vanno privilegiati e forzati. Un direttore di museo in Italia anni fa disse su Flash Art : …Trovate temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini. (F. Cavallucci, Arte e libertà, Flash Art n.275, 2009). Certo… Signor No! Spesso gli artisti che fanno Arte Pubblica sono illustrativi, letterali e credo anche che ci sia un grande senso di colpa strisciante: si fanno opere giuste e utili forse per controaltare al fatto che costano molto? Ma la differenza di ricchezza non è una delle cose più odiose del mondo? Forse chi si occupa di arte dovrebbe chiarire queste faccende. Ha un significato più pubblico l’opera di Giorgio Morandi o di Santiago Sierra? Io sarei molto cauto.
È stato molto complicato eravamo sotto elezioni e il Comune è stato freddo con questa opera, il Re spaventa ancora. Ho messo la faccia del Re col timbro Zara alla Casa del Popolo, c’è stato un piccolo dibattito con qualche persona, ma oramai sono finiti i tempi dei dibattiti… Il problema (è sempre colpa dell’Arte Pubblica) è che l’opera d’arte (non c’erano dubbi, dipingere il Re su un muro è un’opera d’arte oltrettutto l’opera ha vinto il bando del MiBACT ed è per lo Stato un’opera d’arte) non si legge come opera d’arte ma solo come provocazione fine a se stessa . Non si capisce che l’opera ha uno status diverso e quindi finché si ragiona sempre con un metro semplice (il Re fascista alla Casa del Popolo) non si capisce niente. Non è un Re fascista alla Casa del Popolo è un dipinto su muro di un francobollo originale (quindi trovato) dove il Re ha in faccia il timbro Zara (la città della ex Jugoslavia o il brand di moda?) Se si mette un timbro in faccia ad una persona è laudativo o censorio?

Che tipo di risposta ha dato il pubblico, in particolare i cittadini di Bazzano? E quale è stata la partecipazione alle tante iniziative che ne accompagnano l’evoluzione?

Non è tempo di partecipazioni. Bazzano è una cittadina seduta, c’era poca gente, i ragazzi al bar Arci non sono venuti a vedere le opere che stavano nello stesso stabile (il bar è a piano terra della Casa del Popolo, la ex Coop è attaccata allo stesso edificio). È tutto finito da un pezzo. L’assessore alla cultura del comune di Valsamoggia non si è mai fatta vedere, abita a Firenze.

La sintesi, la selezione accurata delle parti che vanno a comporre l’opera, l’eleganza, sono elementi che si ritrovano nelle sue opere. A questo proposito per l’otturazione avrebbe potuto scegliere un qualsiasi altro colore compreso uno di quelli che componevano le opere iniziali. Perchè ha scelto l’intonaco bianco?

Sull’eleganza come dici (a tal riguardo per risponderti in modo diretto ti allego una foto di un mio murale) la questione credo sia importante: sono nato in un milieu borghese dove il bello significava le “belle cose”. In casa di mio nonno c’erano vasi cinesi, avori, ceramiche di Faenza, servizi Ginori e argenteria importante. Aveva anche un Fortuny alle pareti e mobili di grande antiquariato. I cioccolatini che non mancavano mai, stavano in una grande ciotola di Barovier e Toso. Questa bellezza ed eleganza, per la persona diversa e consapevole –come l’artista- che riesce a superare questa (diabolica) apparenza si trova in una situazione complicata: se tutto ciò era rassicurante e oggettivamente bello nascondeva però miti e riti banali e tristi tipici dell’idea borghese italiana: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze familiari; senso dei soldi e degli affari, doppiezza e regole di società.
Insomma ancora tutto ciò che regna il modo di oggi, dalla politica alla finanza.
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.

Di chi è la proprietà delle opere staccate? E per le stesse si è pensato ad una collocazione “finale”?

Sono dello Stato, del MIBACT. Saranno in prestito al MAMbo di Bologna.

Questo lavoro ha un rapporto con i suoi lavori precedenti? Oppure il suo punto di partenza è l’oggetto?

Ho fatto molte opere con le immagini (dei francobolli). Queste immagini, questi santini, sono ricorrenti, fanno parte del mio ambiente ideale che ho introiettato: è la bella casa borghese, dove succedono le peggio cose. La famiglia era così importante che i miei genitori hanno avuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota…

Ci sono artisti che ritiene suoi riferimenti, da un qualsiasi punto di vista, o che ama particolarmente?

Devo essere sincero: sono talmente inondato da urgenze personali che per i maestri non ho tempo. Vedo che molti artisi citano decine di artisti e intellettuali (Pasolini!) forse per irrobustire la loro poetica… Gli avi sono la mia famiglia e questo mi basta e avanza perché per me l’artista è un autore in conflitto ed è soprattutto solo, senza padri, né madri (perché la mia famiglia sono dei fantasmi).

Nel suo lavoro è importante il rapporto con il pubblico? Ritiene che l’artista sia tenuto, in qualche modo, a rendere conto al suo pubblico?

Ho scritto da qualche parte a riguardo: devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.

Cosa pensa sia legittimo per l’artista contemporaneo? Soprattutto quando interviene nell’ambito dell’arte pubblica.

La faccenda del mio murale sul calciatore Luigi Marulla nel 2015 a Cosenza, riassume la questione: ho fatto un’opera su un muro pubblico e i tifosi e il pubblico l’hanno contestata. Molti mi hanno detto che ho sbagliato perché l’arte su un muro pubblico deve essere presa in considerazione come Arte Pubblica. Mi hanno detto che “se avessi fatto più chiaro il calciatore avresti accontentato tutti”. Ma io non faccio opere per accontentare (le mie opere non accontentano me, figuriamoci gli altri). Avevo in mente un’opera e l’ho fatta. Quell’opera dava informazioni e ragionamenti differenti rispetto all’immaginario comune del pubblico. E’ l’artista che deve dare immagini differenti e non accontentare le masse (i cittadini?) . In una città dove manca l’acqua a corrente, dove si costriusce il ponte di Calatrava più alto d’Europa, dove l’assessore è stato prima Vittorio Sgarbi e poi Padre Fedele, frate noto ultrà della curva, dove un medico pulisce le seppie nel lavandino dell’ospedale e dove per la prima partita di serie B della squadra il campo non è pronto prechè sembra arato, l’artista deve accontentare la città con immagini condivise?

Si è fatto un’idea del perché l’arte pubblica contemporanea abbia acquisito tanta attenzione?

Credo che faccia comodo. Gli artisti che aderiscono all’Arte Pubblica evidentemente sono poco interessati ad avere una propria poetica e pescano da vari temi più o meno attuali (o non ce l’hanno proprio) e sicuramente è più semplice e più remunerativo fare progetti con soggetti cari all’opinione intellettuale oppure di semplice commestibilità per il pubblico. In un momento di grande crisi finanziaria e di un certa sguaiatezza della genti, il sospetto e la distanza sull’arte contemporanea diventa più marcato (se a Roma per il Museo MACRO la giunta Cinque Stelle lo dà per la prima volta ad una persona fuori dal mondo snob dell’arte un motivo ci sarà). Perché dobbiamo spendere soldi per l’arte contemporanea che è per un’elite snob e radical chic si chiede la gente? Il soggetto pubblico così è costretto a guarnire la cosa con la “pubblica utilità”. Alla insistente e martellante domande della masse “che vuole dire?”, “qual è il messaggio?” (dopo venti anni di mostre posso dire che la domanda è sempre quella) l’istituzione deve giustificare in qualche modo la faccenda con un “aiuta l’asilo”, “lavora con gli immigrati” oppure “riqualifica il quartiere”. Cioè l’arte deve servire dannatamente a qualcosa, deve essere utile. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo anni fa rispose ad esponenti della Lega Nord di Torino che contestavano tutta la baracca del contemporaneo, che una mostra, mette in moto economie. Ecco dove siamo arrivati: si deve giustificare l’arte perché fa economia. In questo clima utilitaristico l’Arte Pubblica ha buon gioco ed è tutto un rincorerre buoni propositi: si tenta di cercare la verità in grandi tragedie, si sensibilizza sulle minoranze, si opera sulle cattive condizioni dei lavoratori. Si crea un’arte sensibile al sociale con una morale chiara. Il fine è la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è un’arte del bene contro il male. Ma questo è la fine dell’arte contemporanea, gli artisti non l’hanno ancora capito.

Quali ritiene siano gli elementi, le dinamiche più significative del suo processo artistico?

Copio e incollo da sopra:
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.
Aggiungo la parola piacere. Amo fare le mie opere perchè mi danno un piacere ambiguo che mette le mani fra ricordi di ricordi, immagini e reminiscenze e rievocazioni di momenti vissuti che sono tanto privati quanto pubblici, perchè questa oscillazione fa parte della natura dell’artista. Sembra una bestemmia, ma gli artisti, che fanno sempre gli impegnati, non dicono mai che provano piacere quando lavorano.

L’amministrazione pubblica è stata partecipe e ha collaborato alla promozione del progetto?

Come dicevo prima pochi hanno partecipato e con grande fatica. Molti si sono presi paura del Re. Poi un esempio su tutti: la Coop, che qui ha radici profonde, ha dato un contributo per il catalogo tanto insignificante che il direttore della Fondazione Rocca dei Bentivoglio (ex sindaco PD) voleva rifiutarlo. E il libro ha una lunga riflessione sulla storia degli edifici del quartire che ho scelto come ambiente per la mia opera.

E naturalmente mi interessa chi acquisisce la proprietà del dittico una volta staccato.

È e rimane dello Stato.

Autore: flaviofavelli

Flavio Favelli è un artista visivo. Collabora con Repubblica (ed. Bologna), Doppiozero e Antinomie.

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