Idee per il futuro

Idee per il futuro è la nuova rubrica di exibart, per dare la parola agli artisti e immaginare, insieme, nuove idee per il futuro, oltre che per provare a capire come realizzarlo, dopo l’emergenza Covid-19: l’appuntamento di oggi è con Flavio Favelli.

Flavio Favelli (Firenze, 1967), dopo la Laurea in Storia Orientale all’Università di Bologna, prende parte al Link Project (1995-2001).
Ha esposto con progetti personali al MAXXI di Roma, al Centro per l’Arte Pecci di Prato, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, alla Maison Rouge di Parigi e al 176 Projectspace di Londra. Partecipa alla mostra Italics a Palazzo Grassi nel 2008 e a due Biennali di Venezia: la 50° (Clandestini, a cura di F. Bonami) e la 55° (Padiglione Italia a cura di B. Pietromarchi). Nel 2008 realizza Sala d’Attesaambiente permanente nel Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna che accoglie la celebrazione di funerali laici. Nel 2015 l’opera Gli Angeli degli Eroi viene scelta dal Quirinale per commemorare i militari caduti nella ricorrenza del 4 Novembre.
Nel 2017 il progetto Serie Imperiale vince la seconda edizione del bando Italian Council. Nel 2019 tiene la mostra personale “Il bello inverso” a Ca’ Rezzonico, uno dei musei della Fondazione Musei Civici a Venezia, ed esce libro d’artista Bologna la Rossa edito da Corraini Edizioni. Scrive per La Repubblica edizione di Bologna dal 2014.

La parola agli artisti

Tre cose che chiederesti per far fronte al futuro, come professionista dell’arte (Denaro? Possibilità di esporre? Studio gratuito? Minori imposte sulla Partita Iva? Abbassamento dell’IVA per chi decide di investire in arte? Creazione di un sindacato?…)
«Darei questa possibilità: facendo la somma del reddito degli ultimi 3 anni dell’artista, si calcola la media mensile e si divide per due. La cifra che risulta sarebbe lo stipendio mensile che lo Stato dovrebbe all’artista. Senza tasse. Dopo un anno, se l’artista ha venduto di meno della cifra annuale percepita dallo Stato è tutelato, se ha venduto di più, il resto andrà allo Stato. Ogni anno si rivedrà il parametro. Io sarei pronto, vorrei vedere chi ci sta. Perché se si chiedono soldi poi il problema è: a chi vanno? Tutti diventerebbero artisti, scenografi, creativi, e in questo momento populista molti direbbero E perché? A chi? A quelli che fanno la banana o il taglio sulla tela? Nel caso che ipotizzo si verrebbe ad un patto: una reciproca relazione con l’istituzione con cui vorrei avere degli scambi, come l’Italian Council. Con questa proposta/patto vorrei essere preso in considerazione, vorrei, più che essere tutelato, un riconoscimento che lo Stato dovrebbe darmi e altre iniziative (come la possibilità di partecipare a incontri con le amministrazioni). Credo che vada riconosciuto in qualche modo il lavoro dell’artista che mi sembra, -certo bisognerà fare delle distinzioni-, l’unico attore capace di creare senza uno studio di mercato, senza una previsione, senza un piano prestabilito. Anni fa ho esposto una grande opera, dopo mesi di lavoro, in un capannone in disuso vicino a casa sull’Appennino Bolognese. Feci una specie di inaugurazione, dove nel grande spazio di circa 300 metri quadrati si trovava l’opera. Un imprenditore mi disse: e tu tieni questo grande spazio solo per esporre un’opera?».

Ci puoi dire un motivo per cui, secondo te, ancora oggi in Italia si fatica a riconoscere i diritti degli artisti come categoria professionale?
«Giorni fa l’assessore alla cultura di Bologna ha detto che in Italia il lavoro culturale non viene riconosciuto. Già questa è una risposta. Figuriamoci gli artisti. Anni fa avevo scritto questo testo per fare capire la situazione: ci sono tanti fattori. Colpa anche degli artisti stessi. La faccenda è molto seria, certo non è semplice rifiutare possibilità di guadagno, ma si fanno troppe cose a carattere illustrativo e commerciale e questo alla fine pesa. Io stesso mi sono amaramente pentito di un progetto per un gadget di tanti anni fa, cosa che non rifarei. Gli artisti stessi accettano sempre usi e costumi che non fanno altro che mantenere un’idea ferma di un mondo spesso percepito, nonostante tutto, come noioso (ma chi va più alle presentazione dei libri e cataloghi d’arte?) Al The First Morning Fest of Unreasonable Acts nel 2018 a Bologna a cura di Antonio Grulli e Keren Cytter io e Luca Bertolo facemmo una discussione pubblica senza alcun mediatore. Mi sembra che sia stata una cosa unica nel suo genere. Di solito l’artista, se mai parla, viene sempre scortato e moderato dal curatore che appunto lo cura perché evidentemente va curato. D’altra parte gli artisti parlano poco, leggono poco, scrivono poco e, avrebbe detto mia nonna, non sanno nemmeno stare zitti, perché anche quello a volte è importante. L’artista non esprimendo nessun pensiero e presa di posizione (faccio un esempio: in passato non ho accettato di partecipare a due progetti legati alla Chiesa, per il semplice motivo che in quell’ambiente l’opera viene sempre letta in modo univoco e l’artista sembra sempre un messaggero, anche se non se ne rende conto, della bellezza del creato) verrà sempre visto come colui che si accontenta del rapporto che gli offre la società, cioè solo commerciale e questo necessario mezzo, se si tramuta in solo scopo, non può essere altro che scontato; ed è così, in fondo, che l’arte contemporanea viene percepita: come una mera faccenda di mercato. Il problema è che raggiungendo il successo commerciale automaticamente si raggiunge la fama (chi fa soldi è sempre importante) e quindi si entra di diritto nel pantheon degli artisti illustri che, a loro volta, per mantenere tale popolarità, non possono fare altro che ripetere il loro stile, per renderlo riconoscibile, come una firma di successo. Mi sembra che il recente esempio del Tricolore di cartone, plastificato, l’opera d’arte commissionata ad un artista famoso e regalata ai lettori del Corriere della Sera, in pieno periodo di virus a corona, vada in questa direzione».

Parliamo dei danni, oltre a quelli morali. A che progetti stavi lavorando prima di questo isolamento, ma soprattutto prevedi che si concretizzeranno o dovranno essere abbandonati? 
«Mah, tante cose, il punto è che fuori dal mondo dell’arte, il rapporto con aziende ed enti pubblici sarà sicuramente difficile da riprendere. Già prima era arduo, figuriamoci ora, non vedranno l’ora di dire … non è il momento, ora ci sono cose più urgenti».

Intervista uscita su Exibart il 23 aprile 2020.

L’arte giovane

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Si è parlato recentemente di un fondo a sostegno dell’arte contemporanea attraverso il quale il Comune di Bologna acquisterà opere di giovani talenti da destinare al MAMbo. In questi anni le opportunità per i giovani nell’arte non si contano, del resto i concorsi e premi sono quasi solo per under 35. Ma c’è un vizio di fondo: se i giovani vanno aiutati è perché si pensa che i meno giovani ce la possano fare e se nel mondo del lavoro può essere vero (ma uno dei grandi problemi oggi è la collocazione gli over 50), nell’arte non si può ragionare in questo modo. I non giovani sarebbero così quelli che vendono, come se il corso naturale del fare arte e il suo scopo fosse vendere con una galleria ed avere un mercato (certo è la realtà, ma perché poi tutti si lamentano oggi della commistione fa arte e mercato?) e quindi si dà per scontato che siano arrivati, cioè che solo il mercato sia il fine dell’arte, per cui una volta raggiunto, siano tutti appagati. Un altro vizio è quello dell’idea di profitto: i giovani sono un investimento; se questo ragionamento può tenere per il collezionismo (che non è mai mecenatismo e a cui piace la scommessa) per l’ente pubblico suona male anche perché il soggetto dovrebbe essere solo l’opera dell’artista e non un ragionamento sull’età che in sostanza ricalca il pensiero imprenditoriale. Se invece il motivo fosse la novità, cioè il giovane ha idee più nuove, come nel mondo del lavoro, questo non ha nessun riscontro nell’arte. La produzione dell’artista non ha regole e non può essere presa in considerazione rispetto all’età. In Italia vivere di arte non è semplice considerando che non c’è nessuna agevolazione nel Paese dell’Arte dove, fra l’altro, tutta la politica ad ogni inaugurazione dichiara sempre che l’arte è la linfa e il simbolo del paese. Se le gallerie, i collezionisti, molti artisti e il sistema pensano al mercato, l’istituzione diventa l’unica isola di salvezza di una situazione che in fondo tutti, almeno a parole, detestano. Sostenere solo i giovani è un procedimento del tutto simile al processo di investimento e di capitalizzazione tipico dell’impresa, ma che non può essere applicato all’arte.

Per fare l’arte

Leggo il programma del Festival della Mente di Sarzana, da poco concluso, che aveva come sottotitolo Come e perché nascono le idee. Interventi sulla creatività, spettacoli, incontri con scienziati, artisti, letterati, storici e filosofi. Salta subito all’occhio l’assenza di artisti visivi. Tra gli invitati non c’è nessun artista visivo. Singolare, perché un festival della mente dovrebbe occuparsi anche dell’arte di oggi, del resto, l’arte contemporanea non è concettuale da parecchio tempo? Scriveva Joseph Kosuth nel 1987: L’opinione prevalente è che l’artista, se ha qualcosa da dire, lo debba esprimere attraverso la propria opera. E naturalmente, alcuni dei miti ereditati … richiedono all’artista più un ruolo da stregone che da intellettuale… (1).
Anche al Festival Filosofia di Modena di quest’anno il tema era “le arti” (!), ma nessun artista visivo è stato invitato nel programma filosofico; lo spazio per gli artisti era confinato nel programma (recinto) creativo delle mostre e installazioni in gallerie e musei, oppure è rimasto negli studi. Un’idea della considerazione che si ha degli artisti è forse la presenza, nel programma filosofico del festival, di Brunello Cucinelli, l’imprenditore che ha come riferimento il Medioevo, il Rinascimento e le cui le pubblicità per vendere vestiti fanno riferimento al nostro Passato perduto: Amiamo i Codici. Messaggeri antichi di Arte e Cultura oppure La Natura è piena d’infinite ragioni (sentenza di Leonardo da Vinci). Pur di non invitare gli artisti si invita un imprenditore che si distinse, anni fa, insieme a Vittorio Sgarbi, nel volere abbattere la chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Ma anche al festival “La Repubblica delle Idee” del giugno scorso, a Bologna, non è stato invitato nessun artista visivo. A “rappresentare” l’arte c’era solo una discussione fra i critici Achille Bonito Oliva e Francesco Bonami, oltre a un programma al museo MAST con una serie di incontri insieme a professionisti del settore artistico, con varia creatività, graffiti, fumetto (si è parlato anche di fare foto col cellulare). Nel paese dell’arte il più importante giornale di progresso fa un festival e ignora gli artisti. E non può passare inosservato, sempre a giugno, che al Festival di RAI Radio3 a Forlì, dal titolo Arte, Cultura, Lavoro, nessun artista visivo era presente nel programma. Anche se spesso la classe dirigente e politica nomina l’arte come la propria stella polare, anche se centinaia di città sono annunciate da cartelli stradali come “città d’arte” e anche se tutti sono convinti che solo la bellezza e l’arte salveranno il mondo (www.brunellocucinelli.com/it/home.html), gli artisti, che l’arte la fanno, non sono contemplati. Credo, in fondo, che ci sia un misto di imbarazzo e disagio a parlare di arte contemporanea, per molti motivi, e così è meglio evitare di invitare gli artisti. Imbarazzo e disagio perché l’arte di oggi, al di là della Biennale di Venezia e del mainstream, che fanno sempre notizia, è complicata, indigesta e soprattutto impopolare. Forse perché l’arte è pensare in modo sofisticato per mezzo delle immagini, delle forme e dei concetti? È forse il sofisticato che crea problemi? Oppure l’arte di oggi è troppo difficile? Quante persone nella vita mi hanno subito avvertito: ah artista? Mi spiace, l’arte contemporanea proprio non la capisco! E molti sono professionisti, classe dirigente, non gente del popolo o italiani medi. Oppure perché l’arte di oggi è vista come banale – lo sapevo fare anch’io – e ci si ricorda dell’artista visivo o solo quando è maturo (il maestro!) o da defunto (anche perché i prezzi delle opere salgono e allora gli eredi e i collezionisti riscoprono l’artista) oppure quando ha un grande successo e diventa un evento da notizia, da giornale quotidiano? (Mi torna in mente mia nonna Tosca, bolognese, che visse sempre in via San Vitale e conosceva le sorelle di Giorgio Morandi. Non le non prese mai sul serio, tranne quando sentì al TG1 che qualcuno aveva acquistato a un’asta una tela di Morandi, pagandola più di mezzo miliardo di lire…). Nei quotidiani l’arte contemporanea viene presa in considerazione solo quando fa “scandalo”, oppure quando i redattori decidono che è arte commestibile per il grande pubblico. Questo generale sospetto ed esclusione appartiene comunque solo all’arte visiva, non è così per la letteratura contemporanea, per il cinema contemporaneo, per il teatro, la musica, la danza contemporanea. Si può allora azzardare un’ipotesi: il Belpaese, il paese dell’Arte Bella (l’unica cosa che mette d’accordo tutti è la grande bellezza della nostra arte – anche i camorristi e i mafiosi appena possono si circondano di bei quadri classici) è arrivata ad una tale bellezza che quell’apice non può più essere raggiunto. Siamo nati e cresciuti nei centri storici più belli del mondo che hanno rilasciato una specie di imprinting-incantesimo impermeabile ad ogni cambiamento e differenza. L’idea di arte si intende così solo come classica, ideale, virtuosa e irraggiungibile, di un passato lontano, di un paradiso e di una bellezza perdute. L’arte di oggi è ancora vista come difficile, noiosa, portatrice solo di scocciature e conflitti. Se il moderno Van Gogh è oramai entrato nell’Olimpo insieme a Giotto e Michelangelo, è solo perché fa fiori e paesaggi: nei cipressi e negli iris si vedono le belle pennellate (il lavoro!) c’è materia, c’è colore, soprattutto è arte che emoziona. È interessante notare che il gusto comune intende l’arte sempre legata in qualche modo all’emozione mentre tale termine è assolutamente bandito nell’arte contemporanea. L’arte del passato in Italia è un moloch, è un padre non permissivo che tiene ancora i figli per i capelli. Sono grandissime, ad esempio, le difficoltà che si trovano a fare arte contemporanea in Toscana, dove il popolo sente di avere nelle vene lo stesso sangue di Giotto. “Icastica”, una rassegna d’arte contemporanea che si è tenuta per pochi anni ad Arezzo, è stata chiusa a furor di popolo. Sembrerebbe poi che a Firenze ormai chiamino a realizzare mostre solo artisti contemporanei super famosi (Damien Hirst, Jeff Koons, Ai Weiwei, Jan Fabre, Bill Viola), quasi per sbertucciarli. Li si espongono in piazza o nei grandi palazzi, loro confessano che sono solo debitori al Rinascimento Italiano proponendo opere che si relazionano alla capitale del Granducato (“Rinascimento Elettronico” è il titolo della mostra di Bill Viola, Koons si ispira a Bernini, Fabre dialoga col Giambologna) e li si rimandano a casa. Un altro aspetto di imbarazzo e disagio è l’abitudine a non riconoscere l’artista visivo contemporaneo come autore: un caso emblematico è il riuscito progetto di Alessandra Andrini del 2005, il monumento al ciclista Marco Pantani, una grande biglia di plastica collocata davanti alla sede dell’azienda Mercatone Uno (che sponsorizzava il ciclista), visibile dall’autostrada A14. Il giorno dell’inaugurazione la “Gazzetta dello Sport” diede ampio riscontro all’evento in prima pagina, non citando l’artista, l’autrice dell’opera (2). Il quotidiano (sportivo) più letto d’Italia non fece altro che assecondare un sentire diffuso, per cui l’arte è cosa del passato, quindi non reale e se si inaugura un monumento al Pirata a nessuno interessa sapere chi l’ha fatto. Ricordo ancora bene, dopo tanti anni, l’esultanza da curva del pubblico romano –romanesco e romanista– all’Auditorium della Musica durante una interpretazione dell’opera di Ennio Flaiano di Roberto Herlitzka (3). L’attore, mentre recitava un passo dello scrittore di Pescara sull’arte odierna (… se avete in cantina … avanzi di gru metalliche, motorette inservibili, non gettate via niente, tingete tutto di vernice rossa antiruggine e mandate a Venezia…) fu inondato da uno scrosciante applauso liberatorio. L’arte della Biennale rimane in fondo quella del film di Alberto Sordi e della moglie Augusta in Le vacanze intelligenti e spesso fa rima con mondezza. La società diventa però meno distante quando servono soldi: ogni anno agli artisti visivi vengono richieste continue donazioni di opere per aste di varia beneficenza. Ma mai qualcuno che chieda il parere agli artisti sulla città, gli artisti agli incontri, ai dibattiti, ai festival della “cultura”. L’arte fa comodo solo come investimento (sembra che oggi l’unica preoccupazione, quando si acquista un’opera, sia quella di avere il certificato di autenticità, la sola garanzia per rivendere l’arte senza intoppi, un giorno…). Se da una parte l’arte contemporanea è diventata quasi di moda (trent’anni fa l’artista americano Vito Acconci già diceva che oramai era diventata un’affare solo da ricchi), con banche che prendono il loro stand alle fiere di arte contemporanea per orientare gli acquisti in vista di interessanti investimenti, dall’altra c’è grandissima ignoranza e superficialità: nei media generalisti l’arte appare solo se provocatoria, o utile a qualche causa (asili, immigrati, ecologia, sguardo al Passato), oppure si vira sulla Street Art, grande mattatrice degli ultimi anni, che ha invaso le città (costa poco ed è di grande effetto), che forse incarna la vera rivincita del gusto del popolo sull’arte “difficile” degli intellettuali. Due anni fa ho telefonato a Enel (ma non è socio del Museo MAXXI di Roma?) per il contratto del mio nuovo studio a Savigno. La gentile signorina mi chiese che attività svolgessi. Scultura e pittura, sono un artista risposi. L’addetta di Enel disse subito che non esisteva la voce artista e mi pose subito davanti ad una scelta: la metto fra gli artigiani o i liberi professionisti? Per Enel, come in generale per il Belpaese, l’artista è una persona non reale, che non esiste e che comunque è meglio che rimanga al buio.

Note

  1. Joseph Kosuth, L’arte dopo la filosofia, Costa & Nolan, 1987
  2. Alessandra Andrini mi ha confermato l’incredibile fatto.
  3. Il minore ovvero preferirei di no. Una lettura in tre atti dall’opera di Ennio Flaiano, con Roberto Herlitzka a cura di Luca Sossella, regia di Jacopo Gassmann.

Testo pubblicato su DoppioZero:
http://www.doppiozero.com/materiali/fare-larte-ci-vuole-lartista

 

Italia e Bologna

L’anno scorso ho telefonato a Enel per il contratto del mio nuovo studio a Savigno.
La gentile signorina mi chiese quale attività svolgessi. Scultura e pittura, artista risposi, del resto da vent’anni non faccio altro. L’addetta di Enel disse che non esisteva la voce artista e mi pose subito una domanda senza scampo: la metto fra gli artigiani o i liberi professionisti? Per Enel, come in generale per il Belpaese, l’artista è una persona non reale, che non esiste e comunque non ha bisogno di energia elettrica. L’arte attuale è una cosa lontana, che ogni tanto va giusto ricordata. Bisogna infatti sapere che nella cultura di massa del popolo italiano l’idea di arte del proprio tempo è ancora legata indissolubilmente alla scena del film Le Vacanze Intelligenti con Alberto Sordi alla Biennale di Venezia. Il fatto che molte opere di artisti viventi vengano vendute a cifre più alte delle quotazioni dei nostri Maestri del Passato, ha però incuriosito la classe dirigente del nostro Paese che ogni tanto si accorge che l’arte contemporanea esiste; solo davanti a certe cifre la faccenda non può che diventare seria. Nel 2005 ci fu la mostra Bologna Conteporanea alla GAM, una mostra generale per censire quasi settanta artisti degli ultimi decenni. A distanza di undici anni la città si propone la stessa domanda con una modalità differente, un chiaro segno dei tempi: la retrospettiva dell’arte bolognese si tiene in un museo privato, proprio mentre al Mambo, la galleria comunale, c’è David Bowie, un’esposizione fatta di qualche centinaio di oggetti che non sono opere d’arte (e se ce ne sono non le ha fatte Bowie) insieme al suo shop itinerante e varie amenità.
Visto la natura di questa mostra –che veniva dal Victoria and Albert e non certo dalla Tate Modern- in una città normale sarebbe dovuta andare a Palazzo Fava –adatto alle mostre viaggianti, di cartello e globali, quelle insomma che piacciono all’Ascom- mentre invece quella sull’arte di oggi nella sede comunale.
Ogni due lustri -un artista in salute ne può timbrare anche sette-, Bologna, che ha in uno dei suoi simboli una scultura in bronzo, si accorge che si fa dell’arte in città e che bisogna farla vedere, anche se oggi, come allora, non ci sono fondi per produrre opere inedite. Bologna Dopo Morandi si sarebbe dovuta mostrare nella sede istituzionale del Mambo, con incontri, dibattiti e discussioni – a che serve un museo se non ci si incontra e non si discute?- chiara scelta culturale e politica –sì perchè l’arte è anche politica-, in uno spazio progettato per l’arte di oggi con ampie sale e senza i soffitti a cassettoni, i caminetti e la potestà dei Carracci in mezzo. Si legge poi che la mostra nel Palazzo delle Esposizioni bolognese chiuderà proprio prima di Arte Fiera, l’unico periodo di scambio col mondo contemporaneo in città. Ma non è per questo motivo che ho rinunciato all’invito ad esporre nella bomboniera di Palazzo Fava.