Bologna. Lo stato dell’arte

Nella recente intervista l’ex Magnifico Rettore dice soprattutto una cosa – o lo dice il titolo dell’intervista -: che l’arte fa molta fatica e bisogna investire e anche che si sta perdendo la cultura e l’artigianato. Ne parla come se tutte queste cose appartenessero ad un unico ambito, condiviso. Ci sono invece almeno tre grandi emisferi distanti fra loro, con diversi linguaggi e modi di pensare che a volte s’incrociano, ma sono spesso in conflitto: quello dell’arte del passato, del gusto classico, conservatore contro la generale volgarità dell’oggi, quello diciamo neo-positivista (Chiesa compresa) dove l’arte, tutta, ha un valore col segno più: bellezza ed eccellenza vanno sempre a braccetto con utilità e lavoro: l’arte serve per un generale benessere e accompagna il successo e si intreccia col design e l’artigianato (e qui pure col cibo). E quello dell’arte contemporanea, più consapevole, che oscilla fra la lezione delle Avanguardie e del Novecento e le Biennali in giro per il mondo, ma sempre tallonata (definitivamente?) da gallerie snob e vip cards. Detto questo, considerando che il tempo popolare e populista (non è il momento della Street Art?) ha il suo peso, non si può pensare che la questione sia se il turista vada o meno a vedere il Cimabue o Il Compianto (ma è veramente così percepibile l’effetto sul territorio delle folle che tutti i santi giorni invadono la Cappella Sistina o gli Uffizi? E così Roma o Firenze non dovrebbero essere di conseguenza investite da tale lucente cultura invece che essere rispettivamente simbolo di degrado e di provincialismo nobil-bottegaio?) perchè questi rappresentano soggetti improponibili all’oggi e rimangono solo come svago piacevole senza bucare la nostra esistenza. Il magnetismo dell’immagine sacra-arcaica su fondo oro oppure del Cristo morto (c’è oggi un soggetto più scarico e desueto?) o delle donne che piangono, giacciono in una griglia a comparti stagni che ci ostiniamo ancora a chiamare bellezza.

Arte oggi

Testo proposto alla redazione cultura di Repubblica (ed. Bologna) e non pubblicato.

Recentemente il MAMbo e la galleria De’Foscherari hanno aperto mostre su Cesare Pietroiusti e Mario Airò due artisti nati fra la metà degli anni 50 e gli inizi degli anni ‘60 che hanno sicuramente in comune una pratica distante da chi in qualche modo si riconosce facendo pittura e scultura. Al vernissage in via Castiglione nella storica galleria bolognese c’erano, insieme al suo pubblico classico – da Walter Guadagnini a Pier Giovanni Castagnoli – molti artisti fra cui Eva Marisaldi, Luca Vitone, Cuoghi e Corsello, Vedova Mazzei oltre a Gino Gianuizzi, l’animatore per trent’anni della famosa galleria Neon. La De’Foscherari è la galleria storica della città (prima con sede vicino a Galleria Cavour e poi di fianco a Piazza della Mercanzia) con un programma -così dice nel suo sito web- “svolto in due direzioni strettamente connesse: l’attenzione alla tradizione criticamente consolidata …e l’interesse per la ricerca e la sperimentazione”, termine quest’ultimo molto ampio: se lo pensiamo fra gli anni ‘80 e il 2000 è sicuramente molto distante da quello inteso dalla galleria Neon che è stata, come dice il suo fondatore in una recente intervista “..un’azione dadaista/ situazionista/ anarchica. Post ’77, post-punk…” sottolineando in modo ben diverso dall’idea di galleria d’arte “… quando abbiamo deciso di iniziare Neon non sapevamo davvero che cosa avremmo voluto fare; non avevamo risorse economiche…” E così fa un certo effetto vedere l’altra sera in via Castiglione, forse per la prima volta insieme , questi attori con passati così differenti e idee e operati tempo fa sicuramente inconciliabili fra loro. Considerando poi che artisti come Luca Vitone ed Eva Marisaldi, i primi che hanno animato agli inizi Neon, hanno esposto recentemente alla De’Foscherari, si conferma la tendenza, anche per la neo-avanguardia, a posizionarsi in ambienti più solidi.

Intervista di Angela Maderna

Il 29 marzo, durante l’art week, nel sotterraneo Albergo Diurno Venezia, il FAI ospita Senso 80, una personale di Flavio Favelli, che in questi spazi liberty dalle tonalità rosa sembra aver trovato il suo habitat naturale.
Tutta la ricerca dell’artista è legata alla sua storia personale, un vissuto di cui non ha mai fatto mistero: cresciuto tra una madre amante dell’arte e della cultura, con cui ha viaggiato spesso, e un padre affetto da una malattia psichica.
Flavio Favelli è un personaggio intrigante e bizzarro, quando si parla con lui non è difficile decifrare se “ci è o ci fa”, come ha scritto Simone Menegoi.
Vive nella sua famigerata casa-opera d’arte a Savigno (in provincia di Bologna) e ha realizzato diversi progetti pubblici in luoghi insoliti. Oltre a fare l’artista, scrive sulle pagine bolognesi de La Repubblica, che essendo un giornale di carta – ci dice lui – ormai viene letta solo dai ricchi.
Lo abbiamo incontrato per una lunga conversazione mentre allestiva la sua mostra qui a Milano e abbiamo parlato di molto del fare arte e di come la vede lui, lucido osservatore dalle posizioni radicali. (Angela Maderna)

Intervista pubblica su Zero

ZERO: Hai una formazione estranea al mondo dell’arte, hai fatto studi legati alla Storia Orientale. Quando e come hai iniziato a fare l’artista? Mi chiedo se e come l’interesse per l’oriente e questa formazione abbiano influito nella tua pratica artistica
Flavio Favelli: Ho scelto di studiare Storia Orientale perché occuparmi di cose lontane era probabilmente un modo per distaccarmi da ciò che stavo vivendo, e credo che questa materia si avvicini anche a una certa idea di esotismo che mi ha sempre interessato. Sono cresciuto in case e ambienti in cui c’era l’idea che i luoghi fossero tanto lontani quanto interessanti. Per farti un esempio, quando mia madre mi metteva a letto la sera mi raccontava che in quel momento i cinesi si stavano alzando, lo faceva per darmi la percezione di quanto la Cina fosse lontana e opposta. Sono stato a Palmira e Damasco nel 1985, quando non c’era nessun turista lì. Per me da giovane studente quel luogo è stato molto importante perché nella storia antica tutto è accaduto lì, poco tempo fa ho realizzato anche un’opera-murale su Palmira a Iglesias che poi si è rivelato anche fin troppo profetico. Trovo strano che le persone abbiano sentito parlare di Palmira solo a causa dei fatti recenti, sembrava essere diventato il nostro avamposto culturale, ma solo pochi anni fa era una zona archeologica deserta con i ragazzini che vendevano gli oggetti trovati dal sito per pochi dollari.

Hai parlato di distacco. Tutto il tuo lavoro si basa sul tuo vissuto: è stato per te anche un modo per prenderne le distanze?
Sì, più passa il tempo e più i ricordi si sovrappongono, diventano ricordi di ricordi. Nel mio caso prendono anche forma, quindi quando lavoro ad esempio attorno ad una scala non posso dimenticare tutte le scale che ho incontrato, che ho vissuto e che sono legate a momenti cruciali e anche pesanti della mia vita. Però è un continuo tagliare e ritagliare, assemblare. Di conseguenza tutti questi ricordi sono distorti e diventano altre cose. Mi sembra più giusto parlare di ricordo che di memoria, perché il ricordo ha una dimensione intima, poi è accaduto che anche che da ricordi personali siano nate delle opere con una valenza pubblica rilevante.

E da artista tu non percepisci una differenza tra il lavorare su un’opera pubblica e il realizzare un’opera che finirà all’interno di una galleria o di un museo? Anche solo per il fatto che avrà un pubblico e una fruizione diversi?
È un tema molto interessante e ampio. Io sono convinto che più rimango fedele alla mia poetica e più l’opera ha possibilità di diventare pubblica. Bisogna però capire cosa intendiamo per pubblico. Penso che molti artisti facciano degli errori perché non fanno altro che diventare urbanisti o architetti. Credo che più l’artista penetra in profondità nella sua poetica più ha possibilità di riuscire a interpretare qualche riflesso della società. Per l’arte, poi, il relazionarsi a problemi della società è solo una possibilità, quando diventa un fine allora per me è cattiva arte. Un esempio è il progetto che ho realizzato a Cosenza (un murale dedicato a Luigi Marulla, un calciatore appena scomparso): l’opera è stata molto criticata e ho anche lasciato che la modificassero dopo il mio intervento, ma sono ancora convinto che il mio lavoro avesse un significato che non è stato accettato. Molti pensano che questo voglia dire che io abbia sbagliato l’opera, mentre credo che sia la gente che non ammette qualcosa di diverso da ciò che forse si aspettava. Penso che l’arte sia qualcosa di esclusivo – e non mi riferisco ad una tessera vip o a un conto in banca – credo che si possa entrare a far parte di questa esclusività anche con la capacità di mettersi in gioco; se non si capisce una poesia è anche perché non ci si è informati sulla poetica dell’autore.

Diciamo che storicamente quando l’arte contemporanea doveva rispondere alla necessità di essere compresa da tutti era in genere arte di regime…
Certo, questa è una questione molto delicata. Certamente il contesto va preso in considerazione; io comunque colloco sempre l’arte in un territorio di conflitto. Anche il motivo per cui ho scelto di fare l’artista deriva da un conflitto, con me stesso, con la mia famiglia, con l’ambiente. In più la gente oggi vuole giudicare tutto. Bisogna dire che la pubblicità ha fatto un grande lavoro: dappertutto ci dice che “tu vali”. Ognuno vuole valere ed essere autore, intervenire, giudicare dalle aiuole dei giardini alle mostre al museo. Ognuno si sente offeso, chiamato in causa. Volevamo un popolo meno chiuso, abbiamo della gente solo pettegola e rozza.

Utilizzi spesso il collage e l’assemblage nei tuoi lavori. C’è qualcosa in questa pratica del mettere insieme pezzi di cose che rimanda anche al mettere insieme i pezzi della vita…
Sì certo. Questa pratica di ricomporre e ricostruire, non solo oggetti, ma collage di carta, francobolli, specchi, piastrelle e anche ambienti è senza fine. Ad esempio una delle prime operazioni che feci era un ambiente, si ricorda poco perché allora internet non si usava come adesso, fu nel 2000 in un ex dormitorio delle Ferrovie dello Stato a Bologna. Anche questo processo ha a che fare col conflitto, perché ricostruire un intero ambiente significa cercare la completa alienazione dal contesto, è come dire che ciò che è preesistente non va bene e quindi deve essere rifatto (dal pavimento, alla luce, ai muri ecc.) per creare un territorio autoctono e autarchico. L’arte nasce dall’insoddisfazione e dall’estraneità rispetto a ciò che passa il convento.

Hai scritto che «quando si è artisti si vive sempre con un faro acceso addosso, un occhio di un dio dietro le spalle, lo sguardo del mondo che ti segue sempre». Mi sembra un peso enorme da portare, è come se tu ti sentissi sempre dentro alla grande performance della tua vita?
Credo che questa sia la condizione dell’artista. L’ho sperimentato vedendo mio padre e anch’io posso dire lo stesso. È vero che dopo millenni d’arte dire di essere un artista è una bella presunzione, ma è anche giusto che sia così. Senza questo faro tanti progetti non potrebbero esistere. È una specie di terzo occhio privato, un demone che attende risposte.
Apparentemente è il pubblico, il confronto con la società, ma in realtà è uno spirito che chiama e che vuole sempre diversi punti di vista. È una partita che l’artista fa con se stesso per la quale il contesto non fa differenza: tornando all’opera murale di Cosenza è per questo motivo del “faro acceso addosso” che si sceglie di operare in luoghi desueti, decentrati. Il rischio è oggi che gli artisti lavorino esclusivamente a Hong Kong o New York. Sento sempre dire anche da persone autorevoli che “l’arte è andata sempre dove c’era il denaro”. Come se dovessimo ripercorrere o avallare degli usi di secoli fa. Noi siamo moderni, non antichi in cerca di corti, O no?

La Sala d’Attesa alla Certosa di Bologna è un altro progetto che hai fortemente voluto realizzare…
Sì quella è in assoluto un progetto da cui si sta alla larga, perché parlare della morte è sempre pesante e scomodo. Mi capita spesso d’incontrare persone sconosciute che mi raccontano di esserci stati per un funerale ed è interessante perché in quei casi tutto cambia, in quei momenti certo non si bada al luogo e a come è fatto, non ci si chiede perché ci sono 60 lampadari o per quale motivo sotto alla seduta ci siano delle pile di vecchi piatti Ginori. Per me l’idea è stata quella di pensare a un luogo per la propria fine; ho sempre avuto un rapporto alla morte molto vicino; ma niente di esclusivo o misterico: mi hanno sempre colpito le tombe egizie in cui ci si portavano tutte le cose, oggetti rituali ma anche quelli d’uso comune. Fin da bambino mi colpì molto e per me è stata come una sorta d’iniziazione poetica. Col mio lavoro sto facendo qualcosa di parallelo, perché è come se stessi realizzando una “tomba” ma da vivo, nel senso che tutte queste cose che vedi anche qui in mostra, sono degli oggetti che potrebbero avere un senso molto simile a quello degli oggetti nelle tombe egizie. Forse è come se avessi sempre lavorato per cercare di ricreare un tempo passato per tentare di cambiarne il corso; cose che in realtà non sono andate per il verso giusto, come cercare di riavvolgere un nastro, come ritornare nella scena – artificiale, una nuova scena – del delitto.
Ad esempio in quei marmi bianchi che vedi (indica un lavoro esposto – n.d.r.) c’è sicuramente ancora un pezzo di pavimento della cucina di mia nonna. Prendere-riprendere queste cose e riassemblare è un po’ come tentare di ritornare e cambiare – non le cose che sono già avvenute – ma forse la mia percezione. Potrebbe essere un banale processo, però credo che sia semplicemente uno dei soggetti della mia vita; è quello che faccio ogni giorno.

Infatti so che anche la tua casa è come se fosse una grande opera a cui continui a dedicarti…
Sì, ad esempio tutti i bagni sono stati fatti manualmente da me utilizzando tutti materiali di riporto. Mi piace questa parola: “riporto”, perché sembra meno nobile del recupero (che oggi viene ricondotta a quello che crediamo essere un modo verde di pensare) e ricorda qualcosa di più industriale, evoca le macerie.

Hai lavorato anche al Link Project dove hai realizzato un bar a forma di ufficio postale.
Sì, e ho fatto anche una sala coi pavimenti di vetro nel sotterraneo, che era un ex magazzino della farmacie comunali dove si tenevano i medicinali a temperatura controllata. È stata un’esperienza importante ma anche molto dura, lì c’era sempre un sentimento di aggregazione e ho scoperto che invece questa faccenda dell’arte me la dovevo vedere in solitudine che è anche un grande tema nel mio lavoro, della mia esistenza. Non è un caso se dal centro di Bologna ora mi sono spostato sull’Appennino bolognese. C’è questo vizio oggi per cui sembra che tutti i progetti d’arte debbano essere partecipati, servire a qualcosa, siano a sfondo sociale, politico o si debbano occupare delle periferie, delle zone di disagio. Questo può essere interessante, ma il dramma è che sta diventando quasi obbligatorio. Questa faccenda dell’arte pubblica in Italia sta prendendo una piega allarmante, perché appunto sembra ci debba essere necessariamente sempre un dialogo. Poi c’è questa parola magica della “partecipazione”. Ci sono decine di artisti che hanno lavorato con i pezzi della barche di Lampedusa e a Palazzo Strozzi a Firenze è successa una cosa che ha avuto grande risalto (l’installazione dei gommoni di Ai Weiwei – n.d.r.) è una questione molto delicata e rischia di essere trattata in modo troppo letterale e banale. Credo che l’arte non si debba porre semplicemente il tema del giusto e dello sbagliato, del bene e del male, altrimenti il rischio è quello di perdere la propria natura.
Pochi hanno afferrato che alla Biennale di Venezia il Vaticano ha voluto il suo padiglione per affermare che esiste un’arte giusta, del bene, che in qualche modo ha una direzione. E poi tutti a dire della responsabilità degli artisti.
Per me se c’è uno che non ne deve avere è proprio l’artista…

Ci racconti qualcosa su questa mostra che stai allestendo qui all’Albergo Diurno Venezia?
Sì, è venuta quasi spontaneamente. Tutto è nato dopo aver visto una foto degli anni Venti in cui nelle quattro isole che stanno al centro della sala del Diurno c’erano quattro arredi: due rondò-divani e due tavoli. Così ho pensato di ricostruire questi quattro oggetti che non esistono più e che mi hanno acceso delle immagini con materiali che uso da sempre; ho creato due scalette fatte con pianoforti, mattonelle in graniglia, marmi (che non vengono solo da pavimenti ma anche dai piani d’appoggio di comodini e comò, sono marmi domestici).
Poi ci sono le insegne, perché questo spazio è molto contaminato da questi plasticoni che non c’entrano niente con il grande progetto del Portaluppi (vedi qui c’è scritto Ferrovie dello Stato, Barbiere, in fondo c’è un bellissimo adesivo del Caffè Hag). Io ho messo 5 insegne inedite che sono dei collage con delle sovrapposizioni che creano altre immagini a cui sono molto legato, ci sono questi nomi quasi futuristi: Fiamm, Jolly, Valvoline, Motoroil. Sembrano delle onomatopee.

Vieni spesso a Milano? Ci sono luoghi che frequenti in città?
No. Milano è una città che non frequento per piacere. In Italia le mie città preferite sono, in ordine: Palermo, Napoli e Roma.

L’arte per Lampedusa

In un bell’articolo di anni fa su questo giornale Mario Perniola scrisse una frase emblematica sull’arte contemporanea: … è tale solo se è allo stesso tempo anche meta-arte e anti-arte. Il crescente numero di artisti che lavorano su temi sociali e politici e che hanno come fine una generale sensibilizzazione ai problemi di attualità è un fatto importante di questi ultimi anni. Un’arte che, fra impegno, mancanza di ispirazione poetica e senso di colpa, cerca di informare, denunciare e in fondo educare per cercare, probabilmente, di cambiare il mondo. Tutto ciò induce ad una diffusa credenza che l’arte in qualche modo possa aiutare a risolvere qualche problema concreto. I (rari) bandi pubblici per opere d’arte e progetti pubblici (di solito quando c’è un parcheggio abbandonato o per dare un volto ad una brutta piazza) oramai richiedono risvolti di utilità e partecipazioni cittadine; per avere un sostegno e un finanziamento da enti e fondazioni bisogna ricercare e marcare fini etici, valori aggiunti di tipo sociale, dialogare con la comunità e il contesto, coinvolgere asili, anziani, immigrati, quartieri e periferie. E’ un periodo questo dove il popolo-ismo, oramai abituato a commentare e dare opinioni su ogni panchina e fioriera pubblica, ha gioco ed influisce, ha gusti semplici e vuole belle morali; in fondo il grande successo della Street Art conferma questa tendenza: la star Bansky non è un robin hood che difende i deboli contro i cattivi della globalizzazione? In soldoni, alla politica, dell’arte contemporanea (che spesso porta polemiche e scocciature) importa il giusto e soprattutto non le conviene andare contro il gusto comune e, se proprio ci deve essere, allora che serva a qualcosa. Questo tarlo della pubblica utilità ovviamente condiziona oramai anche gli artisti (ti do opportunità solo se fai opere e progetti che fanno del bene) che tendono a modellare la propria poetica verso un’arte che ha tutte le carte in regola per diventare ideologica. Sono tanti gli artisti che hanno fatto progetti e lavorato in questi anni sul dramma dei migranti (è stato uno dei temi della grande mostra di Firenze della star internazionale Ai Weiwei) e sui barconi di Lampedusa. Da Thomas Kilpper nel 2008 a Hans Schabus nel 2011, ultimamente da Vik Muniz a Béa Kayani, da Jacopo di Cera e Jason deCaires Taylor, da Isaac Julien a Loredana Longo e sono solo una parte (oltre al regista Alejandro Gonzalez Inarritu el’artigiano artista Francesco Tuccio che ha donato una croce di legno fatta con le barche-carcassa al Papa). La domanda dell’artista Massimo Sansavini, da cui è nato il progetto e la mostra sulla tragedia di Lampedusa esposta all’Assemblea Regionale, mi sono chiesto cosa poteva fare un artista di fronte a quello strazio? è un quesito che dà all’artista un compito legato solo alla necessità dell’oggi, all’agenda della cronaca e dei problemi da risolvere. Quando si dice della crisi dell’arte.