Intervista di Valentina Tebala

Valentina Tebala – Caro Flavio, non potrei iniziare l’intervista senza introdurre il motivo per cui ci siamo conosciuti che è anche il medesimo per il quale io stessa ho avuto modo di approfondire con interesse il tuo lavoro. Ovvero il murale che hai realizzato a Cosenza invitato ai Bocs Art nel 2015 e la diatriba che ne è conseguita tra gli addetti ai lavori e non: “Il caso Marulla” con tutte le sue problematiche inerenti l’Arte pubblica, che qui evitiamo di indagare ulteriormente. Piuttosto un elemento che mi ha molto colpito – tra il marasma di spunti di riflessione nati da quella vicenda – probabilmente anche per un fattore personale e biografico, è il tuo rapporto con il Sud d’Italia. Mi pare di avvertire come un’attrazione, una fascinazione oscillante tra due poli opposti, come Eros e Thanatos. Hai lavorato e frequentato spesso il Sud, ma non hai risparmiato parole anche parecchio critiche nei confronti di questi luoghi così «esotici»…

Flavio Favelli – Cara Valentina, ti rispondo da Palermo, sono i giorni di Manifesta. Mi sento molto legato all’isola e a questa città, dove ho fatto molti progetti e preso soggetti di questo universo per molte opere. E’ come se qui avessi più tensioni, più immagini che generano altre immagini che si allacciano al mio bagaglio italiano della penisola. Ho scelto di fare un intervento con due artisti Giuseppe Buzzotta e Toni Romanelli, siamo tre differenti generazioni, abbiamo preso un negozio sfitto, in Via Roma, con scritto Fenomeno sulla vetrata. E’ un negozio moderno, con arredi bianchi e grigi, doveva forse vendere abbigliamento per uomini attuali ed esigenti, ma di una eleganza troppo globale per essere vera, un negozio lontano da quello che un visitatore si aspetta da Palermo coi suoi palazzi nobiliari fra il dimesso e lo sbragato e così maledettamente belli quanto inutili; direi proprio questo: A Palermo e in Sicilia c’è una bellezza eccessiva, stordente, inutile, come il dolce della Martorana, che è più dolce dello zucchero. Abbiamo proprio scelto un posto capace di rispecchiare il gusto e l’immaginario della città degli ultimi quarant’anni, che sembrano lontani da chiese ricamate e edifici antichi. Qui si spinge di più che da altri parti sull’apparire… ai matrimoni gli uomini sono imbellettati e infagottati come damerini, le donne giunoniche e a volte provocanti, ma con sempre un qualcosa di domestico, casareccio e bambini d’appertutto quasi a dire che la famiglia, nonostante le sue puntuali crudeltà, è la base di tutto. Mi piacciono tutte queste sovrapposizioni, un infinito collage meridionale, dove tutto in qualche modo rinasce con grandi fratture e cicatrici. E’ il tema delle rovine, comuni a tutto il Sud Italiano, che al Nord non ci possiamo permettere. Posso dire amo il Meridione Italiano perché è rovinato, rovine che insieme alla vita quotidiana di un paese comunque del primo mondo, generano riflessioni, nuove immagini e così sto dicendo che il Sud è fonte per me di ispirazione per l’arte. Ma ciò è fertile perché si collega alla mia vita che su certi ricordi di luoghi, oggetti e cose fonda la sua vita poetica. Ho visitato con mia madre il Sud quando ero bambino e questo ritrovare dopo tanti anni certe vedute come cartoline psicologiche infonde in me una certa eccitazione mentale, che proviene da un sentire ambiguo fra piacere, passione e malinconia e concorre a generare delle figure nuove le cui origini vengono da immagini-ricordi scomposte, riassemblate e quindi-anche distrutte.
Il Sud è poetico anche perché è povero e la povertà mantiene viva una certo modo poetico e letterario.
Tutto ciò può sembrare un attengiamento esotico, come dici, uno sguardo superficiale e pittoresco, ma è anche il terreno su cui si muove l’artista, che non è interessato all’essere politicamnte corretto.
(Ho notato, vicino alla stazione, sul marciapiede, tre poltrone da esterno in bambù abbandonate, di sapore modernista, audace. Le ho prese e caricate in auto che ho messo poi in un garage. Il giorno dopo ho dato una mancia inaspettata al parcheggiatore, legale, che mi ha tenuto l’auto e con una maglietta rossa con scritto Grease mi ha detto: grazie, faccio fare la colazione ai bambini!
La colazione ai bambini, come in una novella o in uno spot del Mulino Bianco.

VT – Gli oggetti, che di frequente utilizzi per costruire le tue opere, hanno una valenza altamente simbolica per te, quasi simbiotica, perché rappresentano o evocano una storia, principalmente la tua; lo stesso vale per le immagini. I fatidici anni Ottanta – lo hai detto più volte – hanno avuto un’influenza sulla tua vita veramente importante. Invece, se dovessi portarti dietro qualcosa degli altrettanto fatidici anni Duemila, precisamente di quest’ultimo ventennio, quali oggetti, immagini o icone credi che potrebbero entrare nel tuo lavoro?

FF – Gli anni Settanta e Ottanta sono stati ambigui e demoniaci, per me, per la mia famiglia e per l’Italia che era già un paese globale prima della globalizzazione. Sono stati due decenni della mia formazione di persona e di vita con la famiglia, segnati da un destino severo. Ecco perché sono per me cruciali perché le cose drammatiche che vivevo in famiglia erano le stesse, con gli stessi meccanismi, che viveva il paese. Negli anni Duemila mi manca, e meno male, quel rapporto originario con la famiglia e quindi tutto è più tranquillo; sono stato sicuramente meglio, ma è tutto meno interessante. Diciamo che cerco di portare sempre le immagini e le questioni psicologiche di quel mio periodo dell’origine nei tempi successivi. E’ come se funzionassi come una stato autarchico con i propri miti di fondazione, che sono tali perché sono passati e irraggiungibili. Forse ho un problema col vivere il presente, che uso giusto per sviluppare diversi punti di vista sul mio passato. Per risponderti direi comunque –non ho dubbi- la tragica e folle epopea dell’11 Settembre 2001 fino a Ground Zero con le due vasche del 2011 e il museo sotto nel 2014. Il Memoriale di Ground Zero è un intreccio sinistro nato dal tentativo di rappresentare un evento impensabile che rimarrà per sempre angosciante. L’inadatto immaginario statunitense ha creato una specie di terrazza-belvedere interrata che ammira le fondazioni ancora scassate delle Torri Gemelle dallo stupro dei terroristi. Ho già scritto della mia passione per gli aerei e sull’11 Settembre http://www.doppiozero.com/materiali/vari-abissi e questo enorme monumento senza monumento, ma con cavità e catacombe è forse l’opera più significativa della nostra cara storia.

VT – Flavio Favelli appare come una persona introversa, solitaria, eppure le sue opere sono di lui una sorta di libro aperto. Letteralmente, Flavio, tu hai aperto più volte al pubblico persino le porte di quella che è stata per molto tempo casa tua e della tua famiglia, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Visitandola la prima volta in occasione della scorsa edizione di Arte Fiera, mi sei sembrato un ottimo “padrone di casa” nel raccontare al pubblico i wall painting che hai poi realizzato nelle varie stanze dell’abitazione: come quelli che riproducono le etichette delle compresse Tavor o il codice fiscale di tua [madre/nonna?], per esempio.

FF – Credo che la condizione dell’artista sia drammaticamente ambigua: da una parte ha a che fare con le sue immagini e i suoi problemi diciamo visivi, dall’altra deve fare uscire fuori tutto ciò e deve cercare comprensione. Comprensione che non sarà mai esaudita, pena la perdita del suo demone. Solo parlando col pubblico, che è una presenza retorica, si riesce a comprendere meglio se stessi e soprattutto le opere. Solo parlando a braccio dopo una decina di volte di Via Guerrazzi 21, parlando via via delle cose che appaiono, posso capire meglio cosa sto facendo. Il pubblico, è una comparsa, è come quando la mamma stava a sentire recitare la tua poesia, non faceva nulla, non doveva fare nulla, era ed è solo una presenza passiva, come è venuto se ne va. Parlare con le persone, poi, è importante: parlando dell’opera si comprende l’enfasi, lo slancio o il distacco che si ha col pubblico; si comprende, definitivamente, il rapporto che si ha con se stessi.

VT – A Bologna hai realizzato tanti progetti: la Sala d’Attesa al Pantheon del Cimitero della Certosa o il lavoro Itavia Aerolinee con l’opera Cerimonia-india hotel 870 allestita in Piazza Maggiore in occasione del 30° anniversario della Strage di Ustica, fino al progetto vincitore della 2° edizione di Italian Council 2017, Serie imperiale, presso la Casa del Popolo e la ex miniCoop di Bazzano, che vorrei raccontassi brevemente.

FFHo sempre avuto e ho tutt’ora tanti progetti per Bologna perché è la città dove abito e devo dire che non è per nulla semplice realizzarli. Ho partecipato al bando Italian Council col progetto Serie Imperiale, due francobolli che posseggo, col volto di Vittorio Emanuele III, desueti e scomodi per via di soprastampe di annessioni (Zara per l’occupazione tedesca e Repubblica Sociale Italiana) che ho ingrandito e poi dipinto su due muri interni e speciali: una stanza riunioni della Casa del Popolo e un ex supermercato Mini Coop. Queste due sur-immagini appartengono al conflitto: sono sgarbi, sfregi, atti di sabotaggio e di censura-offesa; sono scritte violente di invasione, annessione e appropriazione di territori e di immagini. Sono timbri di inchiostri rossi e neri su un volto viola di sangue blu. Una volta eseguite e presentate saranno poi strappate con un procedimento artigianale eseguito da professionisti e montate su tela a comporre l’opera-dittico Serie Imperiale. I due muri privati dalle pitture saranno parte costituente dell’opera perché anziché rasarli e tamponarli come di solito avviene, saranno basi per un intervento permanente che ricorderà le pitture. L’otturazione, il buco come studio, indagine e lavoro, diventerà essa stessa opera d’arte. Il timbro Zara e Repubblica Sociale Italiana non sono altro che diverse otturazioni, una specie di damnatio memoriae moderna, così come la tamponatura dei due muri, che lasceranno un anti-dipinto su intonaco, come fosse una cancellatura-abrasione controllata e pensata.

VT – Ora ti chiedo cosa pensi della situazione artistica contemporanea a Bologna e in Italia in generale. C’è qualche artista – attivo anche fuori dal nostro paese – di cui ammiri o segui particolarmente il lavoro?

FFDalla fine degli anni Novanta lavoro come artista e ho conosciuto i piani alti della città che ama un po’ l’arte direi per svago e per collezionismo, che sono due cose importanti, ma non sono un vero interesse per l’arte. Ci sono grandi fortune e grandi capitali, musei privati e fondazioni, ma c’è veramente poco di interessante. Due grandi avvenimenti cittadini, FICO (il più grande parco agroalimentare al mondo) e la presentazione del nuovo SUV della Lamborghini sono avvenuti senza arte; per la prima volta nella nostra storia italiana, l’arte, in momenti importanti, non c’è. Tutti a parlare di tradizione, di eccellenza, del Belpaese, ma poi la realtà è questa. Se a quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica, per la prima volta questo paese (per tutto il mondo il paese dell’arte) con l’Italian Council, dà la possibilità agli artisti del suo tempo di esprimersi, si comprende meglio la situazione.

VT – Un tuo prossimo progetto, che sia già in fase di realizzazione o ancora soltanto immaginato?

FF – Gli Angeli degli Eroi, la lista dei militari italiani morti dopo il 1945 in missioni di pace. Il progetto viena da una foto della mia famiglia che riassume un rapporto complesso: quella del mio nonno materno Carlo in divisa, mentre passeggia per Piazza Maggiore a Bologna. Mio nonno, che tornò dalla Campagna di Russia. Riconosco in lui un modello estetico molto forte che è riassunto in quella foto in uniforme.
CARO LUCA GRAZIE! GLI ANGELI DEGLI EROI TI SORRIDONO MENTRE  TI FANNO LA SCORTA D’ONORE FINO ALLA LUCE DI DIO IN PARADISO!!! VIVA L’ITALIA
Quando ho visto questa scritta fatta su un cartone probabilmente dai parenti di Luca Sanna, soldato morto in Afghanistan nel gennaio 2011, durante il suo funerale a Roma, ho provato la stesso turbamento di quando visitai anni fa il Sacrario di Redipuglia. Immagini estranee che proprio per il fatto che sono lontane, perchè le teniamo lontane, si scoprono a volte drammaticamente vicine. Gli Angeli degli Eroi è anche il tentativo di avvicinarsi al linguaggio di questo cartello scritto in modo solenne ed epico da genti di un mondo lontano e desueto. E’ però un mondo che da qualche parte mi fa sentire in qualche modo partecipe. Il progetto consiste in un grande wall painting su un muro pubblico con la lista dei militari caduti.

L’epopea della famiglia Favelli. Una conversazione

Gli piace pensare a progetti che nascano dal suo immaginario personale. Gli dicono che è malinconico, ma lui ha bisogno di partire da lì: il rapporto con suo padre, con la madre. Se gli chiedi quale artista ha fatto parte della sua formazione ti dice mio padre che si sentiva un artista, “perché l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.” E poi c’è il nonno. È lui che collezionava i francobolli e quando Flavio era un nipotino, tutti facevano la collezione di francobolli. Se vendevi quelli giusti, erano molti soldi, era un grande investimento. Suo nonno ci restaurò il palazzo di famiglia, dopo che una bomba lo scavò in due parti senza esplodere, e adesso i francobolli invenduti li ha tutti Flavio anche se non gli piace collezionare. Serie Imperiale nasce proprio da qui, si tratta di francobolli emessi durante il Regno d’Italia in uso fino al 1946 con il volto di Vittorio Emanuele III e la scritta 50 cent. sopra. Su uno dei due lavori esposti in mostra, a sfregiare il ritratto campeggia la scritta Zara, quasi come una cancellatura. Queste sovrastampe sancivano il cambio di Stato di appartenenza del francobollo e in questo caso l’occupazione tedesca di Zara nel 1943. La gigantografia muraria in una stanza della Casa del Popolo di Bazzano ricorda proprio la storia di questo francobollo: l’esistenza di uno Stato Italiano, delle sue Poste e il presagio di una lenta mortificazione politica sancito da un timbro di occupazione. Più guardo questo lavoro e più penso al marchio di abbigliamento spagnolo Inditex, Zara sembra ora manifestare la sua supremazia usando la modalità di censura dei writers. Nei lavori di Flavio sono immancabili le associazioni di idee, i riferimenti storici e le connessioni contemporanee di una cultura delle immagini in perenne movimento; associazioni che generano spunti, si accendono in testa come i neon di diversi colori nella casa della madre di Flavio, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Una casa-museo-cimelio dove non ci vive più nessuno, non ci sono mobili né oggetti e le pareti sono quasi spoglie, ad eccezione anche qui delle gigantografie murali di Flavio, una per stanza. Non si tratta di francobolli, ma ricordi di carta trovati per casa, come la pubblicità dello spumantino “Top”, il codice fiscale della madre di Flavio e un suo biglietto aereo. E poi ancora la confezione di Tavor con il triangolino rosso anni ’90 e una banconota da un pound della Repubblica del Biafra. Lavori di questo tipo rivelano il potenziale di un’archiviazione visiva che nasce dal biografico per toccare le vite private di alcuni di noi, stabilendo un rapporto inaspettato tra il fruitore e l’immagine: la riproduzione ingrandita dei dettagli grafici smorza l’intimità di appartenenza del ricordo, sottolineando invece la testimonianza culturale che alcuni dettagli rivelano. Flavio ci porta a ragionare su simboli, su rappresentazioni, indaga la storia dei paesi a partire dal suo, prendendo in prestito dall’arte pop la sua sfacciata manifestazione iconica: l’immagine c’è, c’è, c’è, c’è ed è grande così. Ad eccezione dei golfi partenopei che rivestono le sale di alcune pizzerie, commissionare murales interni non è però oggi una pratica così usuale, soprattutto per un collezionista: se cambio casa, dove la metto? L’essere nomadi e precari, non poter più marchiare un luogo con la ricchezza di famiglia – ormai sperperata – è una lenta consapevolezza sociale e per l’arte di Flavio non è un problema: alimentata da contraddizioni e conflitti, la sua pratica non si interessa di salvaguardare i luoghi dei suoi interventi. Per lui è importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione. È per questo che in Serie Imperiale ha ingaggiato un restauratore ancora prima di iniziare il murales; a chiusura della mostra, lo strappo come operazione concettuale sancirà il passaggio dal muro alla tela, conservando sì il dipinto e il suo significato, ma anche quei calcinacci che verranno via insieme alla loro storia, la casa del Popolo o la Coop dismessa sono il luogo della politica e del mercato: due spazi che contraddistinguono la società occidentale, dove le persone – ora pubblico – rivestono un ruolo principale.

In una recente intervista pubblicata sul tuo sito affermi che “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra tu non abbia una buona considerazione del pubblico, sostieni anzi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”? 

Il pubblico è una convenzione: ci deve essere, ma è come se non ci sia. In tutte le foto delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai le persone; considero il pubblico come gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e ho imparato presto a conoscere quanto possa essere ignorante. Non ho una grande considerazione di loro. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status. Quando penso a un luogo lo penso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte credo sia lontana da queste cose.

Ma agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario. Dove e cosa è l’arte per te?

L’arte è preziosa, perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario. È il luogo della legittimazione dell’alterità, una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Quando i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata, presupponendo che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male.

Quindi che ruolo deve avere l’artista oggi?

Deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere di arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere, ma non c’è niente da fare. L’artista deve porre delle questioni complicate, deve essere la fonte principale per la sua opera ed è necessario che il suo punto di vista sia ancora importante. Nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti, dovrebbero essere gli unici a eseguire prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella nostra società che davanti alla tela, al pavimento o al muro pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing o di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti.

A Flavio il collezionismo non va giù. Vede il collezionista come un playboy con le donne, che vuole stare con tutte ma non sta con nessuna. Dice che menomale che i suoi lavori non hanno un prezzo di mercato così alto; si sentirebbe in difficoltà se una sua opera venisse venduta a cifre spropositate, inadatte a giustificare un’esistenza di lavoro ma capaci di sfociare in una condizione di ricchezza per la ricchezza. Il sistema dell’arte che ripone il suo acme nelle fiere, livella l’impatto percettivo di ogni lavoro e del suo artista. Abbassa gli istinti di fascino verso quello slancio passionale del volere tutto a tutti i costi oppure lo amplifica a tal punto da rendere l’esperienza di fiera unica e irripetibile, proprio perché si pensa di poter avere tutto a tutti i costi. Opere diverse su pareti di cartongesso omologate quindi per l’occasione, fino a che non arriva Univers una sorta di Temporary Store in Fondamenta Sant’Anna: Flavio durante la 57esima edizione della Biennale di Venezia ha messo in vendita opere d’arte per un prezzo fisso di venti euro: un manifesto contro il collezionismo o per incentivarlo? La sua più grande delusione è stata quando gli acquirenti gli chiedevano l’autentica o pretendevano di acquistare più di un oggetto, mentre le regole del negozio vietavano entrambe le cose. L’artista crea un’opera d’arte a partire da un conflitto, senza conflitto non c’è arte, mi dice Flavio. E quando il prodotto di un conflitto viene acquistato in tirature di multipli a prezzi spropositati, vantando sempre la stessa firma, la guerra è finita e probabilmente è stata vinta dal capitalismo finanziario, che aspira a godere della musica classica, ma indossa Zara e canticchia J-Ax.

Conversazione pubblicata su Arte e Critica, numero estivo, 2018

Dialogo con Flavia Montecchi

Flavia Montecchi
Che fine fanno i luoghi della tua arte una volta terminata la mostra?

Flavio Favelli
Non so e non ci penso. Alla fine credo sia importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione e il suo significato. Sicuramente i luoghi che scelgo sono importanti per molti motivi, sempre comunque motivi poetici.

FM
In una recente intervista pubblicata sul tuo sito, affermi che: “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra che non hai una buona considerazione del pubblico, affermi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”?

FF
Il pubblico è una convenzione. Ci deve essere, ma è come che non ci sia. Un po’ come quando da bambino giocavo dall’altra parte della casa, era importante che ci fosse mia madre, ma non doveva poi rompere le scatole. In tutte le foto di documentazione delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai delle persone e questo vorrà dire qualcosa. Il pubblico, poi, oggi è la gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e va coi profumi di gran marca. Solo vivendo da quasi vent’anni in un paesino dell’Appenino ho capito la profonda ignoranza e idiozia della gente. Non ho una grande considerazione del pubblico. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status e poi quando penso ad un luogo lopenso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte è lontana da queste cose.

FM
Sempre mantenendo il tema del rapporto tra pubblico e artista, rivendichi in varie occasioni la presenza dell’artista contemporaneo e la sua chiamata in causa in manifestazioni di carattere culturale, che prendono spunto dall’arte senza però poi effettivamente coinvolgere gli artisti (la passata edizione del Festival di Filosofia, come citi tu stesso).
Indipendentemente dalla contraddizione che noto (vedi la domanda precedente), secondo te perché non si interroga l’artista?

FF
Distinguerei comunque il mondo dell’arte oramai assuefatto dalle mostre e dalle fiere ed eccitato solo dalle aste, dalle preview e dagli aneddoti e curiosità sugli artisti e un pubblico che partecipa a dibattiti e conferenze con interesse. Nell’esempio che ho fatto ho notato che si è invitato un imprenditore (di idee conservatrici sull’arte) e non un artista perché si dà per scontato che l’artista possa parlare solo con le sue opere. Nelle conferenze e dibattiti – quei pochi che ci sono – c’è sempre un moderatore che appunto modera l’artista che a sua volta parla come un curatore noioso: gli artisti oggi blaterano qualcosa fra l’apocalittico e il rivoluzionario, ma poi lavorano programmati e precisi per rifornire le gallerie che fanno una dozzina di fiere l’anno e questo non può non incidere su una categoria che è diventata solo imprenditoriale. Quindi un po’ è colpa degli artisti, un po’ della società della cultura che è interessata all’artista solo quando è un maestro. Poi tutti a citare Pasolini (saranno almeno una ventina gli artisti che hanno fatto opere su PPP) dimenticando che allora si criticava e litigava a viso aperto mentre oggi più dei sorrisi tirati dei vernissage non si va…
Non dovrebbe, il suo lavoro, essere già esplicito se inserito in un contesto espositivo selezionato e attento, con una direzione artistica di referenti reali? Mi spiego: nel caso del festival della Filosofia, mancava forse una direzione artistica nella selezione e organizzazione delle mostre temporanee. O no?

FF
L’artista pone delle questioni complicate e deve essere la fonte principale per la sua opera; il suo punto di vista deve essere ancora importante: nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti dovrebbero essere gli unici che eseguono prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella società di oggi che davanti alla tela, al pavimento o al muro, pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing, senza la preoccupazione di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti. Il frullatore degli eventi nell’arte travolge tutto e all’artista deve essere data la possibilità di discutere e parlare del suo punto di vista che non può essere completamente sostituita da quello della direzione artistica. La situazione è comica: da più parti si evoca il ritorno dell’artista-scienziato del passato e dall’altra si fa partecipare l’artista solo alla mostre. (Voglio ricordare una specie di ritornello che spessissimo viene pronunciato da artisti, critici e vari professori quando qualcuno sottolinea il fortissimo potere del mercato che travolge ogni cosa nell’arte: l’arte – la sentenza inizia sempre così – è sempre stata in mezzo alla moneta e al mercato, leggete le lettere dei grandi del passato, parlano sempre di soldi… (il famoso Libro dei Conti del Guercino). E’ ovvio che questa è una grande sciocchezza, in quale campo ci comportiamo come se vivessimo nel 1600? Questi si sentono moderni, ma vogliono gli usi e costumi dei tempi del passato. Il critico (e ovviamente il curatore) è il garante che certifica che l’opera è d’arte ed è colui che la colloca in una tradizione di storia dell’arte, ma questo non può essere l’unico punto di vista sull’opera.

FM
Queste domande – e quelle che ti ho posto durante il nostro incontro – evidenziano come il tuo fare arte sia ricco di contraddizioni, istanza per me molto stimolante e sinonimo di movimento.
Sei con il pubblico e in mezzo al pubblico, ma ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario – per certi versi. Agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Che tipo di artista ti definisci? Ma soprattutto, quando hai cominciato a chiamarti e o a giudicarti “artista”? Parlami del ruolo che ha per te questo nome, consapevole del fatto che non leghi l’arte alla politica.

FF
Beh non è vero che non lo lego alla politica. Non lo lego ad un significato politico preciso, ma la questione politica è ampia con grandi confini. E’ più politico Santiago Sierra o Giorgio Morandi? Solo un pubblico poco attento e superficiale può dire con certezza il primo. L’arte è preziosa perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario, è il luogo della legittimazione dell’alterità, è una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Se i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata e così presuppongono che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male. Il mio progetto Gli Angeli degli Eroi riassume il mio punto di vista. Da un’immagine di mio nonno militare, dalla mia attrazione per le divise – che tengo a distanza – indago il mondo della guerra che ioncontro l’immaginario dello Stato e del Presidente della Repubblica: l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.

FM
Che ruolo deve avere l’artista oggi?

FF
Beh deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere sull’arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere. Niente da fare non lo danno. Ecco che ruolo deve avere quello che non gli permettono di essere.

FM
C’è un artista con cui sei cresciuto e che ti senti abbia fatto parte della tua formazione?

FF
Mio padre per il fatto che si sentiva artista, si sentiva un poeta. Ma poi, come si dice, ha perso la testa, ammesso che gli artisti non la debbano perdere. Dico questo perchè voglio sempre riportare tutto alla mia famiglia, alla mia storia privata che sono le mie immagini e che sono le immagini del mio tempo, perchè l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.

Intervista su Serie Imperiale

Marco Enrico Giacomelli
Partiamo da un dato biografico: a Valsamoggia, in provincia di Bologna, vivi da vent’anni. Perché hai scelto un luogo così appartato?

Flavio Favelli
È stato un caso. Stavo frequentando un artista con un vissuto particolare, Bruno Pinto (nato nel 1935) che abitava a Monteveglio, vicino Bazzano, nel primo Appennino Bolognese dove Giuseppe Dossetti aveva fondato una comunità. Mi disse che poco distante, a Savigno, c’èra un fienile in vendita. Da qualche anno c’è un comune unico che li comprende e si chiama Valsamoggia. Sono andato a Savigno per avere un grande studio, per lavorare meglio che in centro città.

MG. Serie Imperiale ha avuto una gestazione molto lunga e stratificata. Partiamo dalla prima fase, con la realizzazione dei due wall painting. Che luoghi hai scelto e perché?

FF. Sono due luoghi di Bazzano desueti ed evocativi, distanti e vicini allo stesso tempo, sono posti alla fine anche un po’ tristi – la saletta della Casa del Popolo è uno stanzone squallido con neon che un po’ sfarfallano e la ex Coop è un supermercato abbandonato che a breve sarà demolito – ma che mi piacciano molto. Stare in quei luoghi è come fermare un po’ il tempo, fanno parte della mia immaginazione, sono dei posti elettivi. Amo i luoghi lontani dal tempo, precari, di semi abbandono, lasciati a sé stessi, ma anche dimenticati e sbragati e scassati. E poi, dopo la questione formale, viene quella concettuale: questi luoghi sono centrali (uno è stato centrale, l’altro è sempre in evoluzione) sono il luogo della politica partecipata e di colore rosso e il luogo del mercato (al coperto): sono la nostra storia e la storia dell’Emilia, per molti aspetti una terra faro per il Paese. Preciso però che è forse stato il destino – e il momento storico – a offrirmeli: parlando col direttore della Fondazione Rocca dei Bentivoglio, ex sindaco di Bazzano, erano i due spazi con meno vincoli e più semplici da occupare. Oggi sono i luoghi scarichi ad accogliere l’arte. Ho saputo poi che la Casa del Popolo è in vendita.

MG. Le opere sono poi state “strappate”, come si dice per affreschi e murales. Perché questa rimozione? Sappiamo bene – la vicenda di Blu a Bologna lo insegna – che si tratta di un’operazione sempre controversa. Ci spieghi le motivazioni che ti hanno portato a questa scelta?

FF. Già nel 2014 avevo fatto fare uno strappo ad un mio murale fatto in una casa in Via Belle Arti a Bologna. Ho conosciuto anni fa il restauratore Camillo Tarozzi e ho pensato di conivolgerlo. Questa pratica l’associo più a Rotella che a Blu, cioè l’asportare e prendere cose dalla strada, anche se in questo caso ci vuole una tecnica complicata.
Nelle mie opere ho sempre usato materiali e oggetti “originali” per il loro significato e così questi muri con una storia e un valore cosi complicato dovevavo essere salvati; solo loro possono essere i supporti giusti di questo progetto. Sono materiali in qualche modo nobili.

MG. Sugli stessi muri hai poi operato una “Otturazione”. In cosa è consistita?

FF. Quello che rimane dal “ratto” di solito è un segno che si lascia o si “chiude”oppure rimane solo come traccia dell’asportazione. Questi segni tecnici a volte hanno forme e figure per me molto interessanti e con una loro bellezza; sono come delle pezze, dei collage appunto di forme su superfici e allora me ne sono occupato. Quello alla Casa del Popolo è stato tamponato e otturato con della tempera bianca, quello alla ex Coop, più che un oggetto trovato, è un segno voluto e riconsiderato e riassunto come opera.
E il risultato di un processo articolato che ha prodotto una specie di fantasma fra ombre e colori stinti.

MG. La penultima fase coinvolge la VR. È la prima volta per te, giusto? Qual è la sua funzione nel progetto Serie Imperiale?

FF. È stata un’idea di Elisa Del Prete, è un dispositivo che conserverà tutta l’operazione, perché prima o poi e in maniera differente, le due stanze non ci saranno più.

MG. L’ultima fase è la mostra, appena inaugurata alla Rocca dei Bentivoglio. Cosa è esposto? Come hai selezionato i materiali di un’opera che vive del suo stesso processo di esecuzione?

FF. Oltre alle due “otturazioni” sui muri, rimane un dittico, due quadri, le “pitture strappate” che sono due tele che per soggetto hanno due francobolli ingranditi che raffigurano Vittorio Emanuele III con dei timbri della Repubbliaca Sociale Italiana e Zara in faccia. Sono francobolli desueti (il primo raro) che ho cercato e trovato in questi anni e che rappresentano immagini complesse e stratificate. Cosa fa l’artista se non cercare di riproporre, di riappropriarsi e di rifare delle immagini ? E’ quello che ho fatto come maneggiare delle scatole cinesi, dove compaiono sempre differenti situazioni e significati.

MG. Chiudiamo con quella che potrebbe essere la prima domanda: cosa “rappresenta” la Serie Imperiale e perché la scelta è ricaduta su queste immagini?

FF. Per il bando dell’Italian Council – lo Stato chiede di sottoporre un progetto – ho voluto cercare di costruire, ricostruire e sviluppare, quindi modificare e alterare, una faccenda sostanzialmente privata, ma che pone delle questioni ancora pesanti per il Paese e non ancora risolte (già il nome che presuppone un impero). Tutto nasce dall’uso della mia famiglia tradizionale borghese di fare la collezione dei francobolli (cultura e investimento insieme. Mio nonno buon filatelico, era convinto di “formare” il nipote con un immaginario sobrio, “alto”, virtuoso e nobile, confidando che le immagini di potere e di una bellezza condivisa, avrebbero costituito una persone saggia e avveduta. Questi due bollini viola fanno parte di quelle tante “cose” che hanno accompagnato la mia vita nel passato; sono due immaginette del re (per puro caso poco dopo che avevo mandato il progetto, si è aperta una grande polemica sul ritorno della salma in Italia del sovrano di casa Savoia) “storpiate” da dei timbri (che in filatelia si chiamano soprastampe) di enti occupanti. In particolare una, quella col timbro RSI (Repubblica Sociale Italiana) è una varietà –una specie di errore- (il timbro di solito era uno, in questo caso sono tre). Quindi ho ingrandito e dipinto su muro, su quei muri, i due francobolli imperiali offesi da eserciti e amministrazioni di occupazioni violente, cambiando il loro stato di immagini filateliche e liberandole dalla cornice dentata che li ingabbia. Dilatandoli su muro abbandonano così la loro collocazione precisa e diventano altre cose capace di generare nuovi teatri.

Serie Imperiale, intervista con Flavio Favelli

Elena Bordignon ha intervistato Flavio Favelli sul progetto “Serie Imperiale”. L’intervista è stata pubblicata su ATP Diary il 5 aprile 2018.

Propaganda, pubblicità, provocazione, ostentazione, sensibilizzazione: sono tutte finalità che circondano il mondo delle affissioni. Che siano legate al pubblico o al privato, alla divulgazione politica o alla commercializzazione di prodotti. Tutto ciò che è affisso in uno spazio pubblico – parcheggio, piazza, autostrada, pareti di condomini ecc. – ha una dimensione di libera, e direi incontrollata, diffusione. Quale è il tuo pensiero in merito all’utilizzo di questi spazi?

Li ho sempre percepiti come decisivi. Mi sembra interessante oggi vedere che grandi superfici, generalmente pubbliche, siano offerte alla Street Art, pratica con significati illustrativi e soprattutto moralista; l’arte contemporanea che si sopporta è giusto decorativa e positiva. Non da ultimo la scomparsa della politica nelle affissioni nelle ultime elezioni apre la strada solo alla pubblicità che non dà segni di stanchezza. Una delle parole nuove di questi anni mi sembra sia Sotto Costo termine che presuppone qualcosa di losco. Considerando che Amazon è il nuovo mondo Sotto Costo, mi sembra che il panorama sia chiaro. Nel territorio pubblico dove si concentra lo sguardo delle masse e del quale ho molti ricordi e immagini (il paesaggio moderno è fatto di messaggi e scritte e le metropoli sono le insegne che nei notturni sono luminose) cerco di intervenire perché l’ambiente circostante che percepisco come pubblico e quindi come territorio aperto ed estraneo, ha in qualche modo un peso maggiore. Estraneo e pericoloso perché lo intendo in balia del caso, oltre che più vero, perché nella strada della città si svolge il tempo.

Per il progetto che presenti a Bologna “Serie Imperiale”, hai realizzato due wall painting site specific nel centro di Bazzano, nelle colline sopra Bologna. Mi introduci l’attinenza di questo intervento con il luogo?

Ho partecipato con questo progetto al bando dell’Italian Council e volevo un’opera capace di contenere tante cose insieme: due immagini di francobolli desueti del Regno d’Italia con dei timbri capaci di dare, come immagini, delle informazioni stranianti – la sovrastampa Zara come città di una storia piena di ombre, ma anche il noto brand di questi tempi, e quella della Repubblica Sociale Italiana in rosso, una specie di groviglio di segni quasi fosse un tatuaggio tribale sul viso del re – riportate su due muri interni differenti, un ex supermecato Coop e in una saletta della Casa del Popolo, due luoghi emblematici dell Emilia. Direi che ci sono tanti elementi che creano varie situazioni mentali.
Aggiungo che quei francobolli appartengono al mio immaginario dell’infanzia, quando insieme ad altri, erano sulla scrivania di mio nonno, fra profumi talcati, acque di Colonia e un’atmosfera rassicurante: era la casa borghese di fine ottocento con segni del novecento dove cose monarchiche e imperiali, intrecciate da motivi coloniali, si stavano accomodando con i primi prodotti seriali del dopoguerra e del benessere. Sono dei documenti colorati di natura politico-militare (il primo francobollo aveva il profilo della Regina Vittoria) che hanno utilizzato la rappresentazione artistica per diffondere e definire un messaggio di potere. Mi sembra poi che dipingere su muro interno sia un’operazione diversa rispetto alla regola della strada.

Il progetto è stato strutturato in tre parti, con questa motivazione: “tre fasi operative distinte che daranno origine a un’opera composita su più supporti, metafora dello stratificarsi della storia italiana cui l’opera fa riferimento.” A quale ‘storia italiana’ ti riferisci? E perché hai scelto questo determinato periodo? 

Qui è la curatela che tenta di dare una spiegazione e un significato. Ho scelto tre fasi perché comportano varie questioni: un dipinto (interno) fra due luoghi emblematici di un territorio, che diventa un dittico di quadri e che lascia un segno formale che mi ha sempre colpito: le otturazioni che hanno a che fare coi buchi stuccati e le tracce occultate, dal pavimento della Stazione di Bologna alle rose rosse di Sarajevo. Che le tre fasi assomiglino alle fasi della nostra storia non lo so e non è una mia preoccupazione. Ho scelto i francobolli del Regno perché sono belli e perché mi ricordano i tempi che ho vissuto in casa dei mie nonni, dove monarchia, Fascismo, guerra e occupazioni si intrecciavano fra storie vissute e disquisizioni filateliche. L’arte poi batte dove il dente duole (è questa l’anima dell’arte moderna) e quindi il nostro recente passato, che non passa mai, apre sempre questioni credo familiari. Per me quel periodo è sostanzialmente una storia familiare, come lo è per la maggior parte degli italiani. E cosa c’è di più vischioso della famiglia? Due mesi dopo che ho presentato il progetto c’è stato il ritorno della salma del re in Italia, con tante polemiche (familiari). 

Nemmeno troppo celata è evidente una sorta di critica sociale ai mutamenti avvenuti in questo comune (ma si potrebbe ampliare il discorso a molte altre realtà italiane). Partendo dal fatto che i mutamenti sono percepiti come peggiorativi, ma in realtà altro non sono che un evoluzione delle esigenze collettive, cosa ti ha spinto a sottolineare l’aspetto (tristemente) negativo di queste trasformazioni?

Ho scelto questi luoghi perché sono sostanzialmente desueti e per me portatori di categorie che sento mie. Stanze o stanzoni poco frequentati e abbandonati che appartengono a luoghi che stanno scomparendo. Credo che diano la possibilità di pensare ed sentire sensazioni differenti, lontane dall’imposizione di produttività che impone oggi la situazione attuale. L’artista vede e vive in modo differente questi posti che a breve verranno dismessi (la Casa del Popolo evidentemente non serve più ed è in vendita, la ex Coop verrà demolita). La necessità poetica non coincide con il flusso odierno del tempo, dove i luoghi esistono per il profitto che muovono. La necessità poetica elegge questi ambienti come importanti e simbolici. Coop, nonostante sia proprietaria dell’ex supermercato, ha dimostrato uno scarsissimo interesse, senza dialogo, né confronto. Si sono preoccupati solo di mandare l’ufficio tecnico a delimitare i luoghi di intervento rispetto a regole di agibilità burocratiche. Ci hanno trattato come se noleggiassimo un loro spazio per una festa; da un attore che tutti i giorni insiste sull’impegno civico e culturale non mi aspettavo una reazione del genere. Ma credo sia una questione di ignoranza, Coop ama i grandi numeri e l’arte contemporanea è troppo difficile, elitaria e sospetta per loro. La figura dell’artista forse, per via del suo personalismo, non si integra tanto con l’idea di cooperazione.

Pensi che il tuo intervento provochi una reazione da parte dei cittadini di Bazzano? Quale effetto ti auguri di suscitare? 

I cittadini oramai sono occupati in mille cose, un esempio interessante sono lettere ai giornali che arrivano solo per protestare contro multe prese ingiustamente (leggendo si capisce che pochi hanno una chiara idea di legalità e giustizia), contro troppe rotonde agli incroci, per ringraziare il medico di turno o magagne da mense scolastiche. Insomma vite grame dove le reazioni sono idotte da automatismi materiali, pratici, da sbarcare il lunario. Giusto il comune (governo PD) ha avuto una reazione difensiva: c’è l’abitudine a vedere l’opera come immagine qualunque e a tradurla secondo un metodo letterale. Hanno visto i fasci littori del francobollo, il re e la scritta Repubblica Sociale Italiana e si sono un po’ spaventati. Anche se questa è un’opera d’arte, l’hanno tradotta in modo semplice, preoccupandosi solo di dare un significato ufficiale del tipo non è apologia del fascismo, ma una sua critica!
Questa ricerca di significato ufficiale e univoco che vuole separare il bene dal male e il giusto dallo sbagliato è lo stesso terreno su cui si muove la Chiesa (per cui l’arte è un mezzo di culto) e una certa Arte Pubblica (che dà all’arte solo un senso positivo) ed è un terreno angusto e banale. Con le curatrici abbiamo promosso incontri sia al bar Arci adiacente sia alla Casa del Popolo, ma c’erano sempre poche persone, tutti hanno sempre altri impegni.

Il progetto, dopo una fase contemplativa, prevede una fase di interazione. Nell’estate del 2018 i due wall painting veranno strappati e ricomposti su tela. Coinvolgerai anche un laboratorio di restauro specializzato in questo tipo di interventi. Mi racconti le motivazioni di questa seconda fase?

Colui che farà il lavoro ha detto che probabilmente questa è la prima volta che viene commissionato uno strappo prima della realizzazione dell’opera stessa. Solitamente si asporta un dipinto che è in pericolo di conservazione, mentre in questo caso l’operazione è solo artistica, contribuisce ad aggiungere senso all’opera che ha necessità di avere due pezzi di muro originali che sono ben diversi da due fondi di tela. L’unicità dell’intonaco dell’ex supermercato e della sala riunioni della Casa del Popolo saranno così conservati e costituiranno il supporto della pittura del dittico.
Il soggetto di tutta questa faccenda credo che sia l’unicità, la ricerca del non replicabile. Alla fine, come molte mie opere che hanno spesso, da qualche parte, un oggetto o materiale originale ed unico. E’ forse per sfuggire al tempo che passa e alla Natura che fa scorrere il suo essere iniquo. Ogni cosa, ogni opera, ogni ambiente ha una data precisa per cercare di fermare qualcosa. E questo vuole dire essere occidentali e in fondo post-cristiani.

Serie Imperiale. Intervista di Ilaria Siboni

Il progetto le è stato commissionato? Che tempi di realizzazione ha avuto (bando, organizzazione, realizzazione delle pitture)?

No, è un mio progetto vincitore del bando Italian Council. Il bando è complicato, meno male che Nosadella Due mi ha affinacato a compilare le parti più noiose: dico noise perchè oramai tutti i (pochi) bandi sono burocratici e soprattutto danno molto e troppo spazio agli eventi collaterali, cioè non basta fare un progetto interessante per un’opera, ma si deve descrivere e dimostrare (cito dal bando) la strategia di promozione e comunicazione, la proposta di eventi, attività di formazione ed educative… Insomma Giorgio Morandi non avrebbe vinto l’Italian Council.

Da quale elemento è partito per svilupparlo, dai luoghi o dalle immagini/oggetti?

Ho pensato ad un’opera più vicina ed intima possibile al mio immaginario.
Del resto è il mio modo di operare. I francobolli sono parte della mia esperienza; il mio punto di vista è però sul complesso corpo delle immagini:
gli stati attraverso le banconote veicolano l’idea di potere che hanno. E cos’è l’arte se non delle immagini in relazione al potere? Avendo vissuto molto in solitudine, o intensamente in solitudine probabilmente ho imparato a vivere le cose e le immagini – che sono i veri compagni della giornata quando si è soli- nella loro intensità. Cioè i francobolli e le banconote di certi paesi lontani erano “belle” e sostenevano la volta celeste dell’universo borghese di mio nonno dove tutto aveva una ragione ed una collocazione. Questi oggetti, oggi, continuano ad avere questo valore diciamo psicologico. Sono immagini che hanno costruito il pantheon del potere (poco dopo che avevo consegnato il progetto a settembre 2017, a dicembre ci fu la polemica del ritorno del Re Vittorio Emanuele III, in Italia non sono fantasmi ma questioni ancora aperte)

Che ruolo ha avuto, in un progetto così complesso, la curatela?

Direi organizzativa, fra luoghi, presentazioni delle varie fasi e catalogo hanno fatto un gran lavoro. Il catalogo, che poi è un libro è, credo, molto interessante.

La documentazione in VR e la programmazione delle attività legate a Serie Imperiale sono connaturate all’opera o sono nate successivamente?

È stata un’idea di Elisa Del Prete, importante perchè la Casa del Popolo è in vendita e la ex Coop verrà demolita; a breve, quelle due sale dove ho dipinto Serie Imperiale non esisteranno più, in questo caso la VR sarà un documento importante.

Definirei il progetto d’arte pubblica, è d’accordo? Vista la sua natura ibrida, è stato complicato far accogliere l’idea?

Sono molto critico sull’Arte Pubblica, anzi per me l’ideologia dell’Arte Pubblica è una gran brutta cosa. L’Arte Pubblica ha uno scopo (come dice Alberto Garutti) di rivolgersi ai cittadini e comunque ha sempre un fine positivo, preoccupandosi della polis. Io penso che l’arte non debba avere nessun scopo se non quello dell’arte stessa. Mi sembra che l’Arte Pubblica persegua in qualche modo la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è in fondo un’arte del bene contro il male. E’ un’arte con un colore, proprio come ad esempio vuole la Chiesa. Come cittadino ho certe idee, ma come artista sono guidato dalle miei immagini che non si preoccupano se sono immagini giuste o attente all’immigrazione. L’arte, come disse Perniola, è arte, meta-arte e anti-arte allo stesso momento. Se i sindaci vogliono l’arte per abbellire le città con i murali degli artisti (di serie B) della Street Art, se vogliono fare dialogare parti differenti, se vogliono sensibilizzare con la cultura eco e green, benissimo, fanno il loro mestiere, ma quando lo fanno gli artisti per me è avvilente.
Penso anche che più è intima l’opera più può portare a varie riflessioni sociali e politiche. L’opera è pubblica già da sé, se si parla di Arte Pubblica vuole dire forzare, vuole dire non capire l’opera, vuole dire non capire che l’opera ha diversi piani di lettura che non vanno privilegiati e forzati. Un direttore di museo in Italia anni fa disse su Flash Art : …Trovate temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini. (F. Cavallucci, Arte e libertà, Flash Art n.275, 2009). Certo… Signor No! Spesso gli artisti che fanno Arte Pubblica sono illustrativi, letterali e credo anche che ci sia un grande senso di colpa strisciante: si fanno opere giuste e utili forse per controaltare al fatto che costano molto? Ma la differenza di ricchezza non è una delle cose più odiose del mondo? Forse chi si occupa di arte dovrebbe chiarire queste faccende. Ha un significato più pubblico l’opera di Giorgio Morandi o di Santiago Sierra? Io sarei molto cauto.
È stato molto complicato eravamo sotto elezioni e il Comune è stato freddo con questa opera, il Re spaventa ancora. Ho messo la faccia del Re col timbro Zara alla Casa del Popolo, c’è stato un piccolo dibattito con qualche persona, ma oramai sono finiti i tempi dei dibattiti… Il problema (è sempre colpa dell’Arte Pubblica) è che l’opera d’arte (non c’erano dubbi, dipingere il Re su un muro è un’opera d’arte oltrettutto l’opera ha vinto il bando del MiBACT ed è per lo Stato un’opera d’arte) non si legge come opera d’arte ma solo come provocazione fine a se stessa . Non si capisce che l’opera ha uno status diverso e quindi finché si ragiona sempre con un metro semplice (il Re fascista alla Casa del Popolo) non si capisce niente. Non è un Re fascista alla Casa del Popolo è un dipinto su muro di un francobollo originale (quindi trovato) dove il Re ha in faccia il timbro Zara (la città della ex Jugoslavia o il brand di moda?) Se si mette un timbro in faccia ad una persona è laudativo o censorio?

Che tipo di risposta ha dato il pubblico, in particolare i cittadini di Bazzano? E quale è stata la partecipazione alle tante iniziative che ne accompagnano l’evoluzione?

Non è tempo di partecipazioni. Bazzano è una cittadina seduta, c’era poca gente, i ragazzi al bar Arci non sono venuti a vedere le opere che stavano nello stesso stabile (il bar è a piano terra della Casa del Popolo, la ex Coop è attaccata allo stesso edificio). È tutto finito da un pezzo. L’assessore alla cultura del comune di Valsamoggia non si è mai fatta vedere, abita a Firenze.

La sintesi, la selezione accurata delle parti che vanno a comporre l’opera, l’eleganza, sono elementi che si ritrovano nelle sue opere. A questo proposito per l’otturazione avrebbe potuto scegliere un qualsiasi altro colore compreso uno di quelli che componevano le opere iniziali. Perchè ha scelto l’intonaco bianco?

Sull’eleganza come dici (a tal riguardo per risponderti in modo diretto ti allego una foto di un mio murale) la questione credo sia importante: sono nato in un milieu borghese dove il bello significava le “belle cose”. In casa di mio nonno c’erano vasi cinesi, avori, ceramiche di Faenza, servizi Ginori e argenteria importante. Aveva anche un Fortuny alle pareti e mobili di grande antiquariato. I cioccolatini che non mancavano mai, stavano in una grande ciotola di Barovier e Toso. Questa bellezza ed eleganza, per la persona diversa e consapevole –come l’artista- che riesce a superare questa (diabolica) apparenza si trova in una situazione complicata: se tutto ciò era rassicurante e oggettivamente bello nascondeva però miti e riti banali e tristi tipici dell’idea borghese italiana: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze familiari; senso dei soldi e degli affari, doppiezza e regole di società.
Insomma ancora tutto ciò che regna il modo di oggi, dalla politica alla finanza.
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.

Di chi è la proprietà delle opere staccate? E per le stesse si è pensato ad una collocazione “finale”?

Sono dello Stato, del MIBACT. Saranno in prestito al MAMbo di Bologna.

Questo lavoro ha un rapporto con i suoi lavori precedenti? Oppure il suo punto di partenza è l’oggetto?

Ho fatto molte opere con le immagini (dei francobolli). Queste immagini, questi santini, sono ricorrenti, fanno parte del mio ambiente ideale che ho introiettato: è la bella casa borghese, dove succedono le peggio cose. La famiglia era così importante che i miei genitori hanno avuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota…

Ci sono artisti che ritiene suoi riferimenti, da un qualsiasi punto di vista, o che ama particolarmente?

Devo essere sincero: sono talmente inondato da urgenze personali che per i maestri non ho tempo. Vedo che molti artisi citano decine di artisti e intellettuali (Pasolini!) forse per irrobustire la loro poetica… Gli avi sono la mia famiglia e questo mi basta e avanza perché per me l’artista è un autore in conflitto ed è soprattutto solo, senza padri, né madri (perché la mia famiglia sono dei fantasmi).

Nel suo lavoro è importante il rapporto con il pubblico? Ritiene che l’artista sia tenuto, in qualche modo, a rendere conto al suo pubblico?

Ho scritto da qualche parte a riguardo: devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.

Cosa pensa sia legittimo per l’artista contemporaneo? Soprattutto quando interviene nell’ambito dell’arte pubblica.

La faccenda del mio murale sul calciatore Luigi Marulla nel 2015 a Cosenza, riassume la questione: ho fatto un’opera su un muro pubblico e i tifosi e il pubblico l’hanno contestata. Molti mi hanno detto che ho sbagliato perché l’arte su un muro pubblico deve essere presa in considerazione come Arte Pubblica. Mi hanno detto che “se avessi fatto più chiaro il calciatore avresti accontentato tutti”. Ma io non faccio opere per accontentare (le mie opere non accontentano me, figuriamoci gli altri). Avevo in mente un’opera e l’ho fatta. Quell’opera dava informazioni e ragionamenti differenti rispetto all’immaginario comune del pubblico. E’ l’artista che deve dare immagini differenti e non accontentare le masse (i cittadini?) . In una città dove manca l’acqua a corrente, dove si costriusce il ponte di Calatrava più alto d’Europa, dove l’assessore è stato prima Vittorio Sgarbi e poi Padre Fedele, frate noto ultrà della curva, dove un medico pulisce le seppie nel lavandino dell’ospedale e dove per la prima partita di serie B della squadra il campo non è pronto prechè sembra arato, l’artista deve accontentare la città con immagini condivise?

Si è fatto un’idea del perché l’arte pubblica contemporanea abbia acquisito tanta attenzione?

Credo che faccia comodo. Gli artisti che aderiscono all’Arte Pubblica evidentemente sono poco interessati ad avere una propria poetica e pescano da vari temi più o meno attuali (o non ce l’hanno proprio) e sicuramente è più semplice e più remunerativo fare progetti con soggetti cari all’opinione intellettuale oppure di semplice commestibilità per il pubblico. In un momento di grande crisi finanziaria e di un certa sguaiatezza della genti, il sospetto e la distanza sull’arte contemporanea diventa più marcato (se a Roma per il Museo MACRO la giunta Cinque Stelle lo dà per la prima volta ad una persona fuori dal mondo snob dell’arte un motivo ci sarà). Perché dobbiamo spendere soldi per l’arte contemporanea che è per un’elite snob e radical chic si chiede la gente? Il soggetto pubblico così è costretto a guarnire la cosa con la “pubblica utilità”. Alla insistente e martellante domande della masse “che vuole dire?”, “qual è il messaggio?” (dopo venti anni di mostre posso dire che la domanda è sempre quella) l’istituzione deve giustificare in qualche modo la faccenda con un “aiuta l’asilo”, “lavora con gli immigrati” oppure “riqualifica il quartiere”. Cioè l’arte deve servire dannatamente a qualcosa, deve essere utile. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo anni fa rispose ad esponenti della Lega Nord di Torino che contestavano tutta la baracca del contemporaneo, che una mostra, mette in moto economie. Ecco dove siamo arrivati: si deve giustificare l’arte perché fa economia. In questo clima utilitaristico l’Arte Pubblica ha buon gioco ed è tutto un rincorerre buoni propositi: si tenta di cercare la verità in grandi tragedie, si sensibilizza sulle minoranze, si opera sulle cattive condizioni dei lavoratori. Si crea un’arte sensibile al sociale con una morale chiara. Il fine è la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è un’arte del bene contro il male. Ma questo è la fine dell’arte contemporanea, gli artisti non l’hanno ancora capito.

Quali ritiene siano gli elementi, le dinamiche più significative del suo processo artistico?

Copio e incollo da sopra:
È  la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.
Aggiungo la parola piacere. Amo fare le mie opere perchè mi danno un piacere ambiguo che mette le mani fra ricordi di ricordi, immagini e reminiscenze e rievocazioni di momenti vissuti che sono tanto privati quanto pubblici, perchè questa oscillazione fa parte della natura dell’artista. Sembra una bestemmia, ma gli artisti, che fanno sempre gli impegnati, non dicono mai che provano piacere quando lavorano.

L’amministrazione pubblica è stata partecipe e ha collaborato alla promozione del progetto?

Come dicevo prima pochi hanno partecipato e con grande fatica. Molti si sono presi paura del Re. Poi un esempio su tutti: la Coop, che qui ha radici profonde, ha dato un contributo per il catalogo tanto insignificante che il direttore della Fondazione Rocca dei Bentivoglio (ex sindaco PD) voleva rifiutarlo. E il libro ha una lunga riflessione sulla storia degli edifici del quartire che ho scelto come ambiente per la mia opera.

E naturalmente mi interessa chi acquisisce la proprietà del dittico una volta staccato.

È e rimane dello Stato.

Intervista di Gianni D’Urso

Intervista di Gianni D’Urso

  • Quando hai deciso di fare dell’arte il tuo lavoro?
  • A poco a poco non avevo le idee chiare a fine anni 90. Non avendo fatto né istituti d’arte né accademie sapevo poco dell’arte e del suo mondo. Sono andato a tentoni.
  • C’è stato un momento specifico in cui hai sentito che era possibile? Per esempio la vincita di un premio o dopo essere stato invitato ad una manifestazione importante?
  • Alla fine mi chiedevo poche cose, iniziai a sperimentare al Link Project di Bologna…
  • All’inizio della tua attività facevi altri lavori per sostenerti economicamente? (Se si) Quali? Interferivano con i tuoi progetti artistici?
  • No, certo facevo qualche progetto che sconfinava nell’arredo e allestimento, ma partiva tutto da miei esperimenti che ho iniziato con il mondo domestico. Stavo facendo la mia casa.
  • Come ti sei mosso una volta terminati gli studi?
  • Feci il TAM Trattamento Artistico Metalli con Arnaldo Pomodoro e poi andai un po’ in giro… Roma, Torino….
  • La tua famiglia ti ha sostenuto o ostacolato in questa tua scelta?
  • Mia madre rimase a guardare.
  • Come hai vissuto la competizione con gli altri artisti all’inizio della tua carriera?
  • Senza la competizione non va avanti nulla. E’ la storia del nostro Occidente e la Storia dell’Arte.
  • Come la vivi adesso?
  • Oggi non si può battagliare con nessuno, non si può fare polemica, criticare. L’artista non può parlare, non può fare polemiche a meno che non cerchi tabula rasa… tutti a citare Pasolini, ma quegli anni non si scherzava. L’ha vinta la filosofia di Jeff Koons. Gli artisti oggi sono funzionari dell’arte più che artisti.
  • Cambieresti qualcosa se potessi ritornare all’inizio della tua carriera?
  • Cambierei il mio luogo di nascita e la mia famiglia. Meglio in una di pastori mongoli, vicino al deserto dei Gobi.
  • Quando hai venduto un tuo lavoro per la prima volta?
  • Non ricordo forse attorno al 1998-1999 forse è stato l’inizio della fine. Ho sempre pensato che lo Stato dovesse stipendiare gli artisti.
  • La vendibilità dell’opera ti ha mai condizionato?
  • La vendita è la possibilità di sbarazzarsi di opere che gestisci male. C’è anche la distruzione, uso entrambre le pratiche.
  • Come sono iniziate le collaborazioni con le gallerie che ti rappresentano?
  • Per caso ed è tutto psicologico. Banalmente psicologico. Bisogna lavorare con le gallerie, non c’è altra via, ma devo dire che non è edificante.
  • Osservando le dinamiche del sistema, si ha l’impressione che l’artista sia invitato ad una produzione continua e costante. Ti riguarda questo? Cosa ne pensi?
  • A me piace lavorare in studio. Piace fare le opere, farne tante. E’ come se fosse un tempo differente. L’importante è sapere che quello che si fa è arte, è un atto differente rispetto al mondo che scorre. Certo oggi ci sono le fiere che condizionano, devi produrre. Tutti gli artisti oggi, tutti, producono per le fiere.
  • Hai mai attraversato un periodo di crisi? La cosiddetta crisi creativa? Come l’hai vissuta e cosa hai imparato da essa?
  • Crisi sempre, nel senso che non sono contento. Se non si è in qualche modo corrisposti nell’arte è pesante, ma quando lo si è mi vengono tanti dubbi. Troppo spesso il successo è squallido, bisogna riconoscerlo. Crisi creativa mai. Ho il mio mondo da finire, per finirlo non mi basterebbero due vite.
  • Come hai vissuto il primo invito alla biennale di Venezia?
  • Mi hanno telefonato. Certo ero contento, ma capii subito che era una cosa un po’ così… molto fumo. Non rimane nulla da queste cose preconfezionate.
  • Partecipare ad una manifestazione importante come la biennale di Venezia, pensi sia un punto di arrivo o un punto di partenza per un artista?
  • Per la verità nessuno dei due. Serve per il sistema, ma poi passa.
  • Cosa secondo te, un artista giovane non dovrebbe mai fare?
  • Non lo so, non do mai consigli.
  • Che consigli senti di dare ai giovani artisti?
  • Non lo so, non do mai consigli.

Lo spettatore / il pubblico

Francesca Bertazzoni – Come immagini e quindi descriveresti la figura di uno spettatore (ovvero pubblico) ideale che entra in contatto, si relaziona con il tuo lavoro? Ovvero quali caratteristiche peculiari vorresti possedesse? Se ci hai mai pensato prima, altrimenti prova a farlo ora.

Flavio Favelli – Devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Come dice Mario Perniola è arte, anti -arte e meta-arte allo stesso tempo. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.

FB – Cercando tra i tuoi ricordi di spettatore d’arte mi descriveresti almeno un’esperienza forte e le ragioni per cui la ritieni tale? Ovvero del tuo incontro con un’opera, sia essa oggetto, performance, evento, allestimento, testo, ecc… che nel bene o nel male ti ha sorpreso e che a distanza di tempo ti riporta esattamente a quel luogo, quelle sensazioni (sorta di effetto Madeleine).

FF – Nel Museo per la Memoria di Ustica a Bologna. L’opera è l’aereo e poi successivamente Boltanski ha fatto un’altra opera sul quell’aereo. Già di per sé l’aereo è un totem, un capro espiatorio immolato nel conflitto fra due mondi, quello Occidentale e del Patto di Varsavia o se si vuole fra due visioni differenti, oppure ancora fra dei deliri di quegli anni…

 

Senso 80, Flavio Favelli e i ricordi dei ricordi…

Fino al 14 maggio 2017, nei suggestivi spazi dell’Albergo Diurno Venezia, in Piazza Oberdan a Milano, è possibile vedere Senso 80: un progetto di Flavio Favelli, presentato dal FAI – Fondo Ambiente Italiano. Come ci racconta l’artista nell’intervista che segue, questo luogo ha suscitato in lui ricordi lontani, “le corde immaginifiche del mio passato e della mia famiglia, un bagaglio paradigmatico, direi profetico.” Immergendosi nelle sue atmosfere, Favelli ha cercato di “attraversare con uno sguardo e un sentimento un luogo che genera e ricompone la mia vita. Portare l’interno all’esterno. Il Diurno è un pezzo delle case dove ho vissuto.”

L’allestimento ideato per questa mostra intende suggerire una lettura originale di ciò che c’era e non c’è più, usando la ricostruzione di parte degli arredi, apparentemente formale ma in realtà concettuale, e l’assemblaggio di vari materiali, stili e oggetti, per approdare all’evocazione di una memoria storica e affettiva e per restituire un’idea di narrazione che ben esprime la natura e la vocazione di questi spazi, intrisi di umanità e passato.

Segue l’intervista con Flavio Favelli — (Elena Bordignon)
Pubblicata su ATP Diary

ATP: L’Albergo Diurno Venezia è un luogo pregno di passato. Come ti sei relazionato con questo luogo ‘funzionale’ per la salubrità del corpo? Che sensazione hai avuto nell’attraversare quegli ambienti?
Flavio Favelli: Come ho scritto nel mio testo in catalogo, la cosa più interessante per me è il contrasto fra il progetto originale degli anni Venti e le tracce, diciamo, volgari degli anni della Repubblica fino alla sua chiusura. C’è un adesivo sul vetro, in fondo al primo salone, quello che doveva essere un angolo bar, del Caffè Hag col logo col cuore che è commovente. Gli arredi originali, le vasche da bagno che traboccano di materia, la pasta di vetro dei rivestimenti al posto della ceramica e gli archi di legno in radica suscitano in me una specie di richiamo della foresta perché ho conosciuto queste cose nelle case dove ho vissuto. Ho familiarità psichica con queste forme e materiali. Non si tratta di ricordare cose d’infanzia al calore del focolare del c’era una volta, ma ho vissuto per un certo periodo con due persone – i nonni materni – che erano adepti, custodi, devoti e militanti di un cosmo con regole e leggi che rispondeva al mondo borghese bolognese che aveva esperito il mondo dei diurni e lo ereditava contaminandolo, piano piano, con quello che offriva il nuovo tempo e soprattutto la televisione. In quella casa dei nonni, la tv, che avrebbe piallato via tutto con gli show dell’imbonitore Mike transitato velocemente da un mondo formale e composto di Lascia o raddoppia? a una vendita sozza fra quiz pomeridiani e surgelati, era considerata così sconcia che dopo lo spegnimento si chiudevano le porte di legno del mobile su misura che la conteneva. Spento, coi bottoni metallici e lo schermo grigio, il televisore era troppo moderno, nudo e volgare per essere visibile in sala. Ho vissuto in un ambiente regolato da senso dei soldi e del risparmio, una regolare passione per l’antiquariato e la Bellezza, Buon Gusto, un velo di cattolicesimo, credenze religiose, superstizione, tradizione, usi, dedizione per il cibo e un grande piacere di godere la vita regolato sapientemente da una apparente sobrietà e morigeratezza. Un fiuto sottile per districarsi da vincoli che andavano rispettati solo in superficie. L’immagine e l’apparire era tutto. Fare bella figura.
È così che questo luogo tocca le corde immaginifiche del mio passato e della mia famiglia, un bagaglio paradigmatico, direi profetico.
Il senso di Senso 80 è quello – ancora una volta – di andare a fondo verso tutto questo.
È quello di attraversare con uno sguardo e un sentimento un luogo che genera e ricompone la mia vita. Portare l’interno all’esterno.
Il Diurno è un pezzo delle case dove ho vissuto.

ATP: Il titolo del tuo progetto “Senso 80”, ha una molteplicità di significati: dai ‘sensi’ in relazione alla nostra fisicità, ma sembra anche ripreso da un contesto cinematografico. Penso al film “Senso” di Visconti del ’54. Che significato hai dato a questo titolo?
FF: Al di là del titolo del film, amo la grafica molto audace della locandina originale, che posseggo. Grafica spinta, coi colori fluorescenti. Senso è roba fisica, concettuale, orientamento. 80 perché sono gli anni, molto importanti per la mia esperienza, e credo più ambigui e diabolici che ci siano, anni di edonismo, piacere, individualismo, di grande crisi, ricchezza e speranza. Il mondo si divide fra quelli che li disprezzano e quelli che li comprendono; non ho mai legato nella mia vita con chi prende le distanze dagli anni ‘80 giudicandoli superficiali e negativamente. Alla fine Ustica, il terrorismo, il Mundial, la Guerra Fredda, la stazione di Bologna, la moda, la musica, sono stati e sono tutti soggetti di mie opere e progetti; per me sono l’alba e il tramonto insieme. Mi piace poi un nome seguito da un numero: Airport 77, Spagna 82, Pop 84, Boccaccio 70, Europa 80. Una vecchia lattina di Coca Cola che possiedo recitava: ‘bevanda gassata ufficiale dei Campionati Europei di Calcio 1980” e la mascotte era un pinocchio di legno, sicuramente più interessante di Ciao, la mascotte di Italia 90 (ma nessuno se lo ricorda).

ATP: Per l’ideazione dell’installazione site-specific che presenti, hai tratto ispirazione dalle cartoline che mostrano l’Albergo nei suoi anni migliori. Cosa ti ha affascinato di queste immagini? Perché ricreare quegli ambienti?
FF: C’è una foto del Diurno degli anni Venti dove ci sono quattro arredi in coppia. Sembrerebbe un bordello con quei divanetti tondi-rondò con lampade Art Nouveau che fanno così Bella Époque. Il progetto nella prima sala consiste nel riproporre in qualche modo i quattro arredi. Sono oggetti familiari e un’immagine che collego a questo ambiente è il caveau del palazzo della sede della Cassa di Risparmio di Bologna in via Farini, fra l’altro opera dell’architetto Giuseppe Mengoni, autore della Galleria Vittorio Emanuele a Milano, che frequentavo col mio nonno materno. Era – ed è – lo scrigno delle cassette di sicurezza dei bolognesi e dei tesori delle famiglie del tempo, sembra di stare dentro un sottomarino; è uno dei luoghi più interessanti di Bologna. Tutto ciò emana una forte reminiscenza di cose vissute a cui ritorno sempre. È una specie di eden originario, sede della mia vicenda familiare. Il progetto dell’architetto Portaluppi del Diurno è l’inizio di una strada che porta naturalmente all’adesivo del Caffè Hag apparentemente volgare rispetto ai materiali nobili dello stabilimento sotterraneo. La Bella Époque, dopo le vomitate della Prima e Seconda Guerra, porta dritto ad oggi; chi fa il Diurno, progetta anche la Bomba e finisce con Internet che è solo un altro inizio della Fine.
Più che ricreare tento di ricomporre non le cose che non ci sono più, ma l’idea e le forme e i sensi di quelle cose che rimangono come tracce nell’aria, sono bagliori che scappano, sono ricordi di ricordi che diventano nuove cose ma si compongono di quello spirito. Ed è uno spirito che mi tiene occupato mentalmente, psicologicamente e materialmente. Pensare, scrivere, comporre, lavorare a queste cose mi provoca piacere e lo affermo con grande consapevolezza, visto che oggi sembra che quasi tutti gli artisti facciano opere solo per l’arte pubblica, i cittadini, gli immigrati, la Croce Rossa e il circolo anziani di periferia o semplicemente per cambiare il mondo. Un piacere decisamente privato, ambiguo e irrisolto, perché erano ambigui e irrisolti quegli ambienti e i loro milieu. Sono un uomo nostalgico (è un gran tabù oggi la nostalgia e sembra che anche l’arte debba guardare al futuro) che è consapevole che non si può tornare indietro ma non gliene frega nulla di guardare avanti. Intendo nostalgia di quel clima psicologico, intendo andare attorno al concetto di rêverie. Intendo impressioni emotive, che non sono pensabili, ma solo ricomponibili in qualche modo in forme e ambienti che diventano nuovi e differenti.
Ho nostalgia dei luoghi del mio passato perché sono luoghi psicologici e luoghi che rappresentano un passaggio cruciale del (mio) tempo e della (mia) storia.

ATP: Un ruolo importante per il tuo progetto è dato alla luce. Com’è l’hai organizzata nei vari ambienti?
FF: Ho usato le stesse plafoniere ministeriali che usai al Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro anni fa, ma anche in tante altre mostre. Sono neon per le piante tropicali e gli acquari, li ho anche nel bagno e nel guardaroba dove abito. Fin da bambino ho avuto problemi con la luce, influiva molto sul mio umore. Nella prima casa di Via Guerrazzi dove ho vissuto cambiavo spessissimo luci, il modo di illuminare. Era una casa al piano terra, era sempre buia; rifuggo la luce naturale, non sopporto i luoghi dove il sole e il cielo accecano. Con questi neon violetti è come avere il sole in casa, come il mare nel cassetto. Sottoterra deve essere tutto più artificiale perché sotto terra ci stanno le casse da morto. In fondo al Diurno, invece, i due corridoi degli ex bagni saranno illuminati da 5 insegne luminose, sono dei collage-assemblaggi. Sono le marche, loghi, i nomi dei prodotti che illuminano il nostro cammino. Sono nomi eterni, come lo sono gli slogan. Nessuno crede agli slogan, ma poi con quelli si vincono le elezioni dei paesi e vincerle vuole dire diventare anche il capo dell’esercito. Everybody can make a great drink dice la Smirnoff. Make America great again dice Trump.

ATP: Hai descritto l’Albergo Diurno come un luogo ‘super artificiale’. Cosa intendi con questa definizione?
FF: Alla fine si può dire che questo sia uno dei primi non luoghi. Chi l’ha fatto si ispirava al glamour del tempo che era dettato dalle Esposizioni Universali, dalla Bella Époque, da un pensiero nuovo che stava pensando al tempo libero e al benessere per finire al Vip Lounge. Franz Kafka nel 1909 descrive un viaggio a Brescia, a vedere gli aeroplani; davanti all’aerodromo ci sono delle baracche con delle insegne: Garage, Grand Buffet International. Il Diurno Venezia era un luogo super moderno perché era una sfida, come lo sono le linee aeree e gli aeroporti, mondi artificiali che sfidano la Natura e il tempo. Il Diurno fu una vera rivoluzione perché i cessi prima stavano fuori, erano reietti, si chiamavano latrine. I diurni erano i primi luoghi dove i bisogni del corpo furono elevati. Il Diurno è il benessere ma con un’ombra: è sotterraneo, ma non in una grotta con stalattiti o in un tunnel naturale di lava, ma vicino alle fogne, dove stanno i ratti, sotto il cemento e fra le fondazioni delle case, al livello della cantina, sotto i tombini fra i tubi delle città moderne. Un posto – sotterraneo – bello per farsi belli, fatto da un grande architetto dell’epoca non può essere che un’idea totalmente artificiale. Si scende sottoterra per farsi belli. I decori, le paste di vetro colorato, le vasche lavorate, sono un lusso che prima stava solo ai piani nobili. Il Diurno è il mondo alla rovescia. Ecco perché è bello e ci piace: perché è ambiguo. Se fosse stato un luminoso e arioso secondo piano sarebbe stato banale, noioso.
C’era anche un’agenzia di viaggio al Diurno: e cosa c’è più di artificiale del viaggio inteso come viaggio di piacere? Tutto deve essere finto, le foto dei luoghi del desiderio sono finte perché la bella vita può essere solo finta.
Se dopo la Bella Époque c’è stata la Grande Guerra, dopo la Vip Lounge cosa ci sarà? L’adesivo del Caffè HAG ci dice che da tempo voliamo alto, vogliamo tutto.
Un caffè che è un caffè, ma che non è un caffè. Solo il buono del caffè.

Il diavolo si è fermato all’Albergo Diurno

Anche quest’anno con la primavera bollente dell’arte milanese, tra Miart e Salone del Mobile, torna l’iniziativa del FAI che riaccende le luci dell’Albergo Diurno Venezia (da oggi al 14 maggio), affidando all’arte la reinterpretazione contemporanea dell’affascinante atmosfera dal tempo sospeso che strega i sotterranei di Piazza Oberdan.
Dopo Sarah Lucas, tocca a Flavio Favelli (Firenze, 1967) ripensare gli spazi del Diurno in un allestimento site-specific, dove alla ricostruzione minuziosa degli ambienti progettati da Pietro Portaluppi negli anni ’20 si sovrappone il suo stratificato immaginario. Così gli arredi, le insegne, le vetrine, i decori, gli oggetti da bagno pubblico in perfetto stile Decò si mischiano a tracce sbavate di storie minori che lì si sono consumate e ora vivono la loro ribalta, e a pezzi di vita privata dell’artista che si incollano come adesivi postumi illuminati al neon di installazioni sopravvissute agli anni ’80. Favelli costruisce un set straniante in grado di cogliere l’essenza “diabolica” di un luogo incastrato nel limbo di un tempo senza tempo, tra un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Un luogo, che come un ricordo ingombrante, non può che riproporsi filtrato dal presente nell’eterno ritorno di un senso sempre spostato che è «l’alba e insieme il tramonto», un po’ memoria e un po’ oblio. Come ce lo racconta l’artista. (Martina Piumatti)

Intervista pubblicata su Exibart

Come sei intervenuto in uno spazio così denso di storie che non sono la tua?
«Per la verità c’è molto della mia storia. Il Diurno è un pezzo di casa mia. Ritrovo molti segni, molte tracce, arredi, cose di case dove ho vissuto. Ho eletto come speciali certi oggetti, certi mobili, certi ambienti perché fanno da tramite rispetto al mio passato. Ho vissuto spesso coi mie nonni nati la seconda decade del 900, eredi e testimoni del 19esimo secolo in case piene di ricordi e memorie dove i segni della Repubblica facevano fatica a vedersi. Dagli attrezzi ai lampadari, dalla ferramenta degli armadi alle maniglie in bachelite, dalla radica all’avorio, tutto testimoniava tempi e modi differenti, completamente altri. Tutto ciò lo accosto a loro, partecipi insieme a me di una storia familiare molto complicata. I miei nonni materni erano rappresentati della borghesia bolognese, un mondo di regole e modi sapientemente regolato. Mia nonna recitava le preghiere con un rosario di granato e argento e amava le slot machines che si trovavano solo ai casinò. Erano troppo giudiziosi –come usava dire Tosca – per avere solo un robusto credo in Dio, Patria e Famiglia. Sarebbe stato troppo banale, troppo sconveniente e in fondo troppo poco divertente. Il Diurno è insieme la Bella Époque, forme Déco e Art Nouveau, e adesivi di plastica del Caffè HAG e cassoni luminosi con scritto Barbiere. Se la mia casa fosse sotterrata e riscoperta dopo tanto tempo, gli archeologi troverebbero le stesse tracce del tempo e di oggetti simili a quelli che c’erano al Diurno. Quando un artista pensa, allestisce, rinnova, progetta un luogo, e diventa poi suo. Ho cambiato la luce del primo salone con dei neon e ho illuminato i due corridoi in fondo con delle insegne: non è più il Diurno Venezia. È il Diurno Favelli Venezia».

Il tuo lavoro si può definire l’esito di un collage di immagini e tempi diversi. In che modo il passato stratificato del Diurno si sovrappone al vissuto e all’immaginario che ti appartengono, per essere poi filtrati dal tuo sguardo del presente e costruire qualcos’altro, un nuovo ‘senso’?
«Guardando dentro i bagni singoli, con le docce e le vasche ci sono arredi e pezzi di cose che tracciano un storia minore che appartiene alle mie immagini e mi commuove allo stesso tempo. Un lavandino sostituito in ceramica nera forse degli anni 60 convive con piastrelle di vetro finissimo e vasche monumentali, quasi sarcofaghi funebri che ci mandano slides che scorrono dentro di noi. Gli immancabili oggetti in alluminio, leggeri e futuristi. C’è anche molta violenza se si ascolta questo luogo. Nato fra le più due più apocalittiche guerre della nostra storia, un luogo che si prende cura del corpo in tutti i sui aspetti sottoterra –il corpo sottoterra ci va quando è nella cassa- è un luogo equivoco. Il Diurno è un luogo ambiguo fatto con grande speranze, novità, rivoluzioni e si aggiusta poi diventando bar, barbiere, ritrovo, agenzia di viaggio. È il luogo effimero per eccellenza, artificiale, è un luogo delle vanità che ci porta dritto alla Vip Lounge di oggi. Quando il FAI apre questo luogo c’è una folla immensa a visitarlo, è un posto molto amato dai milanesi anche se molti non ci sono mai stati quando era aperta. E questo perché il Diurno è un posto moderno, con le prime pubblicità, con la scritta TERME con un ninfa in bronzo in una fontana che sta poco sopra le fogne; è la nostra origine ambigua, dove i bagni profumati erano nelle case dei ratti: nelle vecchie foto assomiglia un po’ ad un alto bordello o a un salotto del Titanic. E cosa c’è di più affascinante di una cosa che sta per affondare? C’è poi questo senso di decadenza originario, non solo perché è a pezzi, ma perché la data scritta nel pavimento all’entrata del corridoio dei cessi, il 1925, è una data che è decadente come tutto quel periodo. Tutto questo per me è filtrato dalla storia delle mia famiglia custode di questo immaginario, ed io, figlio unico, bambino solo e ora unico erede porto con me tutta questa roba, dalla cassa di ferro dell’Esercito Italiano di mio nonno che si portò nella campagna di Russia, fino alla sua acqua di colonia Roger & Gallet, dalle foto delle vacanze a Riccione, luogo eletto del Duce, fino alla casa di Pavana, con le immancabili piastrelle in graniglia colorate e dense di decori».

“SENSO 80” è dunque un cortocircuito dove il tempo è sospeso e passato, presente e futuro coesistono. Perché tale scenario ricorda i ‘diabolici’ anni ’80 evocati anche dal titolo?
«Gli anni 80 sono anni così intensi che bisogna scomodare le categorie del maligno, del demonio, per venirne a capo. Come artista –e come è nella natura dell’arte- non distinguo fra bene e male, giusto e sbagliato e quindi il demoniaco è solo una grande opportunità per scendere negli inferi di quegli anni. Mi colloco in quegli anni perché li ho vissuti con grande intensità, mi ricordo tante cose, così tante che anche oggi penso così tanto a quegli anni che un po’ li rivivo con musiche, oggetti, cose e in qualche modo cerco di ricostruirne certi pezzi, certe parti di miei momenti. Esattamente come al Diurno, le case dove ho vissuto sono state intaccate dai prodotti –i prodotti!- di quegli anni potenti in luoghi che rappresentavano e testimoniavano l’epoca di fine 800 e inizi 900. “Senso 80” è una trama sotterranea in un luogo sotterraneo che però chiama anche altri nomi… Messico 70, Pop 84 , Airport 77: è anche una questione di ritmo».

La tua pratica artistica, anche in questo caso, si appropria del meccanismo della memoria e, così, un passato ormai andato ritorna differito dalla lente del presente. Qual è, se esiste, lo scarto tra arte e ricordo?
«Preferisco parlare solo di ricordo, memoria è una parola che non mi piace; presuppone una cosa più ampia, più sociale con qualcosa di necessario per una comunità. Mi sento un autore solo che parla della sua storia personale e che questa, per il fatto che è anche la storia di un artista, può avere a che fare con la memoria, ma ci va per conto suo, non perché a me interessi. Il mittente e il destinatario rimango io. L’arte cerca di ricordare i punti oscuri del ricordo. Negli album di fotografie di famiglia ci sono solo dei gran sorrisi che l’arte scavalca, oltre che per riesumare cadaveri, anche per trovare tesori sepolti. Questi assemblaggi, il mettere insieme pezzi –e i cocci sono tanti- per cercare di rifare e ricomporre un qualcosa, un qualcosa che però alla fine è roba nuova. Credo che lo scarto fra arte e ricordo non sia così profondo, perché il risultato, per me, è il medesimo. Sto parlando di un piacere tanto misterico quanto dolce, tanto ambiguo quanto doloroso, che provoca questa pratica del ricordo o del ricostruire forme nuove partendo da immagini, suggestioni e oggetti del mio passato. Un perturbante anche se è familiare, perché in questo caso la famiglia non è familiare ma è proprio il luogo dell’equivoco. È la storia della famiglia borghese italiana».

L’Albergo Diurno è uno dì quegli affascinanti luoghi-limbo, sospesi tra un passato che non può tornare e un futuro ancora tutto da immaginare. Come ti piacerebbe immaginarlo?
«Il fatto che il FAI lo renda visitabile poche volte all’anno lo mantiene ad un’ottima temperatura per serbare desideri, immagini e passioni che ne fanne un luogo non ben definito e appunto sospeso. In un’epoca dove cambia tutto in poco tempo, dalle versioni ai modelli, mantenere un posto scassato, malmesso e délabré può essere una grande idea per le città che vogliono sempre di più assomigliare a Vancouver. Credo poi che ci sia un problema di sicurezza, ci sono solo due entrate-uscite distanti fra loro e questo può essere una gran fortuna. Un posto insicuro è ancora più intenso».