Credo che l’arte di oggi se ne debba stare per i fatti suoi, sul suo pianeta, che è quello dell’arte. Da tempo molti artisti e critici chiedono un’arte impegnata, attenta al contesto sociale, un’arte soprattutto etica. Anni fa, dopo la notizia che il Vaticano avrebbe partecipato per la prima volta con un Padiglione alla Biennale di Venezia, ci fu un dibattito sui giornali e Mario Perniola nell’articolo Perché l’arte deve rimanere senza dio scrisse, fra l’altro: … l’arte è tale solo se è allo stesso tempo anche meta-arte e anti-arte (1).
Penso di essere due cose, due soggetti distinti, a volte molto distanti: sono un cittadino e sono un artista e viceversa a seconda dei momenti. Quando penso e vedo da artista seguo le mie immagini per comporre o ricomporre quello che a volte riesco a vedere, senza fini e scopi se non quello di vivere attraverso la potenza di queste immagini che sono filtrate da questioni personali intense, aperte fin dalla mia infanzia, ricordi così netti e densi che ben presto hanno richiesto un’attenzione sempre più rilevante per cercare di vedere e capire meglio quello che vedevo. Insieme ad un forte piacere mai sazio, ad una devozione totale per oggetti e cose fra bellezze sempre diverse e significati ambigui, queste immagini oscillano fra la mia storia personale e quella del mio Paese degli anni 70 e 80, uno dei periodi più folli, densi, estremi, vitali e contradditori della vita dell’Occidente.
Al centro ci sono delle immagini che a volte compongono e scompongo in altre varie forme, sembrano tante cose, ma anche non lo sono. Assomigliano, ma sono altro per il fatto che hanno luce e significati differenti dalla loro apparenza. Forse tutto ciò nasce, molto semplicemente, dalla mia natura solitaria; quando si è soli le cose parlano e il mondo apparentemente immobile, si anima.
Questo processo generativo, una specie di produzione autarchica di immagini e forme, supplisce la realtà che evidentemnte non ha mai accontentato né soddisfatto il mio bisogno. Sono nato in una parte di mondo e in un periodo storico e in particolare in una famiglia, nel quale il significato, più che il pane, è stato la questione quotidiana con cui fare i conti. Non avevamo problemi economici, ma anche senza essere ricchi – mia madre aveva uno stipendio da insegnante – le questioni di casa erano, diciamo, filosofiche. L’arte, la cultura, la politica, i rapporti, tutto era una contrapposizione, anche perché tutto il paese era in contrapposizione. Davanti a casa c’era un muro di un giardino, con le foglie verde scuro, come sono scuri tutti i giardini di Firenze ed era pieno di manifesti: NO e SI, era il referendum sul divorzio.
A me piacevano quei grandi caratteri NO e SI, facevo un gioco che avevo inventato: caramelle No o Sì? Mamma No o Sì?
Da subito ogni oggetto, con la sua forma, la sua immagine mi poneva delle domande perché rifletteva le situazioni della famiglia e della casa, vivevo in un cosmo chiuso, scandito da ritmi precisi e certezze salde, in un nido pieno di dolcezze che poi scoprii stucchevoli e soffocanti.
…ho spesso osservato che il contenuto delle opere d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le loro qualità formali e tecniche…
Sigmund Freud, Il Mosè di Michelangelo.
Anche io avrei voluto sempre pensare così, ma non so se ho mai potuto fino in fondo, la bellezza, la propria idea di bellezza, le qualità formali che a volte centrano un raro equilibrio che allaga i sensi e stordisce la psiche non sono facili da allontanare.
Già da bambino, forse, ero già artista, perché se non ci si sente contenti in una situazione di generale benessere materiale, vuole dire che manca qualcosa di profondo e già questa mancanza ha a che fare con l’arte. E così si cerca di fare quello che manca e che non c’è e allora si inizia questa pratica che da una parte è arte e dall’altra è una specie di catarsi senza fine perché si deve costruire un mondo parallelo, perché l’artista ha bisogno di altri mondi.
Anni fa ebbi una commissione pubblica da ANAS, la società dello Stato, quelle delle strade, per fare un ambiente permanente in un interno di un edificio di loro proprietà. Terminata l’opera discutemmo coi dirigenti sul catalogo dove Mario Fortunato aveva scritto un bellissimo testo, Il Vestibolo nudo, ma giudicato troppo psicologico. Volevano un altro intervento con un punto di vista di uno storico dell’arte, la sola figura capace di giustificare l’opera. Un consigliere in particolare disse:
Anas non fa fare una stanza all’artista perché ha problemi psicologici…
L’apparato, lo Stato, non può comprendere certe questioni psicologiche che giudica forse come oscure e ambigue, zone che è meglio evitare, ambiti non regolari e cerca la strada sicura per dire che l’arte va collocata nella scia della storia dell’arte.
Da tanti anni vado in Meridione, la prima volta fu nel 74, avevo 7 anni, una Pasqua con mia madre in treno in Sicilia, il giro classico. Poi tornammo, ma in Calabria, ricordo la Sila su un pullmann che era un autobus, Longobucco e i suoi scialli e poi Isola Capo Rizzuto con la colonna solitaria, ma da sempre mi colpivano certe cose che non erano quelle scritte dalla guida del Touring – la guida che ha insegnato all’Italia che solo i monumenti del passato, le chiese e i musei, le cose alte sono quelle da visitare – né quelle che mi faceva vedere mia madre, amante dell’arte classica, ma certi contrasti, certi paesaggi poco ortodossi, certe insegne di negozi, certi incarti di pasticceria, certe panchine moderniste, ma soprattutto l’intero cosmo di tutte le cose abbandonate, rotte, sbragate, cadenti con le loro macerie, come certi palazzi di Palermo o di Cosenza insieme a quel poco di natura che riusciva a crescerci dentro. O come quelle specie di piazzali desueti in lastre di cemento, con una piccola selva di bassi arbusti ordinati dagli interstizi del piancito con in fondo una Uno blu abbandonata, ma ancora intera, che guarnisce con equilibrio una magnificenza semi artificale.
Amo la desolazione ordinata, quel degrado composto con pochi colori che ha solo immagini aperte e che trovo solo al Sud. Sono visioni con un passato consunto, quelle che il Nord non si può più permettere, situazioni sconcertanti, una parte di mondo sfasciato dove vedo dei luccichii, quella spazzatura che da queste parti non si ha voglia di rimuovere, per un’indolenza storica ma che permette spettacoli sublimi, fra il pittoresco e l’orrido, il catastrofico e l’apocalittico, perché l’apocalisse è bellissima quando si è solo spettatori.
Vado al Sud per trovare anche quelle risacche di umanità, gente stagnante, con corpi stanchi e antichi, minuti ed esili o straripanti e carnei, facce come se fossero di razze diverse come quelli che vivono nelle città vecchie, dove nessuno vuole stare, perché quando un posto è vecchio già di suo si cerca il nuovo a tutti i costi e quando ci si sente indietro il nuovo è ancora più nuovo anche se non è intonacato.
Vado al Sud per vedere i segni che rimangono solo qui e sono i segni del mio recente passato che hanno così deciso e imposto un carosello di immagini che tengono insieme la mia vita, il mio tempo, i miei sentimenti.
Sono arrivato a Rosarno in auto in Calabria, l’unica regione senza Telepass, la terra della Magna Grecia con le coste dai nomi suadenti: Costa degli Dei, Costa Viola, Costa degli Aranci e Riviera dei Cedri dove cresce il Cedro Diamante, il cedro più buono del mondo. E sono arrivato a Rosarno per fare un murale. Da qualche anno sto facendo dei wall paintings perché le immagini dipinte sui muri delle città sono sempre molto intense, mi danno l’idea e l’illusione che sono in una mia città con le insegne e le immagini che desidero. Ho pensato alle arance, da bambino le arance erano i frutti del Sud che arrivavano con le veline colorate, erano i frutti per i bambini; una volta un avvocato di mio padre, era del Sud, mai visto prima, mi promise una cassa di mandarini, ma poi non arrivò mai. Quando penso alle arance, penso soprattutto ad una pubblicità, ad una vecchia reclame che girava su Topolino quando ero bambino: una bottiglia di Fanta, l’aranciata d’arancia, quelle col vetro spesso – spesso usurato – arancio scuro, con la superficie ad anelli, con la scritta smaltata che rimaneva per sempre e di fianco tre bicchieri tondeggianti, con forme suadenti e diabolicamente moderne, da bibita estiva, colmi di aranciata colore arancio intenso, quasi artificiale. L’immagine un po’ presa dall’alto, metteva in risalto la parte superiore dei bicchieri diventati tondi come tre grosse arance. Arance da bere dichiarava il verbo che tranquillizzava tutti. Tranquillizzava perché avevamo bisogno di entrambi i mondi, quello naturale, i frutti di madre natura, e quello artificiale, la bibita pronta da stappare perché ci sentivamo moderni e volevamo esserlo sempre di più. Negli anni di Piombo, forse, le arance era importante che fossero più arancioni di quelle vere.
Di fianco al murale che ho dipinto a Rosarno in via Umberto I, ricordo una scritta a vernice sul muro: W J. V. BORGHESE.
Il Principe Nero, quello della Decima MAS e del presunto golpe in Italia del 1970. Poco sopra in via Mesima una bottega di un anziano che riparava le biciclette, una bottega un po’ sgangherata, senza porta di ingresso, con un grande magnifico poster appeso in fondo, liso e ingiallito, il poster elettorale che per decenni è stato sempre lo stesso in Italia: Vota Comunista. L’uomo mi ha raccontato della sua militanza nel Partito e soprattutto ricordo questa frase: Qui si sono mangiati tutto.
Ho dipinto una grande velina delle arance col nome Zeus, chissà di quale marca e provenienza, un esempio tipico di creatività spontanea che mescola immagini alte con quelle basse, un mondo di subcultura meridionale che inconsapevolmente si tira dietro l’eredità di un pezzo della storia più importante del mondo. La carta velina per incartare arance è un artifizio assoluto, una grande elaborazione metafisica, composizione concettuale, sviluppo astratto che ha il fine di presentare un semplice frutto della terra in un dono speciale, unico, prezioso, un grande artefatto, dove uno dei grandi temi è la Magna Grecia, che come i Bronzi di Riace sono una realtà psichica. A volte sembrerebbe che nei duemila anni e passa, fra la Magna Grecia e oggi, ci sia solo la Magna Grecia.
Così nel difficile tentativo di cercare di portare l’interno all’esterno, di esporre ed espormi con le immagini, con la loro forza e debolezza, i loro significati multipli, oltre a dipingere continuo a scrivere testi, che alla fine sono delle opere d’arte, come è il tempo dell’artista e anche Fanta Rosarno.
NOTE:
(1) Mario Perniola, Perché l’arte deve rimanere senza dio, in La Repubblica, 1 febbraio 2013.
(2) Sigmund Freud, IL Mosè di Michelangelo, 1914.
Testo pubblicato in KIWI Deliziosa guida – Rosarno Ulteriore, a cura di A di Città, Rosarno (RC) e Viaindustriae, Foligno (PG).