Nella recente intervista l’ex Magnifico Rettore dice soprattutto una cosa – o lo dice il titolo dell’intervista -: che l’arte fa molta fatica e bisogna investire e anche che si sta perdendo la cultura e l’artigianato. Ne parla come se tutte queste cose appartenessero ad un unico ambito, condiviso. Ci sono invece almeno tre grandi emisferi distanti fra loro, con diversi linguaggi e modi di pensare che a volte s’incrociano, ma sono spesso in conflitto: quello dell’arte del passato, del gusto classico, conservatore contro la generale volgarità dell’oggi, quello diciamo neo-positivista (Chiesa compresa) dove l’arte, tutta, ha un valore col segno più: bellezza ed eccellenza vanno sempre a braccetto con utilità e lavoro: l’arte serve per un generale benessere e accompagna il successo e si intreccia col design e l’artigianato (e qui pure col cibo). E quello dell’arte contemporanea, più consapevole, che oscilla fra la lezione delle Avanguardie e del Novecento e le Biennali in giro per il mondo, ma sempre tallonata (definitivamente?) da gallerie snob e vip cards. Detto questo, considerando che il tempo popolare e populista (non è il momento della Street Art?) ha il suo peso, non si può pensare che la questione sia se il turista vada o meno a vedere il Cimabue o Il Compianto (ma è veramente così percepibile l’effetto sul territorio delle folle che tutti i santi giorni invadono la Cappella Sistina o gli Uffizi? E così Roma o Firenze non dovrebbero essere di conseguenza investite da tale lucente cultura invece che essere rispettivamente simbolo di degrado e di provincialismo nobil-bottegaio?) perchè questi rappresentano soggetti improponibili all’oggi e rimangono solo come svago piacevole senza bucare la nostra esistenza. Il magnetismo dell’immagine sacra-arcaica su fondo oro oppure del Cristo morto (c’è oggi un soggetto più scarico e desueto?) o delle donne che piangono, giacciono in una griglia a comparti stagni che ci ostiniamo ancora a chiamare bellezza.
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Il capolavoro
L’opera del Guercino rubata giorni fa, La Madonna con San Giovanni Evangelista e San Gregorio Taumaturgo, è un dipinto poco interessante. C’è la Madonna, con il viso un po’ da Madonna, un po’ da popolana; c’è l’angelo, il solito angelo, con il viso da angelo e ci sono i due santi, di cui uno molto bello. Tutti personaggi tanto belli, quanto desueti e lontani, come i Sansoni e i San Giuseppe, che sono solo belle interpretazioni di un mito antico oramai passato. Non c’è un significato moderno, non c’è una bellezza moderna, il quadro è antico. C’è una bellezza ideale, oltre che politica e di propaganda oramai esausta e fine a se stessa.
Questi assoluti capolavori, così tanto assoluti che sono a centinaia nel Bel Paese, sono dei reperti scarichi che parlano agli appassionati di pittura con gusti antimoderni. Certo, sono assolutamente belli e se ne può discutere senza fine dello stile, della luce e dell’ombra, dei contrasti che ammorbidiscono o incupiscono, come si parla di un tramonto che commuove. Ma il modo di vedere donne, uomini, madonne e angeli non ci riguarda più, non ha più significato oltre ad avere un grande difetto: ci separa dalla realtà. Ci scinde fra un passato lontano, passato per sempre, dove le cose erano belle per davvero e un presente assolutamente diverso.
Ammaliati e storditi dal mondo dove l’arte era bella, perdiamo contatti con questo. L’estetica, l’idea di bellezza, e così di società, rimangono marcate per sempre da questa magia irreale che rimane separata dalla nostra vita. Se solo il passato è bello e ci emoziona, vuole dire che il presente è brutto. E nell’orizzonte del brutto si vive male.
Così si comprende la nostra storia di oggi: abbiamo infatti trasformato un museo a cielo aperto in una discarica. Siamo cresciuti solo con un’idea di arte alta e perfetta, un Ideale Classico che ci fa credere di essere portatori sani del bello e del Buon Gusto.
Che ce ne facciamo oggi di un Ideale classico? Che ce ne facciamo di un dipinto dedicato a San Gregorio Taumaturgo?
Non possiamo, poi, più permetterci di prendere cura del nostro inestimabile patrimonio che sta diventando un pesante fardello, un neonato sempre affamato a cui sacrifichiamo, in maniera scomposta, precipitosa e impulsiva, una mare di risorse che non gli bastano mai. Questo patrimonio andrebbe ceduto. Magari in prestito ad aziende o enti abili o a paesi attenti, che hanno altre situazioni culturali ed economiche, capaci di amministrarlo in maniera produttiva. Noi poi, con un volo low cost, lo andremo a vedere.
Ma non lasciamolo più nelle nostre chiese inadatte, nei nostri mille musei in perenne perdita che servono solo a salvare il Buon Gusto e a ricordarci che siamo la terra della Magna Grecia e del Rinascimento. Il quadro del Guercino è uno specchio che riflette il Paese. È un capolavoro da milioni, ma non ha prezzo, è un tesoro, ma è invendibile e inamovibile da una piccola chiesa, è un bene di inestimabile valore che produce problemi. È lo specchio del Paese, è lo specchio di Narciso.