Intervista di Angela Maderna

Il 29 marzo, durante l’art week, nel sotterraneo Albergo Diurno Venezia, il FAI ospita Senso 80, una personale di Flavio Favelli, che in questi spazi liberty dalle tonalità rosa sembra aver trovato il suo habitat naturale.
Tutta la ricerca dell’artista è legata alla sua storia personale, un vissuto di cui non ha mai fatto mistero: cresciuto tra una madre amante dell’arte e della cultura, con cui ha viaggiato spesso, e un padre affetto da una malattia psichica.
Flavio Favelli è un personaggio intrigante e bizzarro, quando si parla con lui non è difficile decifrare se “ci è o ci fa”, come ha scritto Simone Menegoi.
Vive nella sua famigerata casa-opera d’arte a Savigno (in provincia di Bologna) e ha realizzato diversi progetti pubblici in luoghi insoliti. Oltre a fare l’artista, scrive sulle pagine bolognesi de La Repubblica, che essendo un giornale di carta – ci dice lui – ormai viene letta solo dai ricchi.
Lo abbiamo incontrato per una lunga conversazione mentre allestiva la sua mostra qui a Milano e abbiamo parlato di molto del fare arte e di come la vede lui, lucido osservatore dalle posizioni radicali. (Angela Maderna)

Intervista pubblica su Zero

ZERO: Hai una formazione estranea al mondo dell’arte, hai fatto studi legati alla Storia Orientale. Quando e come hai iniziato a fare l’artista? Mi chiedo se e come l’interesse per l’oriente e questa formazione abbiano influito nella tua pratica artistica
Flavio Favelli: Ho scelto di studiare Storia Orientale perché occuparmi di cose lontane era probabilmente un modo per distaccarmi da ciò che stavo vivendo, e credo che questa materia si avvicini anche a una certa idea di esotismo che mi ha sempre interessato. Sono cresciuto in case e ambienti in cui c’era l’idea che i luoghi fossero tanto lontani quanto interessanti. Per farti un esempio, quando mia madre mi metteva a letto la sera mi raccontava che in quel momento i cinesi si stavano alzando, lo faceva per darmi la percezione di quanto la Cina fosse lontana e opposta. Sono stato a Palmira e Damasco nel 1985, quando non c’era nessun turista lì. Per me da giovane studente quel luogo è stato molto importante perché nella storia antica tutto è accaduto lì, poco tempo fa ho realizzato anche un’opera-murale su Palmira a Iglesias che poi si è rivelato anche fin troppo profetico. Trovo strano che le persone abbiano sentito parlare di Palmira solo a causa dei fatti recenti, sembrava essere diventato il nostro avamposto culturale, ma solo pochi anni fa era una zona archeologica deserta con i ragazzini che vendevano gli oggetti trovati dal sito per pochi dollari.

Hai parlato di distacco. Tutto il tuo lavoro si basa sul tuo vissuto: è stato per te anche un modo per prenderne le distanze?
Sì, più passa il tempo e più i ricordi si sovrappongono, diventano ricordi di ricordi. Nel mio caso prendono anche forma, quindi quando lavoro ad esempio attorno ad una scala non posso dimenticare tutte le scale che ho incontrato, che ho vissuto e che sono legate a momenti cruciali e anche pesanti della mia vita. Però è un continuo tagliare e ritagliare, assemblare. Di conseguenza tutti questi ricordi sono distorti e diventano altre cose. Mi sembra più giusto parlare di ricordo che di memoria, perché il ricordo ha una dimensione intima, poi è accaduto che anche che da ricordi personali siano nate delle opere con una valenza pubblica rilevante.

E da artista tu non percepisci una differenza tra il lavorare su un’opera pubblica e il realizzare un’opera che finirà all’interno di una galleria o di un museo? Anche solo per il fatto che avrà un pubblico e una fruizione diversi?
È un tema molto interessante e ampio. Io sono convinto che più rimango fedele alla mia poetica e più l’opera ha possibilità di diventare pubblica. Bisogna però capire cosa intendiamo per pubblico. Penso che molti artisti facciano degli errori perché non fanno altro che diventare urbanisti o architetti. Credo che più l’artista penetra in profondità nella sua poetica più ha possibilità di riuscire a interpretare qualche riflesso della società. Per l’arte, poi, il relazionarsi a problemi della società è solo una possibilità, quando diventa un fine allora per me è cattiva arte. Un esempio è il progetto che ho realizzato a Cosenza (un murale dedicato a Luigi Marulla, un calciatore appena scomparso): l’opera è stata molto criticata e ho anche lasciato che la modificassero dopo il mio intervento, ma sono ancora convinto che il mio lavoro avesse un significato che non è stato accettato. Molti pensano che questo voglia dire che io abbia sbagliato l’opera, mentre credo che sia la gente che non ammette qualcosa di diverso da ciò che forse si aspettava. Penso che l’arte sia qualcosa di esclusivo – e non mi riferisco ad una tessera vip o a un conto in banca – credo che si possa entrare a far parte di questa esclusività anche con la capacità di mettersi in gioco; se non si capisce una poesia è anche perché non ci si è informati sulla poetica dell’autore.

Diciamo che storicamente quando l’arte contemporanea doveva rispondere alla necessità di essere compresa da tutti era in genere arte di regime…
Certo, questa è una questione molto delicata. Certamente il contesto va preso in considerazione; io comunque colloco sempre l’arte in un territorio di conflitto. Anche il motivo per cui ho scelto di fare l’artista deriva da un conflitto, con me stesso, con la mia famiglia, con l’ambiente. In più la gente oggi vuole giudicare tutto. Bisogna dire che la pubblicità ha fatto un grande lavoro: dappertutto ci dice che “tu vali”. Ognuno vuole valere ed essere autore, intervenire, giudicare dalle aiuole dei giardini alle mostre al museo. Ognuno si sente offeso, chiamato in causa. Volevamo un popolo meno chiuso, abbiamo della gente solo pettegola e rozza.

Utilizzi spesso il collage e l’assemblage nei tuoi lavori. C’è qualcosa in questa pratica del mettere insieme pezzi di cose che rimanda anche al mettere insieme i pezzi della vita…
Sì certo. Questa pratica di ricomporre e ricostruire, non solo oggetti, ma collage di carta, francobolli, specchi, piastrelle e anche ambienti è senza fine. Ad esempio una delle prime operazioni che feci era un ambiente, si ricorda poco perché allora internet non si usava come adesso, fu nel 2000 in un ex dormitorio delle Ferrovie dello Stato a Bologna. Anche questo processo ha a che fare col conflitto, perché ricostruire un intero ambiente significa cercare la completa alienazione dal contesto, è come dire che ciò che è preesistente non va bene e quindi deve essere rifatto (dal pavimento, alla luce, ai muri ecc.) per creare un territorio autoctono e autarchico. L’arte nasce dall’insoddisfazione e dall’estraneità rispetto a ciò che passa il convento.

Hai scritto che «quando si è artisti si vive sempre con un faro acceso addosso, un occhio di un dio dietro le spalle, lo sguardo del mondo che ti segue sempre». Mi sembra un peso enorme da portare, è come se tu ti sentissi sempre dentro alla grande performance della tua vita?
Credo che questa sia la condizione dell’artista. L’ho sperimentato vedendo mio padre e anch’io posso dire lo stesso. È vero che dopo millenni d’arte dire di essere un artista è una bella presunzione, ma è anche giusto che sia così. Senza questo faro tanti progetti non potrebbero esistere. È una specie di terzo occhio privato, un demone che attende risposte.
Apparentemente è il pubblico, il confronto con la società, ma in realtà è uno spirito che chiama e che vuole sempre diversi punti di vista. È una partita che l’artista fa con se stesso per la quale il contesto non fa differenza: tornando all’opera murale di Cosenza è per questo motivo del “faro acceso addosso” che si sceglie di operare in luoghi desueti, decentrati. Il rischio è oggi che gli artisti lavorino esclusivamente a Hong Kong o New York. Sento sempre dire anche da persone autorevoli che “l’arte è andata sempre dove c’era il denaro”. Come se dovessimo ripercorrere o avallare degli usi di secoli fa. Noi siamo moderni, non antichi in cerca di corti, O no?

La Sala d’Attesa alla Certosa di Bologna è un altro progetto che hai fortemente voluto realizzare…
Sì quella è in assoluto un progetto da cui si sta alla larga, perché parlare della morte è sempre pesante e scomodo. Mi capita spesso d’incontrare persone sconosciute che mi raccontano di esserci stati per un funerale ed è interessante perché in quei casi tutto cambia, in quei momenti certo non si bada al luogo e a come è fatto, non ci si chiede perché ci sono 60 lampadari o per quale motivo sotto alla seduta ci siano delle pile di vecchi piatti Ginori. Per me l’idea è stata quella di pensare a un luogo per la propria fine; ho sempre avuto un rapporto alla morte molto vicino; ma niente di esclusivo o misterico: mi hanno sempre colpito le tombe egizie in cui ci si portavano tutte le cose, oggetti rituali ma anche quelli d’uso comune. Fin da bambino mi colpì molto e per me è stata come una sorta d’iniziazione poetica. Col mio lavoro sto facendo qualcosa di parallelo, perché è come se stessi realizzando una “tomba” ma da vivo, nel senso che tutte queste cose che vedi anche qui in mostra, sono degli oggetti che potrebbero avere un senso molto simile a quello degli oggetti nelle tombe egizie. Forse è come se avessi sempre lavorato per cercare di ricreare un tempo passato per tentare di cambiarne il corso; cose che in realtà non sono andate per il verso giusto, come cercare di riavvolgere un nastro, come ritornare nella scena – artificiale, una nuova scena – del delitto.
Ad esempio in quei marmi bianchi che vedi (indica un lavoro esposto – n.d.r.) c’è sicuramente ancora un pezzo di pavimento della cucina di mia nonna. Prendere-riprendere queste cose e riassemblare è un po’ come tentare di ritornare e cambiare – non le cose che sono già avvenute – ma forse la mia percezione. Potrebbe essere un banale processo, però credo che sia semplicemente uno dei soggetti della mia vita; è quello che faccio ogni giorno.

Infatti so che anche la tua casa è come se fosse una grande opera a cui continui a dedicarti…
Sì, ad esempio tutti i bagni sono stati fatti manualmente da me utilizzando tutti materiali di riporto. Mi piace questa parola: “riporto”, perché sembra meno nobile del recupero (che oggi viene ricondotta a quello che crediamo essere un modo verde di pensare) e ricorda qualcosa di più industriale, evoca le macerie.

Hai lavorato anche al Link Project dove hai realizzato un bar a forma di ufficio postale.
Sì, e ho fatto anche una sala coi pavimenti di vetro nel sotterraneo, che era un ex magazzino della farmacie comunali dove si tenevano i medicinali a temperatura controllata. È stata un’esperienza importante ma anche molto dura, lì c’era sempre un sentimento di aggregazione e ho scoperto che invece questa faccenda dell’arte me la dovevo vedere in solitudine che è anche un grande tema nel mio lavoro, della mia esistenza. Non è un caso se dal centro di Bologna ora mi sono spostato sull’Appennino bolognese. C’è questo vizio oggi per cui sembra che tutti i progetti d’arte debbano essere partecipati, servire a qualcosa, siano a sfondo sociale, politico o si debbano occupare delle periferie, delle zone di disagio. Questo può essere interessante, ma il dramma è che sta diventando quasi obbligatorio. Questa faccenda dell’arte pubblica in Italia sta prendendo una piega allarmante, perché appunto sembra ci debba essere necessariamente sempre un dialogo. Poi c’è questa parola magica della “partecipazione”. Ci sono decine di artisti che hanno lavorato con i pezzi della barche di Lampedusa e a Palazzo Strozzi a Firenze è successa una cosa che ha avuto grande risalto (l’installazione dei gommoni di Ai Weiwei – n.d.r.) è una questione molto delicata e rischia di essere trattata in modo troppo letterale e banale. Credo che l’arte non si debba porre semplicemente il tema del giusto e dello sbagliato, del bene e del male, altrimenti il rischio è quello di perdere la propria natura.
Pochi hanno afferrato che alla Biennale di Venezia il Vaticano ha voluto il suo padiglione per affermare che esiste un’arte giusta, del bene, che in qualche modo ha una direzione. E poi tutti a dire della responsabilità degli artisti.
Per me se c’è uno che non ne deve avere è proprio l’artista…

Ci racconti qualcosa su questa mostra che stai allestendo qui all’Albergo Diurno Venezia?
Sì, è venuta quasi spontaneamente. Tutto è nato dopo aver visto una foto degli anni Venti in cui nelle quattro isole che stanno al centro della sala del Diurno c’erano quattro arredi: due rondò-divani e due tavoli. Così ho pensato di ricostruire questi quattro oggetti che non esistono più e che mi hanno acceso delle immagini con materiali che uso da sempre; ho creato due scalette fatte con pianoforti, mattonelle in graniglia, marmi (che non vengono solo da pavimenti ma anche dai piani d’appoggio di comodini e comò, sono marmi domestici).
Poi ci sono le insegne, perché questo spazio è molto contaminato da questi plasticoni che non c’entrano niente con il grande progetto del Portaluppi (vedi qui c’è scritto Ferrovie dello Stato, Barbiere, in fondo c’è un bellissimo adesivo del Caffè Hag). Io ho messo 5 insegne inedite che sono dei collage con delle sovrapposizioni che creano altre immagini a cui sono molto legato, ci sono questi nomi quasi futuristi: Fiamm, Jolly, Valvoline, Motoroil. Sembrano delle onomatopee.

Vieni spesso a Milano? Ci sono luoghi che frequenti in città?
No. Milano è una città che non frequento per piacere. In Italia le mie città preferite sono, in ordine: Palermo, Napoli e Roma.

Grape Juice

Matteo Bergamini – L’anno scorso, a Milano, in una piccola mostra curata da Roberto Ago durante il Salone del Mobile, era esposta una “Fanta-Cola”, un tuo oggetto creato proprio unendo due bottigliette da 33 cl. di Fanta e Coca Cola. I riferimenti, se non erro, erano anche al Piano Marshall e all’idea che questa vecchia politica altro non fu che un metodo per rendere le economie europee funzionali a quelle statunitensi. Ed ecco che l’italiana San Pellegrino generava un prodotto che potesse essere al pari della “bevanda segreta” americana. Lotta impari.
Andy Warhol parlava della Coca Cola come bevanda democratica, perché la beve il Presidente e l’homeless, e il gusto è il medesimo.
Tu che rapporto hai con la Coca? A Istanbul tutta la tua mostra è stata generata dall’etichetta di una lattina di succo d’uva prodotto negli Usa dalla 
Coca Cola Company, e anche alla fine della mostra ci sarà un “reperto” molto particolare…

Flavio Favelli – Mi ricordo che ero in una corsia di un Cash & Carry insieme ad altri, facevamo una grande spesa per il bar del Link, era la fine degli anni 90 a Bologna, compravamo qualche decina di cassa alla volta di birra e bibite, arrivati alla Coca il responsabile bar disse: boicottiamola e così prendemmo la Pepsi. Più avanti c’è Pepsi si rivelò profetico. La Coca Cola rimane più o meno se stessa, è sempre quella, e questo è importante, amavo il vecchio logo della Pepsi, ma quando ha cambiato mi ha deluso. Sono abitudinario e troppi cambiamenti mi infastidiscono. Voglio dirti però che i riferimenti della Fanta-Cola sono semplicemente estetici, come in tutte le mie opere non cerco mai significati a sfondo sociale, politico. Quindi tagliare due bottiglie  (quella della Fanta di quegli anni, arancione bruno con anelli di vetro a rilievo e scritta in smalto penso che sia uno degli oggetti più straordinari che abbia mai incontrato in vita mia) e metterle insieme, è forse un tentativo di appropriarsi di un tempo passato, mettere le mani nelle viscere delle bottiglie e degli oggetti e soprattutto di quello che rappresentano, è un momento per me importante, intenso, perché certi oggetti – più di altri – rappresentano il tempo che ho vissuto e questo vuole dire parlare con le loro anime, ma non è magia, è che le anime degli oggetti siamo noi ancora più veri. Io vivo con la bottiglia di vetro della Coca e della Fanta e queste saranno sempre con me. Aggiungo che amo le bottiglie, ma non vado matto per il contenuto, avrò bevuto fino ad ora sì e no 40 litri di Coca, 50 di Fanta e una ventina di Pepsi.

Matteo Bergamini – Per questa mostra hai prodotto quattro pannelli dipinti a smalto che raffigurano simboli classici del Paese e particolari di banconote turche degli anni ’70. Immagino sia in riferimento alla società e al suo cambiamento “originario”, che ha portato Istanbul ad essere una delle metropoli più mutevoli di questi anni ’10, snaturandola e, per quanto possibile, omologandola.

Flavio Favelli – Come ti dicevo cerco immagini a cui mi dedico perché evocano altre immagini, ricordi, storie e soprattutto passioni. Mi piacciono i contrasti perché sono ambigui e mettono in crisi le certezze. Le banconote sono una delle prime cose che fa un paese e sui simboli ci si gioca molto. Mi piace vedere il Padre dei Turchi Ataturk vicino ai decori di tulipani e garofani che sono disegni di un lontano passato o insieme a Maometto II nello stesso foglio da 1.000 lire turche. Quanti significati, quanti segni insieme e contraddizioni, confusioni… gli stati, le società sono dei gran calderoni e tutto fa brodo.
Ho disegnato un grande tulipano, nero, su una grande lamiera arancione. A noi che stiamo di qua, verrebbe in mente l’Olanda, la prima volta che vidi la sua maglia arancione fu nella TV a colori dei bar a Riccione era la finale con l’Argentina del 78, era con mia nonno che amava la Lowembrau con leone rampante, allora Riccione era una colonia tedesca. 

Matteo Bergamini – Ancora, negli anni ’70, dove ora è sorto il Museo dell’Innocenza di Pamuk, viveva la famiglia Keskin, che ha raccolto tutto quello che potesse rappresentare una “memoria” di loro interesse, un po’ come avveniva – nella letteratura e nel cinema – ad un altro giovane protagonista (originario dell’Ucraina, di casa negli Stati Uniti): Jonathan Safran Foer, di “Ogni Cosa è illuminata”.
Hai raccolto, insieme all’architetto Özelmas del Museo dell’Innocenza, per un altro progetto di questa residenza, una serie di pannelli di ferro riciclati per creare un container al Galata. Cosa vuoi metterci dentro? Tutte le memorie che in questi anni hai riportato alla luce?

Flavio Favelli – La lamiera arancione è proprio del “container” che ho costruito. Ho trovato dei bellissimi pannelli di lamiera in una delle discariche dove mi ha portato Murat.
Molti raccoglitori di ferro stanno in Asia e per andarci ci vuole tantissimo tempo, il traffico qui è un incubo. Sono soddisfatto di quest’opera, The Black Tulip, di un arancio un po’ arrugginito su cui affiora un vecchio intenso blu. Mi soddisfa perché mi dà un intenso piacere psichico e questo credo che sia per me necessario. In questo caso mi soffermo sulla forma esterna del cassone, non ho pensato all’interno. E’ un raro equilibrio, tanto semplice, quanto complesso, credo, di un’opera riuscita. In questo caso il mondo si divide in due. Chi, come nel caso del custode turco che assisteva al montaggio, rimane sorpreso dal fatto che si possa perdere energie e tempo a costruire un grande parallelepipedo di lamiere vecchi, arrugginite e quindi brutte e chi percepisce una tensione fra gli stimoli visivi e di significato che vede. 

Matteo Bergamini – Sarebbe azzardato definirti un “archeologo con licenza poetica”?

Flavio Favelli – Non mi piace tanto la parola Archeologia perchè comunemente si riferisce ad un Passato con la P maiuscola, le Grandi Civiltà, l’Arte….
Io amo il mio tempo e soprattutto il tempo della mia infanzia e adolescenza perché da artista, penso che sia unico e irripetibile. Trasformo gli oggetti di quel tempo e diventano arte. Poi, non so se per caso, è stato un tempo di un’intensità straordinaria per il nostro paese e non solo. E poi gli archeologi vestono sempre colori chiari, sabbia, cachi, che iniseme ai colori spallettiani, detesto. Penso che l’Archeologia nel nostro paese abbia fatto grandi danni, per intenderci io avrei lasciato nel mare i Bronzi di Riace, ma questa è una storia complessa e lunga, magari ne parleremo con calma un’altra volta.
Diciamo che voglio rivivere per sempre la storia che ho vissuto.

Matteo Bergamini – Chiudo con le “cartoline”: hai messo all’ingresso una veduta dello skyline di Istanbul all’alba o al tramonto, immagine classica e stereotipata del “sapore e mistero d’Oriente”. C’è qualcosa che mi ricorda i frame della New York deserta nell’alba di Vanilla Sky, quasi come se ogni città fosse solo una cristallizzazione del sogno che è chiamata ad evocare. Che rapporto hai con le metropoli e cosa hai scoperto di questa “tua” Istanbul?

Flavio Favelli – Questa cartolina che ho ingrandito è la sagoma delle classiche moschee al tramonto, quasi fossero di cartone. E’ un’immagine struggente, mielosa, romantica, ma di grande fascino. Il Corno d’Oro e la luce fanno il resto. Non ho conosciuto bene Istanbul, come non si può conoscere una città in un mese. Ma chi conosce una città? Chi ci abita? Spesso ci riferiamo alle note dei viaggiatori per comprendere un luogo, a gente di passaggio, non ai suoi abitanti. Io ho abitato per più di trent’anni a Bologna, ma conosco solo quello che ho vissuto, ho conosciuto via Guerrazzi angolo San Petronio Vecchio e solo quello che ho voluto incontrare. Forse è importante tradurre lo spirito di un luogo e questo può avvenire anche dopo poco tempo. Sandokan è tanto vero quanto immaginario. Ieri la Turchia ha proclamato 3 giorni di lutto per i morti delle miniere. Ci sono stati scontri in città e gli elicotteri insistevano nel cielo e mi sono sentito fortemente estraneo anche se ero nella parte europea di Istanbul.

* intervista di Matteo Bergamini pubblicata su Exibart il 19 maggio 2014

Il soggetto e le singolarità nell’arte

APPROFONDIMENTI / SPECIALE ARTE PUBBLICA

Un po’ di tempo fa Flavio Favelli mi segnala un suo testo su Sentimiento Nuevo (a cura di Davide Ferri e Antonio Grulli, edizioni MAMbo), antologia che raccoglie interventi tenuti nel 2013 durante un seminario nel museo bolognese. Favelli mi dice che ha preso una posizione molto netta sull’Arte Pubblica, «facendo anche nomi e cognomi». Lo leggo e penso che sia il caso di approfondire la questione, non solo perché condivido in parte alcune sue obiezioni, ma anche perché Favelli è un artista che lavora anche nello spazio pubblico e dunque la cosa si fa più interessante. Decido di mettere a confronto le sue tesi con quelle di un curatore molto attivo in questo campo, Marco Scotini. Flavio mi chiede di “entrare” nel dialogo e che sia io a rivolgere delle domande ad entrambi. Ecco il risultato di questo confronto, in cui entrano in gioco non solo riferimenti teorici, ma anche vissuti personali. Un vis-à-vis molto intenso, e a volte anche aspro (Adriana Polveroni, direttrice di Exibart).

Flavio Favelli: «Mi occupo di ciò che mi rapisce e che mi provoca piacere. E quello che mi rapisce è il rapporto fra gli oggetti che ho visto, gli ambienti dove ho vissuto e le immagini della mia mente. È un rapporto sicuramente non libero, incestuoso e ambiguo, ma mi provoca uno stato di forte eccitazione»

Marco Scotini: «L’idea di un’arte del soggetto è stata quella borghese e non potrà più essere tale. A meno che quest’idea si voglia forzare dentro un sistema neofeudale, come quello attuale, che cerca di ristabilire i soggetti e le procedure della vecchia arte. Al costo di investimenti finanziari e forme repressive ufficiali»

Flavio Favelli: «Ho dei sospetti quando sento artisti che operano per la società, per l’altro, per il pubblico. Si mira anche alla de-soggettivazione, una specie di fioretto per arrivare poi alla redenzione. Si tirano fuori virtù da catechismo che mirano alla figura dell’artista come intellettuale austero d’avanguardia, che sta sulla barricata tanto cara a certi ambienti di salotto. Che rifiuta l’essere autore e l’aureola dell’opera. Si de-soggettivizza il Maestro, ma non il conto corrente»

Marco Scotini: «Quando pensiamo a una nuova Arte Pubblica, questa non è più vincolata all’idea dello Stato e neppure all’idea di popolo che l’ha accompagnata. Allora, possiamo parlare di un’arte delle singolarità piuttosto che di un’arte della de-soggettivazione»

Marco Scotini: «Non c’è un’estetica scorporabile dal politico. La grande eredità di Kant non sta nel tenere separati gli ambiti della fisica, dell’etica e dell’estetica (cosa irriproponibile), ma di fare dell’estetica, delle sue regole facoltative, la chiave di volta della costruzione delle soggettività. È, in sostanza, la cura del sé»

A.P.: Le vostre posizioni rivelano due idee dell’arte radicalmente antitetiche che cerco di presentare attingendo da vostri testi e opere. E che sintetizzo così: una, quella di Favelli, che rivendica la singolarità e addirittura l’autoreferenzialità dell’arte. E l’altra, quella di Scotini, che invece si basa su un assunto plurale: i “Molti”, come fondamento di un’arte nella sfera pubblica. La prima domanda è obbligata: perché secondo te, Flavio, l’arte è privata?

Flavio Favelli: «Credo di non potere uscire dalla mia esistenza, posso parlare solo per me, anche se nessuno vive in una torre d’avorio. Posso dire che lo scomporre, il ricomporre, il mettere insieme, distruggere e ricostruire fanno parte di una pratica quasi quotidiana, perché prima è psicologica e poi artistica. Distruggere il passato al fine di preservarlo (1) è un processo che mi sta accompagnando da tanto tempo. Ho iniziato da bambino, ho iniziato con raccogliere i cocci, perchè qualcosa si era rotto. E il soggetto sono gli oggetti che sono eterni e che hanno un forte potere. Certo che è finito tutto da un pezzo, ma io credo ancora nell’opera, che non sempre è distinta dall’oggetto, già il mio sguardo sull’oggetto è una fase dell’opera. Oggi si vuole ancora di più mettere in crisi l’opera, ma solo perchè non si riesce più a vederla o non la si vuole vedere o perché non si è più capaci. Anche quando ho creato ambienti per un pubblico e una funzione, il mio primo proposito è stato sempre quello della mia esigenza personale, che è quella di indagare il mio passato perchè provoca in me piacere. Mi occupo di ciò che mi rapisce e che mi provoca piacere. E quello che mi rapisce è il rapporto fra gli oggetti che ho visto, gli ambienti dove ho vissuto e le immagini della mia mente. Oggetti che hanno un destino eterno diversamente da me. È un rapporto sicuramente non libero, incestuoso e ambiguo, ma mi provoca uno stato di forte eccitazione. È un piacere anche complesso, doloroso ed dolcissimo allo stesso momento. Investe la mente e il corpo e allaga la psiche. Ho l’impressione che suoni riprovevole provare piacere, sembrerebbe anzi un tabù dell’arte. Per cui ho dei sospetti quando sento artisti che operano per la società, per l’altro, per il pubblico. Si mira anche alla de-soggettivazione, che potrebbe essere vista come una specie di fioretto per arrivare poi alla redenzione. Sono propositi alti, nobili, ideali, ma ideologici e contradditori. Si tirano fuori virtù da catechismo che mirano alla figura dell’artista come un intellettuale austero d’avanguardia, che sta sulla barricata tanto cara a certi ambienti di salotto, che rifiuta l’essere autore e l’aureola dell’opera, ma nello stesso momento vuole la scena e mai si oppone al mercato. Si de-soggettivizza il Maestro, ma non il conto corrente. In una ultima intervista che ho letto l’artista Gian Maria Tosatti che sentenzia: “Non sarebbe errato, quindi, dire che il mio lavoro non consiste nel fare opere, ma nel farle generare da ogni individuo”. (2) Sparisce l’autore, l’artista è solo un mezzo, una specie di martire che immola la sua opera per il prossimo, quasi una transustanziazione. Ma questo è Cristo e credo che non ci sia posto per Cristo nell’arte contemporanea che è incarnata col potere, l’economia, col Nemico, con una visione del mondo che è piramidale. Il momento della creazione dell’opera per me è devastante, è lo scontro fra i mondi della mia mente; gli “effetti visivi” che molti artisti rigettano sono essenziali, fondamentali. Passare il tempo con gli oggetti è vitale, anche se sono imprendibili».

Come reagisci, Marco, a questa idea di privatezza ma, direi di più, a questa rivendicazione forte della soggettività?

Marco Scotini: «L’idea di Flavio non è sbagliata per principio, è solo un po’ ‘tolemaica’, cioè storicamente arretrata. Come in tutti i grandi periodi di trasformazione possono continuare a esserci delle sopravvivenze. Che intendo dire? Che l’arte e la cultura sono sempre produzioni storicamente determinate e il concetto di un’arte del soggetto, di un’arte “interiore” (psicologica e privata), ha fatto il suo tempo. Ha accompagnato l’ascesa e il declino di una classe sociale precisa. Se ci interessa ancora l’arte come vettore di libertà, desiderio e innovazione non potremo più pensarla come “interiorità”. Da un lato: cos’è l’interiorità al tempo di Facebook e di Twitter? Dall’altro: non si vorrà per caso pensare che l’introduzione dei mercati finanziari nell’economia artistica abbia a che fare con l’arte in un senso strutturale? L’idea di un’arte del soggetto è stata quella borghese e non potrà più essere tale. A meno che quest’idea si voglia forzare dentro un sistema neofeudale come quello attuale che cerca di ristabilire i soggetti e le procedure della vecchia arte al costo di investimenti finanziari e forme repressive ufficiali. I van Gogh e gli Artaud (vere essenze di quell’idea) non possono più esserci, ma neppure c’erano al tempo di Leonardo o Simone Martini. Il problema non è solo quello del soggetto-artista ma di tutte le istituzioni che attorno gli sono state create. Queste funzioni oggi (come il museo, ecc.) sono integrate e non costituiscono un problema per nessuno. Anzi potremmo dire l’opposto. Se mai separano le funzioni intellettuali e creative dai loro concatenamenti, le interrompono dalla propria sperimentazione, le sottraggono all’immanenza della composizione sociale per iscriverle nella valorizzazione e nel controllo esercitati dall’industria culturale. Allora che cos’è un’arte “dei e per” i molti? Non dunque un’arte per il popolo o un’arte sociale, ma un’arte dei molti. Potremo pensarla ancora dentro il suo schema occidentale e moderno? Le tradizioni dell’arte africana, quelle islamiche, quelle oceaniche come ci appaiono oggi? Queste culture ormai dislocate, le dovremo continuare a ricondurre, come Picasso, alla dimensione del soggetto? Oppure c’è dell’altro a venire?».

Un’altra critica che Favelli fa all’Arte Pubblica è rivolta al “dogma” del site specific. Ce la puoi esporre?

F.F: «Oramai nei comunicati stampa appare questa specie di sigillo sinonimo di qualità: appositamente realizzato per l’occasione. Insinuando quasi la superiorità di questo tipo di opere dalle altre progettate senza contesto. Insomma, se non si realizza per l’occasione, per l’ambito e per il luogo, l’opera non è così interessante. Questo vuole dire che non si vuole più credere nell’opera, vista solo come un monolite, avulso dal milieu, che è il solo che può darle vita. Si cerca di “attivare” l’opera, renderla fruibile, renderla partecipata. Ma questa per me è superficialità. Pochi oramai parlano dell’opera. C’è anche chi esorta a fare opere più comprensibili. Mi sono accorto che ho creato molte opere che non ho mai esposto, che ho raccolto molto materiale che giace ancora nei miei spazi, che per me sono delle anticamere, che contengono, come in una tomba egizia, molte immagini che oscillano fra la mia mente e questa specie di archivi. È fortissima l’ambizione di esporre al pubblico, ma è un pubblico che non è un fine, ma solo un mezzo che forse ha solo la funzione di decretare la fine della vita dell’opera, ma solo perchè ne sto già pensando un’altra. Il pubblico serve per fare il funerale all’opera. Gli oggetti sono eterni, non come le opere. L’opera è un oggetto trasformato che è depositaria di un enorme potenziale metaforico e immaginale e le metafore sono più grandi della realtà. Oggi si preferisce guardare oltre, attorno e con intenti sociali, perchè il site specific è sempre legato comunque ad un fine propositivo, come ad esempio di chi vuole Dio nell’arte. L’arte è estranea ai bisogni. È un pensiero fortemente tradizionale pensare che l’arte abbia un significato positivo, viene in mente Tolstoj…Il Vaso di Pandora dell’arte contemporanea, per dirla con Mario Perniola, è arte, meta-arte, antiarte insieme, chi vuole portare questo mondo in una direzione impegnata va fuori tema».

Qual è invece per te, Marco, il senso del “site specific”? 

M.S.: «Come sai, Adriana, negli ultimi anni, abbiamo cercato di integrare e trasformare questa importante idea. Abbiamo cercato di estenderla a tutte le latitudini. Con i miei amici l’abbiamo definita prima “audience specific”, poi “fight specific”. Non potendoci più ancorare a un luogo fisico, sono apparse all’orizzonte queste moltitudini contestuali che sono state la vera innovazione culturale, sociale e linguistica. Le abbiamo identificate come il vero produttore e ricettore di un’arte in senso nuovo. Queste moltitudini si sono trovate assieme per la prima volta nella storia: non le legava più un territorio, una religione, un’ideologia politica. In un’accezione inattesa ci hanno insegnato a ridefinire lo spazio, a vivere il tempo, ad inventare nuove relazioni sociali, semiotiche e culturali. Altro che artisti: questo general intellect era un super-artista collettivo, plurale, a n facce, a n corpi, a n voci, a n sguardi. Ci sembrava incatturabile. Ora stanno cercando di bloccarlo con tutti i mezzi. Ma non ce la faranno».

Come abbiamo visto, Flavio critica anche un altro cardine dell’arte realizzata con una tensione pubblica: la “de-soggettivazione”. Ne parla a proposito della posizione assunta da Gian Maria Tosatti e da Claire Fontane. A prima vista la “de-soggettivazione” sembrerebbe sposarsi all’idea dei “Molti” di Marco che evidentemente va oltre il criterio della soggettività. Ce la puoi spiegare, Marco?

M.S.: «Che vuol dire oggi farsi riconoscere, essere soggetti identificabili? Fare la spalliera della sedia alla maniera di Philippe Stark piuttosto che secondo il look Ron Arad? Tutta questa idea dello stile l’ha liquidata (e molto in fretta) il design e il fashion brand. Per il resto c’è in cantiere tutta un’altra idea di pensare noi stessi che non passa più per il soggetto moderno. Abbiamo parlato di soggettività che è qualcosa di totalmente differente. L’identità oggi è buona solo per i dispositivi biometrici di controllo e di sicurezza. Quando pensiamo a una nuova Arte Pubblica, questa non è più vincolata all’idea dello stato e neppure all’idea di popolo che l’ha accompagnata. Allora, possiamo parlare di un’arte delle singolarità piuttosto che a un’arte della de-soggettivazione. Comunque quest’arte è de-soggettivizzatta, se è vero che si è sbarazzata del soggetto (con i suoi doveri moderni, di essere sempre uguale a se stesso). Ma questo non vuol dire che è un’arte inqualificata e inqualificabile. Tutt’altro. È un’arte delle singolarità».

Flavio attacca anche una certa pratica artistica, oggi piuttosto in voga, che si riassume nella “citazione”. “Molti artisti oggi – scrive in La rivoluzione dei megafoni (Sentimiento Nuevo) – sono quasi studiosi, ricercatori, esploratori e viaggiatori, non più autori. Sono meri traduttori: danno voce e nemmeno la loro”. Che cosa pensi di questa pratica, Marco?

M.S.: «Oggi l’artista si è trasformato nello storico (Narkevičius o Zaatari), in geografo (gli Atlanti Eclettici), in ricercatore che lavora con gli archivi. Lo sfondo di molta parte del dibattito recente sulle relazioni tra arte e politica corrisponde all’erosione dell’orizzonte utopistico dell’arte, su cui era fondato il suo potere di generare contro-concetti. Il potere dell’arte sta nella capacità di immaginare cose in maniera diversa, nella sovversione e trasgressione dei confini di una modernità disciplinare. Sotto i parametri del regime disciplinare, l’immaginazione utopistica era alimentata dalle idee di trasgressione, sovversione ed emancipazione fondate su di un “fuori” e un “oltre”. Queste idee hanno formato un’economia dell’immaginario, che fondeva immaginazione creativa e istanze politiche emancipatorie. Oggi, al contrario, dobbiamo re-immaginare ogni cosa in ogni campo».

Un problema che mi pare sotteso all’intervento di Favelli riportato in Sentimiento Nuevo è di ordine esperenziale. E mi spiego: Flavio non accetta la posizione, in questo caso espressa da Lara Favaretto, secondo cui la vera arte è quella che “innesca dubbi e discussioni”. Mentre tutta l’altra sarebbe pressoché inutile. Intanto, Marco, vorrei conoscere la tua posizione a questo proposito.

M.S.: «Qui siamo ancora in un terreno moderno. È chiaro che Godard è un artista perché s’interroga in ogni lavoro su cos’è il cinema. Ma questo era possibile perché c’era il cinema classico che, in un certo senso, decostruisce. Ma oggi quali sono le nostre istituzioni? Come fa Hito Steyerl, il filmmaker è attento alle classi di immagini in circolazione (immagini ricche, immagini povere), alla loro velocità di circolazione, fuori dell’istituzione. Quelle immagini che tutti noi produciamo ogni giorno e riceviamo ogni giorno: sul cellulare, l’Ipad, you tube. Interveniamo su ciò in cui ognuno (dal Cairo a Roma) lavora ogni giorno. Ecco ancora quest’Arte Pubblica del general intellect».

Flavio rivendica “l’esperienza reale, la vicenda vissuta”. L’arte ha bisogno di poggiare su un’esperienza reale che è necessariamente privata. Anche Scotini rivendica in qualche modo il carattere esperenziale dell’arte, ma spostando il soggetto dall’uno ai Molti, scardina di fatto l’idea stessa di esperienza. È così?

M.S.: «Se vogliamo con ciò intendere un’esperienza contemplativa, sì: non è più così. Già Benjamin parlava della “percezione distratta”. L’intensità c’è ancora, ne abbiamo più bisogno che mai. Ma questa non passa con l’interiorità. Ero qualche giorno fa a Istanbul con Vasif Kortun (il direttore di Salt) e mi diceva della grande intensità provata da tutti con Gezi Park. “Una comune di pochi giorni” mi diceva Vasif».

Inoltre, a questa idea di esperienza plurale Marco lega una possibilità (quasi “forte” direi) dell’estetica: “l’essere contemporaneo, sganciato da tutte le forme di determinismo che lo collegavano ad ambiti di appartenenza, è chiamato ad autodefinirsi e a negoziare la propria individualità attraverso regole facoltative”. Quindi, sintetizzando molto, compie un’azione estetica. Dove si recupera, se si recupera per te, Flavio, la possibilità estetica? Te lo chiedo perché facilmente si sarebbe portati a pensare che un’arte singolare, privata si ponga il problema estetico.

F.F.: «Forse posso dire che non mi pongo un problema estetico, ma una questione che viene prima di quello estetica, quella esistenziale. Ma voglio essere ancora più chiaro: il mio problema è del significato, cioè voglio ricostruire tutte le immagini che ho creato spontaneamente nel mio passato, quando non avevo consapevolezza artistica, per il semplice motivo che amo solo quelle e vogliono dire per me tanto. Mi seducono perché hanno un sapore diverso. E allora vuole dire proporre e riproporre cose nuove per fare vivere meglio le vecchie e respirarle. E quando le respiro a pieni polmoni sono semplicemente più felice e in quei momenti potrei anche morire. Certo è una felicità effimera, ma è la mia grazia in una specie di eterno ritorno».

A Marco chiedo di esprimere meglio questa idea estetica dell’arte nella sfera pubblica, che evidentemente va oltre i criteri kantiani.

M.S.: «L’estetico appunto. È una parola nuova e straordinaria per comprendere l’attualità. Io ripeto sempre che la contemporaneità è una produzione estetica. Qualche tempo fa si diceva con Gerald Raunig che tutti i pensatori della modernità partivano dalla politica per arrivare all’estetica. Il primo è stato Kant: la Critica del giudizio è l’ultima. Questo vale anche per Sartre, per Adorno, per tutti gli altri. Per noi oggi è diverso. Non c’è un’estetica scorporabile dal politico. In che senso? La grande eredità di Kant non sta nel tenere separati gli ambiti della fisica, dell’etica e dell’estetica (cosa irriproponibile), ma di fare dell’estetica, delle sue regole facoltative, la chiave di volta della costruzione delle soggettività. È, in sostanza, la cura del sé e l’ultimo Foucault ce l’ha insegnato. Da allora se esistono nuove soggettività, esistono a patto di essere una costruzione estetica, una sperimentazione, un’innovazione».

NOTE:
(1) Chris Sharp, Non proprio come me lo ricordavo, in Flavio Favelli, a cura di Alberto Salvadori, Mousse Poublishing, 2013
(2) Gian Maria Tosatti, intervista, Artribune (2013)