Via Guerrazzi 21

Non c’è posto più fantasmatico di Via Guerrazzi 21.
Ho vissuto ventisette anni fra il primo e secondo piano in tre appartamenti di questo palazzo. Sono venuto qui nel 1974. Mettendo insieme tantissimi momenti direi che alla fine ho passato qualche settimana della mia vita a guardare il giardino interno, le palme a volte con la neve, i fiori del Calicanto e quelli della Magnolia sempreverde.
Via Guerrazzi 21, insieme alla casa di Pavana, è il luogo dove si sono consumate tutte le faccende della mia famiglia, una grande opera letteraria, dove sono stato un personaggio centrale; in fondo con me finisce tutta la storia. Figlio unico e da dieci anni tutore, quasi a difendere e custodire poeticamente e legalmente tutta questa roba.
Roba perché quello che rimane sono mobili, immobili, oggetti ed immagini di una vicenda infinita. All’ultimo piano delle scale ripide e buie, ora tinteggiate da un colore da Soprintendenza, non mi avventuravo mai perché abitava una strana persona, elegante e distinta, sempre con gli occhiali scuri anche se era buio; il Signor B. era invertito come ammoniva mia nonna Tosca. Nell’altro appartamento abitavano le Signorine S. due sorelle anziane quasi invisibili di Palermo che contribuivano al silenzio e all’idea che l’eccezione confermava la regola: in centro a Bologna ci abitavano i bolognesi.
Il primo grande appartamento aveva i pianciti con la veneziana e i soffitti altissimi, uno era affrescato e mio padre aveva messo due faretti colorati uno giallo e uno blu su un ripiano sopra lo stipite della porta, a smalto lucido avorio, per dare un effetto scenografico. Una volta mia madre fece un pranzo per cinque dei mie compagni della scuola media, anche se non ne capii mai il motivo. Da bere c’era spremuta fresca servita in una brocca-thermos con l’interno in vetro e l’esterno in sughero, lavorata e argentata.
Prima di versare mia madre mescolò per un’ultima volta e il vetro scoppiò, un vetro quasi specchio, marezzato con riflessi ottone. Una volta il nonno Carlo, marito di Tosca, mi rimproverò perchè stavo mescolando il tè in senso antiorario.
Non si mescola al contrario! mi riprese.
Tutto aveva un verso e un posto per lui, i piloni del mondo si reggevano con la precisa applicazione delle giuste regole fra cui mescolare in senso orario. Regole chiare di differenti provenienza: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze borghesi. Restai sempre col dubbio che mia madre quella volta mescolò in senso contrario, in modo invertito.

Vari abissi

Quando nel 2006 la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino mi disse che il tema del progetto personale per il quale sarei stato invitato a partecipare a una mostra per l’anno successivo, sarebbe stato l’ambiente, e il nome della mostra Ambient Tour, non la presi benissimo. Con l’ambiente inteso come questione verde non c’entravo nulla e l’ecologia mi ha sempre annoiato; se sono stato uno dei primi a raccogliere la carta per la raccolta differenziata, è perché la separazione dei materiali in diverse categorie, il loro impacchettamento e la conseguente pratica per lo smaltimento mi hanno sempre dato un senso di efficienza, organizzazione e un piacere che ha a che fare con un’idea di archivio che ho sempre indagato: si mette a posto sia perché c’è sempre disordine, sia perché si cerca sempre un nuovo ordine delle cose (e l’artista in fondo non fa questo?). Ho sempre pensato alla Natura come una gran brutta cosa e sono sempre stato consapevole che la cultura da cui provengo, l’amato Occidente, abbia certo perpetrato un grande scempio e dei crimini orribili, anche se difficilmente sarebbe stato possibile fare diversamente. Da post-ebraico-cristiano sono comunque soddisfatto di questo lavoro, anche se c’è un lato molto sporco e con parecchio sangue versato. Certo è che se abbiamo sconfitto molte malattie e neutralizzato batteri, virus e organismi complici, poi diventa difficile essere attenti ad altri essere viventi importanti per l’equilibrio dell’ecosistema. Voglio dire che quando si ha in poppa il vento del …siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare… per parecchi secoli, insieme a progressi e lumi, poi diventa arduo, di colpo, cambiare gioco. Credo, grosso modo, che l’arte sia in estrema opposizione alla Natura –non ho mai compreso la Land Art-; alla fine è per la grande civiltà romana che abbiamo iniziato a distruggere tutto. Per la mostra Ambient Tour mi rimboccai le maniche e pensai all’ambiente di immagini del mio habitat psicologico che evocò subito il mare vissuto e pensato come uno dei peggiori luoghi. Il mare blu, blu scuro, scuro-scuro, quasi nero, gli abissi profondi che solo a pensarli stordiscono. Già da bambino non riuscivo a tenere aperto un libro sugli animali con una grande balena nel mare, mi dava le vertigini, era di una grandezza anormale, mi ricordava le cose che stavano sotto, le profondità abitate da mostri marini e che forse erano già inquinate da fantasmi familiari. A ben pensarci i miei contatti con la Natura sono stati sempre a tinte ambigue e non semplici. Ricordo bene a vent’anni feci un lungo viaggio a Cylon e poi alle isole Maldive, su barche di pescatori in atolli paradisiaci da Robinson Crusoe con un mare da Muratti Time. Eppure sulle spiagge dolci e bianche, dove i colori erano più morbidi della spiaggia e l’acqua chiara e compiacente, c’era, nonostante tutto, qualcosa di sinistro, aleggiava qualcosa di negativo e di desolazione. Era sua maestà la Natura in tutta la sua silenziosa sovranità. Passeggiavo con l’acqua a mezza gamba fino alla fine dell’atollo, poco più avanti il celeste chiaro tendeva all’azzurrino per poi virare al blu, sempre più blu. Rimanevo inebetito a contemplare tale scenario talmente magnifico da sembrare irreale, finto e infine inquietante. Era un blu scuro che presentava l’inizio del baratro, dell’abisso. Era una Natura muta, sorda, impassibile che avrebbe permesso a fratello mare di inghiottirti dolcemente fra flutti sinuosi e acque fresche nel suo silenzio stordente che giocava solo con qualche fruscio del vento e delle foglie di palma in un luogo di infiniti. Una situazione piacevolmente subdola, una sensazione ingannevole.

Cercando più indietro affiorò un’altra immagine (1),

quella del 29 giugno 1980, che vidi su Il Resto del Carlino che leggevano i mie nonni in vacanza, sull’Appennino Pistoiese. Avevo 13 anni e nella casa di Pavana ci andavamo ogni anno per tre mesi. La scuola finiva i primi di giugno e iniziava il primo ottobre. La casa di Pavana, un villino dei primi del 900, rappresenta una specie di soffitta psicologica. Isolata dal giardino intorno e dai suoi 12 tigli, è una casa sempre uguale, con le stesse cose da sempre che ricordano momenti che solo a Pavana riprendono a scorrere ogni volta nella mia mente. Tempo fa iniziai a scrivere su quella casa e iniziai con questa frase: i ragni urlavano nelle siepi. Erano le siepi di bosso verde scuro una volta modellate con cura e ora quasi abbandonate. L’immagine sulla prima pagina del Carlino era una foto in bianco e nero (allora i giornali non stampavano a colori) con un manichino bianco –ma era uno dei primi cadaveri affiorati- e il mare nero come il fondo di un pozzo, un rettangolo di abisso anonimo come è anonima la Natura che rende tutto anonimo e fa scorrere tutto senza pietà e ricordo. E’ come se questa foto avesse reagito con l’ambiente domestico e le vicende familiari, ammantandosi di varie immagini che poi rilasciano, nel tempo, a poco a poco, una scia di flash che, non si sa quando e come, ogni tanto mi si accendono ed emergono per un contatto casuale fra luoghi, visioni, ricordi, rumori…

C’è una forte analogia fra la figura della immensa balena che non stava nelle pagine del libro e l’aereo: entrambi sono sproporzionati, di una grandezza non percepibile, di una scala che mi ottunde; la loro mole allaga i miei sensi. Quando sto per salire su un jet dalla scaletta, sento lo stesso turbamento di quando ero bambino davanti al libro-problema. L’enorme pancia bianca e i suoi folli criteri, quasi captassi un collasso improvviso su di me, mi disturbano. Il ventre quasi epidermico e organico è mostruoso, forse ha tutte le budella dentro. La faccenda della Strage di Ustica è così diversa dalle altre: un aereo che incontra il mare è spaventoso e lo è ancora di più se la carcassa viene ricostruita ed esposta. Ed è stata un’altra foto (2),

sempre su un giornale, questa volta americano, quella della cerimonia commemorativa del 5° anniversario dell’11 Settembre 2011. Ero a New York e per la strada vidi vari quotidiani con un rettangolo nero. Era una vasca non tanto grande col fondo nero e l’acqua nera anche se la foto era a colori. Un pezzo di abisso dove il Presidente Bush con sua moglie e un militare in uniforme stanno in raccoglimento. Sono tutti e tre su un terreno ghiaioso, è il fondo di Ground Zero oramai ripulito dal crollo delle Torri Gemelle, è il punto dove sorgerà il monumento all’11 Settembre. L’America ha scelto di ripartire da un buco nero, da una vasca oscura di pochi metri quadrati. La breve cerimonia prevedeva di adagiare sul piccolo abisso una corona di fiori che galleggerà senza dimora come se fosse in mare aperto. In uno dei luoghi più artificiali del pianeta, più urbanizzati, più moderni, si cerca un’idea di un nulla nero, un pezzo di mare senza vita scuro, si cerca di ricostruire un luogo oscuro e anonimo dove possa galleggiare senza fine un corona di fiori con l’idea che un giorno marciranno in bocca ai pesci. Le cose che emergono dal mare hanno un non so che di artificiale, di immaginario (3,4,5).



Dopo che vidi la foto del pozzo nero, cercai di ricomporre qualche parte delle tante immagini che aveva generato: mi apparvero vasche, giardini (6,7),

orti botanici, fontane, il mare nel cassetto, acquari, tutto quello che avevo visitato con mia madre nei nostri infiniti viaggi, tutto ciò che avevo notato da bambino e che era tutto quello che avevamo escogitato nella nostra storia di questa parte di mondo nell’infinita lotta per cercare di avere la meglio sulla Natura. L’opera che presentai si chiamava Giardino d’Inverno (8,9)

e consisteva in una vasca composta da tre vasche da bagno tagliate, risaldate e impermeabilizzate e poggiate su una specie di struttura con un delizioso gioco di ringhiere assemblate in ferro battuto. La piccola piscina nera era sollevata da quattro angoli verdi, dei vasi di aspidistre, una della piante che amo di più. Sono piante ornamentali (che concetto sublime, le piante che esitono solo per ornare!) con lunghe foglie scure, che rifuggono la luce e prediligono gli interni bui, di case e vecchi palazzi. Le aspidistre, come le ortensie, sono antiche, desuete ed amano l’ombra; sono gli ornamenti delle case psicologiche, delle istituzioni di un periodo della mia vita, dove gli usi della religione s’impastano con le faccende mondane, di famiglia, insieme alle angosce e ai capricci della borghesia. Mia nonna Tosca è stata un’eccellente intreprete per 99 anni di questo mondo dove ogni cosa aveva un suo posto preciso e dove si doveva sapere, fin da subito, le regole per starci.

Le due vasche nere del 9/11 Memorial (10,11) sono un abisso otturato che ricorda il luogo sacro dove sorgevano le Twin Towers con un vuoto artefatto, unica fontana dove l’acqua non zampilla ma s’inabissa, una cascata censurata dentro una voragine nera, levigata dalla pulizia del gusto minimal. Questi buchi sono diventati l’origine degli Stati Uniti e i due grattacieli i piloni immaginari che sostenevano il cosmo del paese.

Tutto gira, come un gorgo… il mare nero, il DC 9 dell’Itavia, l’aereo –la più grande macchina-artificio pieno di snack e salviette profumate- che viene giù e s’inabissa in una zona limite per i radar di allora, nel cuore del Tirreno, in uno dei punti più profondi, i manichini che galleggiano, come le corone di fiori nelle vasche nere che ricordano le Torri Gemelle, distrutte sempre dagli aerei –coi loro ventri lucidi- che entrano puliti e chirurgici, per poi espoldere in uno sfondo di cielo azzurro-azzurro come il mare delle Maldive. E’ una catena di flash che si accende ogni volta e che mi porta a quella balena delle vertigini, che il mio sguardo non poteva sostenere.

Anche in un sacchetto di una popolare catena di supermercati (12) stampato su plastica, -di quella che soffoca i pesci- con un inchiostro bluastro c’è una specie di poesia-preghiera che dice che le Torri sono nella nostra mente e nei nostri cuori, insieme ai nostri abissi.

Note:
 1 - Foto ANSA del 29 giugno1980 apparsa su Il Resto del Carlino
 2 - Giardino d’Inverno, ritaglio di giornale con cornice, 25x41 cm., 2007
 3 - Souvenir, foto, Dario Lasagni
 4 - Souvenir I, mobili tagliati e ricomposti, 90x126x58 cm., 2007
 5 - Le foto esposte
 6 - Abissi, foto, 2006
 7 - Giardino d’Inverno, foto, 2006
 8 - Giardino d’Inverno, materiali vari, 70x230x160 cm., 2007
 9 - Giardino d’Inverno, particolare
 10 - 9/11 Memorial, New York, foto, 2015
 11 - 9/11 Memorial, New York, foto, 2015
 12 - Always, Forever, foto, 2015

Luigi Marulla

Sono stato invitato da Alberto Dambruoso alla residenza d’artista BO_CS a Cosenza, sostenuta da Comune e Provincia della città calabrese. 
Il programma prevedeva che alla fine del soggiorno l’artista lasciasse un’opera per la collezione del futuro museo d’arte.

Ho proposto di fare un wall painting su un muro pubblico, visto che è una pratica che seguo ultimamente; sarà quella la mia opera per il museo.
Avevo in mente di dipingere una vecchia pubblicità dell’Itavia Aerolinee soggetto su cui ritorno da anni (fra l’altro molto attiva in Calabria con gli scali di Crotone e Lamezia, così anche quelli che il progetto si deve legare al territorio, sarebbero stati tranquilli). Improvvisamente, il giorno dopo il mio arrivo, il 19 luglio, muore Luigi Marulla, calciatore simbolo della città, il calcio a Cosenza.

La sera stessa cerco su Internet le figurine su cui è apparso durante la sua carriera.
Per me Marulla significa immagini e ricordi di un calcio minore, il fascino di un calcio della provincia meridionale sui campi con poca erba in area, nei servizi sbiaditi di Novantesimo Minuto, che mostravano, oltre alle partite, vedute di luoghi.
Storie lontane, spesso malinconiche, schiacciate da una bellezza ridondante di un passato a pezzi e una desolazione che solo la modernità può dare. In un ambiente fra lo sfasciato e una magnificenza intaccata da un carattere insieme arcaico, commerciale e popolare. Tutto questo è il Sud d’Italia e Luigi Marulla è uno degli dei di questo immenso pantheon.
Ho pensato quindi ad una figurina della Panini di anni fa, con uno sfondo celeste carta da zucchero, un cielo chiaro, forse con un inizio plumbeo.
Alla presentazione il primo agosto 2015, l’opera è stata duramente contestata con giudizi offensivi. Su Facebook è stata dileggiata. Fra i tanti merita attenzione questo intervento di tale Antonio Napoletano: Praticamente il Tributo a Gigi Marulla sarebbe una figurina di Gigi senza che sia raffigurato. Vi sembra una cosa normale? E non venitemi a dire che l’artista deve essere libero perché non sta disegnando su una tela, ma su un muro della città. Ciò significa che non è libero di fare quello che vuole ma si deve adeguare alle esigenze ed al gusto della cittadinanza che poi lo dovrà vedere tutti i giorni quel murales. Perché prima della realizzazione non si è chiesto un parere ai cittadini? O quanto meno agli ultrà?
che credo riassuma il punto di vista di molti, anche di artisti, crititici e curatori che amano l’Arte Pubblica.
I locali -siamo pur sempre nella Magna Grecia, nella terra dei Bronzi di Riace- amano e vogliono un’arte figurativa, letterale, meramente illustrativa, come i credenti pagani devoti a Padre Pio o proprio come la scultura di Mimmo Paladino in piazza del Comune che rappresenta l’elmo dei Bruzi, gli antichi abitanti di Cosenza.

Secondo molti la mia opera non corrisponderebbe all’immaginario popolare, sul muro non c’è traccia né del ritratto della persona, né del suo nome; in particolare sono stato accusato di non avere capito bene la realtà del luogo, i sentimenti delle persone, l’importanza del significato di Luigi Marulla per la città.

Da subito mi sono sentito nominato da una sorta di investitura che mi ha dato il contesto, subito dopo la notizia – già trapelata il giorno dopo la sua morte- che un artista, venuto da fuori, avrebbe dedicato un’opera al campione. Dopo avere realizzato il murale, il Sindaco, dando ascolto ai tifosi, mi ha chiesto se potevo in qualche modo completare l’opera. Non mi è stato possibile risolvere l’opera semplicemente perché un’opera d’arte finita non va risolta e corretta affinchè risulti piacevole al pubblico o peggio ancora ortodossa.

Mi sarei aspettato dagli ultras un gesto istintivo, magari una scritta a vernice sull’opera sull’onda della contestazione e invece c’è stato un momento di strana sospensione durante la concitata discussione, come se solo io avessi il potere di risolvere la faccenda. La delega ha un significato profondo al Sud.

Leggo sulla pagina Facebook del Sindaco questa frase del 5 agosto:
“L’applicazione del nome è stata concordata con i tifosi alla mia presenza e suggerita dall’artista stesso”.
Io non ho suggerito nulla, dopo un’accesa discussione ho pensato che non c’erano gli estremi per ragionare; i tifosi sono fedeli e con la fede non si ragiona.

Per cui, considerato che gli ultras volevano una risposta, ho permesso che fossero loro a finire il murale. Lo stesso giorno un gruppo aggiunge all’opera il nome: Gigi Marulla, scritto in maniera ordinata con una bomboletta spray nera.
Un’opera cambiata a furor di popolo.

Ho permesso questo perchè mi sono trovato davanti a una situazione talmente irreale, folle e assurda che l’unico modo per superare l’impasse era cercare di identificarsi e comprendere i sentimenti della gente. Ma non perché lo abbia ritenuto interessante come processo, non sono d’accordo su nessuna delle loro obiezioni, ma perchè tutta la faccenda andava semplicemente vissuta da un punto di vista antropologico, con tinte che definirei esotiche, una specie di abisso pop.

D’altra parte come chiamare un contesto dove un eroe calciatore viene celebrato in processione, portato -bara in spalla- nel campo dello stadio e poi commemorato con un funerale officiato contemporaneamente in due modi, quello cattolico dentro la chiesa – coi poster affissi sulla facciata- e quello pagano all’esterno, coi fumogeni e cori da stadio?

Riflettendo, dopo un mese, posso dire che la mia scelta del soggetto Luigi Marulla è stata forse una scusa, come del resto molte opere lo sono, per scendere in questo milieu a tinte esotiche.
Il 25 agosto viene inaugurato, contiguo al primo (in quale posto al mondo si mettono due opere attaccate?) un secondo murale dello street-artist Lucamaleonte, che chiamato per acclamazione, oltre a lavorare sull’idea di un progetto non suo, ha dipinto l’immagine del

calciatore proprio come è sul poster che è stato stampato dai tifosi subito dopo la scomparsa del giocatore. Soluzione letterale e puramente illustrativa.
Quello che appare ora, un’opera corretta insieme ad una pittura folcloristica, non è altro che un’immagine partorita, non so con quale consapevolezza, da un contesto di subcultura.

Mi rimarranno molte immagini da questo caldo soggiorno cosentino.
E fra queste di sicuro la figura del barista del Caffè Europa che accoglie tutti gli uomini con Dottò, Dottore.
Santino fa delle bibite artigianali, la limonata e l’aranciata, quest’ultima con le arance di Trebisacce che finiscono il 15 di agosto e sono, come dice lui, un prodotto eccezionale: A fine dumunnu.
La fine del mondo.

Questo scritto non è nè una lettera nè un testo, ma un’opera d’arte.

 

Fanta Rosarno

Credo che l’arte di oggi se ne debba stare per i fatti suoi, sul suo pianeta, che è quello dell’arte. Da tempo molti artisti e critici chiedono un’arte impegnata, attenta al contesto sociale, un’arte soprattutto etica. Anni fa, dopo la notizia che il Vaticano avrebbe partecipato per la prima volta con un Padiglione alla Biennale di Venezia, ci fu un dibattito sui giornali e Mario Perniola nell’articolo Perché l’arte deve rimanere senza dio scrisse, fra l’altro: … l’arte è tale solo se è allo stesso tempo anche meta-arte e anti-arte (1).

Penso di essere due cose, due soggetti distinti, a volte molto distanti: sono un cittadino e sono un artista e viceversa a seconda dei momenti. Quando penso e vedo da artista seguo le mie immagini per comporre o ricomporre quello che a volte riesco a vedere, senza fini e scopi se non quello di vivere attraverso la potenza di queste immagini che sono filtrate da questioni personali intense, aperte fin dalla mia infanzia, ricordi così netti e densi che ben presto hanno richiesto un’attenzione sempre più rilevante per cercare di vedere e capire meglio quello che vedevo. Insieme ad un forte piacere mai sazio, ad una devozione totale per oggetti e cose fra bellezze sempre diverse e significati ambigui, queste immagini oscillano fra la mia storia personale e quella del mio Paese degli anni 70 e 80, uno dei periodi più folli, densi, estremi, vitali e contradditori della vita dell’Occidente.

Al centro ci sono delle immagini che a volte compongono e scompongo in altre varie forme, sembrano tante cose, ma anche non lo sono. Assomigliano, ma sono altro per il fatto che hanno luce e significati differenti dalla loro apparenza. Forse tutto ciò nasce, molto semplicemente, dalla mia natura solitaria; quando si è soli le cose parlano e il mondo apparentemente immobile, si anima.

Questo processo generativo, una specie di produzione autarchica di immagini e forme, supplisce la realtà che evidentemnte non ha mai accontentato né soddisfatto il mio bisogno. Sono nato in una parte di mondo e in un periodo storico e in particolare in una famiglia, nel quale il significato, più che il pane, è stato la questione quotidiana con cui fare i conti. Non avevamo problemi economici, ma anche senza essere ricchi – mia madre aveva uno stipendio da insegnante – le questioni di casa erano, diciamo, filosofiche. L’arte, la cultura, la politica, i rapporti, tutto era una contrapposizione, anche perché tutto il paese era in contrapposizione. Davanti a casa c’era un muro di un giardino, con le foglie verde scuro, come sono scuri tutti i giardini di Firenze ed era pieno di manifesti: NO e SI, era il referendum sul divorzio.

A me piacevano quei grandi caratteri NO e SI, facevo un gioco che avevo inventato: caramelle No o Sì? Mamma No o Sì?

Da subito ogni oggetto, con la sua forma, la sua immagine mi poneva delle domande perché rifletteva le situazioni della famiglia e della casa, vivevo in un cosmo chiuso, scandito da ritmi precisi e certezze salde, in un nido pieno di dolcezze che poi scoprii stucchevoli e soffocanti.

ho spesso osservato che il contenuto delle opere d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le loro qualità formali e tecniche…
Sigmund Freud, Il Mosè di Michelangelo.

Anche io avrei voluto sempre pensare così, ma non so se ho mai potuto fino in fondo, la bellezza, la propria idea di bellezza, le qualità formali che a volte centrano un raro equilibrio che allaga i sensi e stordisce la psiche non sono facili da allontanare.

Già da bambino, forse, ero già artista, perché se non ci si sente contenti in una situazione di generale benessere materiale, vuole dire che manca qualcosa di profondo e già questa mancanza ha a che fare con l’arte. E così si cerca di fare quello che manca e che non c’è e allora si inizia questa pratica che da una parte è arte e dall’altra è una specie di catarsi senza fine perché si deve costruire un mondo parallelo, perché l’artista ha bisogno di altri mondi.

Anni fa ebbi una commissione pubblica da ANAS, la società dello Stato, quelle delle strade, per fare un ambiente permanente in un interno di un edificio di loro proprietà. Terminata l’opera discutemmo coi dirigenti sul catalogo dove Mario Fortunato aveva scritto un bellissimo testo, Il Vestibolo nudo, ma giudicato troppo psicologico. Volevano un altro intervento con un punto di vista di uno storico dell’arte, la sola figura capace di giustificare l’opera. Un consigliere in particolare disse:
Anas non fa fare una stanza all’artista perché ha problemi psicologici…

L’apparato, lo Stato, non può comprendere certe questioni psicologiche che giudica forse come oscure e ambigue, zone che è meglio evitare, ambiti non regolari e cerca la strada sicura per dire che l’arte va collocata nella scia della storia dell’arte.

Da tanti anni vado in Meridione, la prima volta fu nel 74, avevo 7 anni, una Pasqua con mia madre in treno in Sicilia, il giro classico. Poi tornammo, ma in Calabria, ricordo la Sila su un pullmann che era un autobus, Longobucco e i suoi scialli e poi Isola Capo Rizzuto con la colonna solitaria, ma da sempre mi colpivano certe cose che non erano quelle scritte dalla guida del Touring – la guida che ha insegnato all’Italia che solo i monumenti del passato, le chiese e i musei, le cose alte sono quelle da visitare – né quelle che mi faceva vedere mia madre, amante dell’arte classica, ma certi contrasti, certi paesaggi poco ortodossi, certe insegne di negozi, certi incarti di pasticceria, certe panchine moderniste, ma soprattutto l’intero cosmo di tutte le cose abbandonate, rotte, sbragate, cadenti con le loro macerie, come certi palazzi di Palermo o di Cosenza insieme a quel poco di natura che riusciva a crescerci dentro. O come quelle specie di piazzali desueti in lastre di cemento, con una piccola selva di bassi arbusti ordinati dagli interstizi del piancito con in fondo una Uno blu abbandonata, ma ancora intera, che guarnisce con equilibrio una magnificenza semi artificale.

Amo la desolazione ordinata, quel degrado composto con pochi colori che ha solo immagini aperte e che trovo solo al Sud. Sono visioni con un passato consunto, quelle che il Nord non si può più permettere, situazioni sconcertanti, una parte di mondo sfasciato dove vedo dei luccichii, quella spazzatura che da queste parti non si ha voglia di rimuovere, per un’indolenza storica ma che permette spettacoli sublimi, fra il pittoresco e l’orrido, il catastrofico e l’apocalittico, perché l’apocalisse è bellissima quando si è solo spettatori.

Vado al Sud per trovare anche quelle risacche di umanità, gente stagnante, con corpi stanchi e antichi, minuti ed esili o straripanti e carnei, facce come se fossero di razze diverse come quelli che vivono nelle città vecchie, dove nessuno vuole stare, perché quando un posto è vecchio già di suo si cerca il nuovo a tutti i costi e quando ci si sente indietro il nuovo è ancora più nuovo anche se non è intonacato.

Vado al Sud per vedere i segni che rimangono solo qui e sono i segni del mio recente passato che hanno così deciso e imposto un carosello di immagini che tengono insieme la mia vita, il mio tempo, i miei sentimenti.

Sono arrivato a Rosarno in auto in Calabria, l’unica regione senza Telepass, la terra della Magna Grecia con le coste dai nomi suadenti: Costa degli Dei, Costa Viola, Costa degli Aranci e Riviera dei Cedri dove cresce il Cedro Diamante, il cedro più buono del mondo. E sono arrivato a Rosarno per fare un murale. Da qualche anno sto facendo dei wall paintings perché le immagini dipinte sui muri delle città sono sempre molto intense, mi danno l’idea e l’illusione che sono in una mia città con le insegne e le immagini che desidero. Ho pensato alle arance, da bambino le arance erano i frutti del Sud che arrivavano con le veline colorate, erano i frutti per i bambini; una volta un avvocato di mio padre, era del Sud, mai visto prima, mi promise una cassa di mandarini, ma poi non arrivò mai. Quando penso alle arance, penso soprattutto ad una pubblicità, ad una vecchia reclame che girava su Topolino quando ero bambino: una bottiglia di Fanta, l’aranciata d’arancia, quelle col vetro spesso – spesso usurato – arancio scuro, con la superficie ad anelli, con la scritta smaltata che rimaneva per sempre e di fianco tre bicchieri tondeggianti, con forme suadenti e diabolicamente moderne, da bibita estiva, colmi di aranciata colore arancio intenso, quasi artificiale. L’immagine un po’ presa dall’alto, metteva in risalto la parte superiore dei bicchieri diventati tondi come tre grosse arance. Arance da bere dichiarava il verbo che tranquillizzava tutti. Tranquillizzava perché avevamo bisogno di entrambi i mondi, quello naturale, i frutti di madre natura, e quello artificiale, la bibita pronta da stappare perché ci sentivamo moderni e volevamo esserlo sempre di più. Negli anni di Piombo, forse, le arance era importante che fossero più arancioni di quelle vere.

Di fianco al murale che ho dipinto a Rosarno in via Umberto I, ricordo una scritta a vernice sul muro: W J. V. BORGHESE.

Il Principe Nero, quello della Decima MAS e del presunto golpe in Italia del 1970. Poco sopra in via Mesima una bottega di un anziano che riparava le biciclette, una bottega un po’ sgangherata, senza porta di ingresso, con un grande magnifico poster appeso in fondo, liso e ingiallito, il poster elettorale che per decenni è stato sempre lo stesso in Italia: Vota Comunista. L’uomo mi ha raccontato della sua militanza nel Partito e soprattutto ricordo questa frase: Qui si sono mangiati tutto.

Ho dipinto una grande velina delle arance col nome Zeus, chissà di quale marca e provenienza, un esempio tipico di creatività spontanea che mescola immagini alte con quelle basse, un mondo di subcultura meridionale che inconsapevolmente si tira dietro l’eredità di un pezzo della storia più importante del mondo. La carta velina per incartare arance è un artifizio assoluto, una grande elaborazione metafisica, composizione concettuale, sviluppo astratto che ha il fine di presentare un semplice frutto della terra in un dono speciale, unico, prezioso, un grande artefatto, dove uno dei grandi temi è la Magna Grecia, che come i Bronzi di Riace sono una realtà psichica. A volte sembrerebbe che nei duemila anni e passa, fra la Magna Grecia e oggi, ci sia solo la Magna Grecia.

Così nel difficile tentativo di cercare di portare l’interno all’esterno, di esporre ed espormi con le immagini, con la loro forza e debolezza, i loro significati multipli, oltre a dipingere continuo a scrivere testi, che alla fine sono delle opere d’arte, come è il tempo dell’artista e anche Fanta Rosarno.

NOTE:
(1) Mario Perniola, Perché l’arte deve rimanere senza dio, in La Repubblica, 1 febbraio 2013.
(2) Sigmund Freud, IL Mosè di Michelangelo, 1914.

Testo pubblicato in KIWI Deliziosa guida – Rosarno Ulteriore, a cura di A di Città, Rosarno (RC) e Viaindustriae, Foligno (PG).

Su Palmira

Questo mio progetto nasce a maggio, senza pensare di eseguirlo in Sardegna.

Ho cultura visiva pubblicitaria e raccolgo oggetti e prodotti che mi ricordano il mio passato personale, che credo sia il soggetto principale della mia opera.

Il tonno Palmera c’è dagli anni 60 così come la sua pubblicità.

Il suo slogan, Fatto o come piace a noi Italiani, come tutti gli slogan, e come quello della Scavolini, non vuole dire nulla, ma è solo un “decoro” di parole che ha la funzione di propaganda.

Su internet, c’è uno scambio interessante fra un lettore e l’azienda che discutono sul messaggio della pubblicità,
http://www.ilfattoalimentare.it/tonno-palmera-immagine-etichetta-trancio-intero-interno-briciole-risponde-azienda.html
per comprendere luci e ombre del mondo della réclame, che credo sia uno dei fenomeni più importanti degli ultimi due secoli (in particolare in Italia ben compreso dal principale attore politico degli ultimi vent’anni).

Conoscendo la pubblicità, non potevo non cogliere la relazione fra Palmera e Palmira, visto che la seconda, dallo scorso maggio, è su tutti i giornali.

Come studente di Storia Orientale all’Università di Bologna, andai nel 1988 in Siria e visitai Palmira, alloggiando all’hotel Zenobia, un albergo fatiscente di epoca coloniale.

In giro c’erano solo ritratti del presidente Assad, vecchie macchine degli anni 50, come a Cuba, e qualche casco blu, nessun turista. Nell’88 in Italia pochi sapevano cosa fosse l’Islam, la Siria e soprattutto, a parte i seguaci di Sabatino Moscati, grande divulgatore dell’archeologia, Palmira.

Ora, che il distratto Occidente, in pochi giorni, abbia assunto Palmira, un sito archeologico remoto da turismo e interesse, quasi come caposaldo della nostra civiltà e memoria, l’ho trovato strano e bizzarro. Mesi fa il noto archeologo Paolo Matthiae, scrisse un articolo sul rischio che corriamo se fosse distrutta Ebla, la città a cui ha dedicato una vita. Ho trovato interessante questo strano incontro -e un po’ forzato- fra i terroristi del presunto Califfato, l’archeologia e l’opinione pubblica. Oltre alla questione del mercato illegale, degli interessi e della banale e orrenda furia distruttrice, i guerriglieri dell’ISIS hanno capito che fa quasi più notizia decapitare una statua antica che una persona. D’altra parte sui nostri media ad ogni terremoto (L’Aquila, Nepal) leggiamo prima la lista della perdita dei monumenti che quella delle persone. E quante volte sulla crisi greca sono state accostate immagini di vasi antichi e la facciata del Partenone. Palmira, da un ammasso di pietre polverose e qualche colonna, nel deserto siriano a 200 km dall’Eufrate, si trova improvvisamente in prima pagina sui nostri giornali. Spontaneamente ho associato i due nomi, così simili, e cosi diversi, ma che entrambi fanno parte da decenni della mia cultura personale, del mio immaginario, della mia esperienza.

Alla fine ho proposto questa immagine che poi si è connessa ad altre questioni a cui non avevo pensato: l’importanza del tonno nella cultura del territorio e che fino a pochi anni fa Palmera era prodotto proprio in Sardegna e non da ultimo la questione “Italiani”, visto che sull’isola ci sono più bandiere coi quattro mori che il tricolore…

Qulcuno mi ha fatto notare che l’opera è equivoca.

Certo è un’opera che potrebbe essere letta in modo equivoco.

Sono nato e cresciuto in una famiglia borghese con una cultura ambigua, che poi, credo, sia quella del nostro Paese. Anzi si potrebbe dire che proprio l’ambiguità è uno dei tratti distintivi della storia Occidentale che oscilla fra il passato Ebraico-Cristiano e la sua secolarizzazione.

E forse proprio questo grande equivoco fra essere post-cristiani che ci mette spesso in crisi e mette ancora più in crisi gli islamici radicali che non capiscono il nostro mondo che ai loro occhi appare equivoco e ambiguo.

Noi però, tutto ciò, lo chiamiamo anche libertà.

 

 

Arte e Buon Gusto

L’articolo di Astrid Serughetti [1] sulla chiesa di Bergamo e l’arte sacra, sollecita qualche riflessione.

Al funerale di mio nonno avevo 16 anni, era in una chiesa del centro a Bologna. Ero in prima fila con la vedova, mia nonna, del resto non c’erano altri uomini in famiglia. Ricordo le parole del sacerdote e l’atmosfera retorica, pesante, collosa, in un ambiente insalubre, greve e ambiguo.

Ero sconvolto e confuso, non avrei mai pensato che mio nonno sarebbe potuto morire.

Ventiquattro anni dopo, nel 2007, questa volta all’ultima fila delle panche, partecipai a quello di mia nonna. Si tenne al Cimitero della Certosa, nella chiesa di San Girolamo, che celebra più funerali al giorno, un inesorabile via vai di casse, persone con gli occhiali da sole e fiori.

Ho pensato spesso al mio funerale. Ho sempre pensato che non vorrei finire in chiesa.

Ho sempre immaginato uno spazio per il mio funerale.

Al Link Project di Bologna, in una stanza interrata come un’aula bunker, presentai l’ambiente totale Sala d’Attesa all’inizio del 1998 e poi nel 2003 La mia casa è la mia mente, che invase tutto lo spazio alla Galleria Maze a Torino. Entrambi, in qualche modo, potevano ospitare il mio funerale.

Ma avevo bisogno di un luogo permanente, non si sa mai quando si muore.

Nel 2006 visitai il Pantheon della Certosa di Bologna, luogo usato per i funerali laici.

Per la verità c’èra un grande crocifisso dietro una tenda, che era chiusa o aperta a seconda della volontà dell’ospite. Delle sedie pieghevoli e una lampada a ioduri che illuminava la sala completavano l’esiguo arredo.

Fino al mio progetto, era l’unico luogo per celebrare un funerale laico nella rossa Bologna.

Nel giugno 2008 Sala d’Attesa aprì al pubblico, inaugurata dal Sindaco Sergio Cofferati. Il progetto fu supportato solo da finanziamenti privati trovati con grande difficoltà e che non sono bastati per realizzare nemmeno un impianto di riscaldamento (Bologna d’inverno è gelida). Io stesso non sono stato pagato e ho avuto solo rimborsi spese.

L’opera, essendo all’interno di un Cimitero Monumentale, è stata progettata e realizzata, ma non è permanente per volere della Soprintendenza. Del suo destino si deciderà alla scadenza della concessione, cioè dopo 10 anni.

Durante l’esecuzione il Comune mi chiese se potevo anche prevedere i simboli delle più importanti religioni, tipo kit sostituibile per ogni scenario, ma mi sono sempre rifiutato: e mi sono tenuto alla larga da sirene sante e sacre; nelle faccende terrestri di Dio, in tutte le sue declinazioni, con cleri e adepti vari, non mancano mai due ingredienti: potere e soldi. E la disarmante situazione di luoghi senza colori religiosi è ben descritta dalla Uaar (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti: http://www.uaar.it/laicita/funerali-civili).

Le dichiarazioni sull’arte da parte di due papi, Wojtyla e Ratzinger, nelle rispettive Lettera agli Artisti del 1999 e 2009, rivelano il pensiero della Chiesa.(http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/letters/documents/hf_jp-ii_let_23041999_artists_it.html).
In particolare il primo scrive:
…sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione.

Il papa finisce poi con: Vi accompagni la Vergine Santa, la « tutta bella » che innumerevoli artisti hanno effigiato e il sommo Dante contempla negli splendori del Paradiso come «bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi».

Appare chiara la distanza siderale fra l’artista contemporaneo consapevole e queste parole tanto ingenue quanto piene di pretese. Piaccia o no l’arte è in tutti i modi religiosa, a meno che non sia blasfema.

È di pochi giorni fa, la lettera dell’Arcivescovo di Torino (http://www.diocesi.torino.it/diocesi_di_torino/in_primo_piano/00050682_Mons__Nosiglia_sul_manifesto_LGBTE.html) sull’immagine di una fotografia della mostra LGBTE a cui il Comune ha dovuto ritirare il patrocinio. Lo scritto vuole definire cosa è arte e cosa non lo è. Oltre a ergersi a paladino della difesa della donna, il prelato elegge l’italico Buon Senso e Buon Gusto come metro di giudizio per l’arte.

Il testo è delirante, scritto da una persona non informata e profondamente ignorante.

L’opera degli artisti che hanno operato alla chiesa del Nuovo Ospedale PG23 di Bergamo, è quindi arte sacra. Arte in linea col pensiero della Chiesa che considera come arte solo quella che si raffronta col Vangelo, l’inevitabile appello al Mistero di Wojtyla.

Un’arte non libera, fortemente indirizzata, che deve rispettare un fine e un’estetica.

Un’arte comunque ben supportata economicamente da banche che sostengono il Buon Gusto. È successo per il Padiglione Vaticano all’ultima Biennale di Venenzia, mentre quello Italiano ha dovuto chiedere soldi con una sottoscrizione pubblica, succede per questa chiesa di Bergamo. L’artista che lavora per la Chiesa è supportato da poteri forti con una visione totalitaria.

La Sala d’Attesa della Certosa di Bologna non ha fondi per un decoroso mantenimento, dal terremoto del 2012, poi, è chiusa per sicurezza e riaprirà fra un paio d’anni.

Non vorrei nel frattempo mancare e contro la mia volontà essere esposto alla Via Crucis dell’artista di turno.

Questo scritto non è né una lettera né un testo, ma un’opera d’arte.

NOTE:
[1] Cfr. http://www.artribune.com/2014/08/arte-contemporanea-e-fede-inaugura-a-bergamo-una-chiesa-allavanguardia/

Il soggetto e le singolarità nell’arte

APPROFONDIMENTI / SPECIALE ARTE PUBBLICA

Un po’ di tempo fa Flavio Favelli mi segnala un suo testo su Sentimiento Nuevo (a cura di Davide Ferri e Antonio Grulli, edizioni MAMbo), antologia che raccoglie interventi tenuti nel 2013 durante un seminario nel museo bolognese. Favelli mi dice che ha preso una posizione molto netta sull’Arte Pubblica, «facendo anche nomi e cognomi». Lo leggo e penso che sia il caso di approfondire la questione, non solo perché condivido in parte alcune sue obiezioni, ma anche perché Favelli è un artista che lavora anche nello spazio pubblico e dunque la cosa si fa più interessante. Decido di mettere a confronto le sue tesi con quelle di un curatore molto attivo in questo campo, Marco Scotini. Flavio mi chiede di “entrare” nel dialogo e che sia io a rivolgere delle domande ad entrambi. Ecco il risultato di questo confronto, in cui entrano in gioco non solo riferimenti teorici, ma anche vissuti personali. Un vis-à-vis molto intenso, e a volte anche aspro (Adriana Polveroni, direttrice di Exibart).

Flavio Favelli: «Mi occupo di ciò che mi rapisce e che mi provoca piacere. E quello che mi rapisce è il rapporto fra gli oggetti che ho visto, gli ambienti dove ho vissuto e le immagini della mia mente. È un rapporto sicuramente non libero, incestuoso e ambiguo, ma mi provoca uno stato di forte eccitazione»

Marco Scotini: «L’idea di un’arte del soggetto è stata quella borghese e non potrà più essere tale. A meno che quest’idea si voglia forzare dentro un sistema neofeudale, come quello attuale, che cerca di ristabilire i soggetti e le procedure della vecchia arte. Al costo di investimenti finanziari e forme repressive ufficiali»

Flavio Favelli: «Ho dei sospetti quando sento artisti che operano per la società, per l’altro, per il pubblico. Si mira anche alla de-soggettivazione, una specie di fioretto per arrivare poi alla redenzione. Si tirano fuori virtù da catechismo che mirano alla figura dell’artista come intellettuale austero d’avanguardia, che sta sulla barricata tanto cara a certi ambienti di salotto. Che rifiuta l’essere autore e l’aureola dell’opera. Si de-soggettivizza il Maestro, ma non il conto corrente»

Marco Scotini: «Quando pensiamo a una nuova Arte Pubblica, questa non è più vincolata all’idea dello Stato e neppure all’idea di popolo che l’ha accompagnata. Allora, possiamo parlare di un’arte delle singolarità piuttosto che di un’arte della de-soggettivazione»

Marco Scotini: «Non c’è un’estetica scorporabile dal politico. La grande eredità di Kant non sta nel tenere separati gli ambiti della fisica, dell’etica e dell’estetica (cosa irriproponibile), ma di fare dell’estetica, delle sue regole facoltative, la chiave di volta della costruzione delle soggettività. È, in sostanza, la cura del sé»

A.P.: Le vostre posizioni rivelano due idee dell’arte radicalmente antitetiche che cerco di presentare attingendo da vostri testi e opere. E che sintetizzo così: una, quella di Favelli, che rivendica la singolarità e addirittura l’autoreferenzialità dell’arte. E l’altra, quella di Scotini, che invece si basa su un assunto plurale: i “Molti”, come fondamento di un’arte nella sfera pubblica. La prima domanda è obbligata: perché secondo te, Flavio, l’arte è privata?

Flavio Favelli: «Credo di non potere uscire dalla mia esistenza, posso parlare solo per me, anche se nessuno vive in una torre d’avorio. Posso dire che lo scomporre, il ricomporre, il mettere insieme, distruggere e ricostruire fanno parte di una pratica quasi quotidiana, perché prima è psicologica e poi artistica. Distruggere il passato al fine di preservarlo (1) è un processo che mi sta accompagnando da tanto tempo. Ho iniziato da bambino, ho iniziato con raccogliere i cocci, perchè qualcosa si era rotto. E il soggetto sono gli oggetti che sono eterni e che hanno un forte potere. Certo che è finito tutto da un pezzo, ma io credo ancora nell’opera, che non sempre è distinta dall’oggetto, già il mio sguardo sull’oggetto è una fase dell’opera. Oggi si vuole ancora di più mettere in crisi l’opera, ma solo perchè non si riesce più a vederla o non la si vuole vedere o perché non si è più capaci. Anche quando ho creato ambienti per un pubblico e una funzione, il mio primo proposito è stato sempre quello della mia esigenza personale, che è quella di indagare il mio passato perchè provoca in me piacere. Mi occupo di ciò che mi rapisce e che mi provoca piacere. E quello che mi rapisce è il rapporto fra gli oggetti che ho visto, gli ambienti dove ho vissuto e le immagini della mia mente. Oggetti che hanno un destino eterno diversamente da me. È un rapporto sicuramente non libero, incestuoso e ambiguo, ma mi provoca uno stato di forte eccitazione. È un piacere anche complesso, doloroso ed dolcissimo allo stesso momento. Investe la mente e il corpo e allaga la psiche. Ho l’impressione che suoni riprovevole provare piacere, sembrerebbe anzi un tabù dell’arte. Per cui ho dei sospetti quando sento artisti che operano per la società, per l’altro, per il pubblico. Si mira anche alla de-soggettivazione, che potrebbe essere vista come una specie di fioretto per arrivare poi alla redenzione. Sono propositi alti, nobili, ideali, ma ideologici e contradditori. Si tirano fuori virtù da catechismo che mirano alla figura dell’artista come un intellettuale austero d’avanguardia, che sta sulla barricata tanto cara a certi ambienti di salotto, che rifiuta l’essere autore e l’aureola dell’opera, ma nello stesso momento vuole la scena e mai si oppone al mercato. Si de-soggettivizza il Maestro, ma non il conto corrente. In una ultima intervista che ho letto l’artista Gian Maria Tosatti che sentenzia: “Non sarebbe errato, quindi, dire che il mio lavoro non consiste nel fare opere, ma nel farle generare da ogni individuo”. (2) Sparisce l’autore, l’artista è solo un mezzo, una specie di martire che immola la sua opera per il prossimo, quasi una transustanziazione. Ma questo è Cristo e credo che non ci sia posto per Cristo nell’arte contemporanea che è incarnata col potere, l’economia, col Nemico, con una visione del mondo che è piramidale. Il momento della creazione dell’opera per me è devastante, è lo scontro fra i mondi della mia mente; gli “effetti visivi” che molti artisti rigettano sono essenziali, fondamentali. Passare il tempo con gli oggetti è vitale, anche se sono imprendibili».

Come reagisci, Marco, a questa idea di privatezza ma, direi di più, a questa rivendicazione forte della soggettività?

Marco Scotini: «L’idea di Flavio non è sbagliata per principio, è solo un po’ ‘tolemaica’, cioè storicamente arretrata. Come in tutti i grandi periodi di trasformazione possono continuare a esserci delle sopravvivenze. Che intendo dire? Che l’arte e la cultura sono sempre produzioni storicamente determinate e il concetto di un’arte del soggetto, di un’arte “interiore” (psicologica e privata), ha fatto il suo tempo. Ha accompagnato l’ascesa e il declino di una classe sociale precisa. Se ci interessa ancora l’arte come vettore di libertà, desiderio e innovazione non potremo più pensarla come “interiorità”. Da un lato: cos’è l’interiorità al tempo di Facebook e di Twitter? Dall’altro: non si vorrà per caso pensare che l’introduzione dei mercati finanziari nell’economia artistica abbia a che fare con l’arte in un senso strutturale? L’idea di un’arte del soggetto è stata quella borghese e non potrà più essere tale. A meno che quest’idea si voglia forzare dentro un sistema neofeudale come quello attuale che cerca di ristabilire i soggetti e le procedure della vecchia arte al costo di investimenti finanziari e forme repressive ufficiali. I van Gogh e gli Artaud (vere essenze di quell’idea) non possono più esserci, ma neppure c’erano al tempo di Leonardo o Simone Martini. Il problema non è solo quello del soggetto-artista ma di tutte le istituzioni che attorno gli sono state create. Queste funzioni oggi (come il museo, ecc.) sono integrate e non costituiscono un problema per nessuno. Anzi potremmo dire l’opposto. Se mai separano le funzioni intellettuali e creative dai loro concatenamenti, le interrompono dalla propria sperimentazione, le sottraggono all’immanenza della composizione sociale per iscriverle nella valorizzazione e nel controllo esercitati dall’industria culturale. Allora che cos’è un’arte “dei e per” i molti? Non dunque un’arte per il popolo o un’arte sociale, ma un’arte dei molti. Potremo pensarla ancora dentro il suo schema occidentale e moderno? Le tradizioni dell’arte africana, quelle islamiche, quelle oceaniche come ci appaiono oggi? Queste culture ormai dislocate, le dovremo continuare a ricondurre, come Picasso, alla dimensione del soggetto? Oppure c’è dell’altro a venire?».

Un’altra critica che Favelli fa all’Arte Pubblica è rivolta al “dogma” del site specific. Ce la puoi esporre?

F.F: «Oramai nei comunicati stampa appare questa specie di sigillo sinonimo di qualità: appositamente realizzato per l’occasione. Insinuando quasi la superiorità di questo tipo di opere dalle altre progettate senza contesto. Insomma, se non si realizza per l’occasione, per l’ambito e per il luogo, l’opera non è così interessante. Questo vuole dire che non si vuole più credere nell’opera, vista solo come un monolite, avulso dal milieu, che è il solo che può darle vita. Si cerca di “attivare” l’opera, renderla fruibile, renderla partecipata. Ma questa per me è superficialità. Pochi oramai parlano dell’opera. C’è anche chi esorta a fare opere più comprensibili. Mi sono accorto che ho creato molte opere che non ho mai esposto, che ho raccolto molto materiale che giace ancora nei miei spazi, che per me sono delle anticamere, che contengono, come in una tomba egizia, molte immagini che oscillano fra la mia mente e questa specie di archivi. È fortissima l’ambizione di esporre al pubblico, ma è un pubblico che non è un fine, ma solo un mezzo che forse ha solo la funzione di decretare la fine della vita dell’opera, ma solo perchè ne sto già pensando un’altra. Il pubblico serve per fare il funerale all’opera. Gli oggetti sono eterni, non come le opere. L’opera è un oggetto trasformato che è depositaria di un enorme potenziale metaforico e immaginale e le metafore sono più grandi della realtà. Oggi si preferisce guardare oltre, attorno e con intenti sociali, perchè il site specific è sempre legato comunque ad un fine propositivo, come ad esempio di chi vuole Dio nell’arte. L’arte è estranea ai bisogni. È un pensiero fortemente tradizionale pensare che l’arte abbia un significato positivo, viene in mente Tolstoj…Il Vaso di Pandora dell’arte contemporanea, per dirla con Mario Perniola, è arte, meta-arte, antiarte insieme, chi vuole portare questo mondo in una direzione impegnata va fuori tema».

Qual è invece per te, Marco, il senso del “site specific”? 

M.S.: «Come sai, Adriana, negli ultimi anni, abbiamo cercato di integrare e trasformare questa importante idea. Abbiamo cercato di estenderla a tutte le latitudini. Con i miei amici l’abbiamo definita prima “audience specific”, poi “fight specific”. Non potendoci più ancorare a un luogo fisico, sono apparse all’orizzonte queste moltitudini contestuali che sono state la vera innovazione culturale, sociale e linguistica. Le abbiamo identificate come il vero produttore e ricettore di un’arte in senso nuovo. Queste moltitudini si sono trovate assieme per la prima volta nella storia: non le legava più un territorio, una religione, un’ideologia politica. In un’accezione inattesa ci hanno insegnato a ridefinire lo spazio, a vivere il tempo, ad inventare nuove relazioni sociali, semiotiche e culturali. Altro che artisti: questo general intellect era un super-artista collettivo, plurale, a n facce, a n corpi, a n voci, a n sguardi. Ci sembrava incatturabile. Ora stanno cercando di bloccarlo con tutti i mezzi. Ma non ce la faranno».

Come abbiamo visto, Flavio critica anche un altro cardine dell’arte realizzata con una tensione pubblica: la “de-soggettivazione”. Ne parla a proposito della posizione assunta da Gian Maria Tosatti e da Claire Fontane. A prima vista la “de-soggettivazione” sembrerebbe sposarsi all’idea dei “Molti” di Marco che evidentemente va oltre il criterio della soggettività. Ce la puoi spiegare, Marco?

M.S.: «Che vuol dire oggi farsi riconoscere, essere soggetti identificabili? Fare la spalliera della sedia alla maniera di Philippe Stark piuttosto che secondo il look Ron Arad? Tutta questa idea dello stile l’ha liquidata (e molto in fretta) il design e il fashion brand. Per il resto c’è in cantiere tutta un’altra idea di pensare noi stessi che non passa più per il soggetto moderno. Abbiamo parlato di soggettività che è qualcosa di totalmente differente. L’identità oggi è buona solo per i dispositivi biometrici di controllo e di sicurezza. Quando pensiamo a una nuova Arte Pubblica, questa non è più vincolata all’idea dello stato e neppure all’idea di popolo che l’ha accompagnata. Allora, possiamo parlare di un’arte delle singolarità piuttosto che a un’arte della de-soggettivazione. Comunque quest’arte è de-soggettivizzatta, se è vero che si è sbarazzata del soggetto (con i suoi doveri moderni, di essere sempre uguale a se stesso). Ma questo non vuol dire che è un’arte inqualificata e inqualificabile. Tutt’altro. È un’arte delle singolarità».

Flavio attacca anche una certa pratica artistica, oggi piuttosto in voga, che si riassume nella “citazione”. “Molti artisti oggi – scrive in La rivoluzione dei megafoni (Sentimiento Nuevo) – sono quasi studiosi, ricercatori, esploratori e viaggiatori, non più autori. Sono meri traduttori: danno voce e nemmeno la loro”. Che cosa pensi di questa pratica, Marco?

M.S.: «Oggi l’artista si è trasformato nello storico (Narkevičius o Zaatari), in geografo (gli Atlanti Eclettici), in ricercatore che lavora con gli archivi. Lo sfondo di molta parte del dibattito recente sulle relazioni tra arte e politica corrisponde all’erosione dell’orizzonte utopistico dell’arte, su cui era fondato il suo potere di generare contro-concetti. Il potere dell’arte sta nella capacità di immaginare cose in maniera diversa, nella sovversione e trasgressione dei confini di una modernità disciplinare. Sotto i parametri del regime disciplinare, l’immaginazione utopistica era alimentata dalle idee di trasgressione, sovversione ed emancipazione fondate su di un “fuori” e un “oltre”. Queste idee hanno formato un’economia dell’immaginario, che fondeva immaginazione creativa e istanze politiche emancipatorie. Oggi, al contrario, dobbiamo re-immaginare ogni cosa in ogni campo».

Un problema che mi pare sotteso all’intervento di Favelli riportato in Sentimiento Nuevo è di ordine esperenziale. E mi spiego: Flavio non accetta la posizione, in questo caso espressa da Lara Favaretto, secondo cui la vera arte è quella che “innesca dubbi e discussioni”. Mentre tutta l’altra sarebbe pressoché inutile. Intanto, Marco, vorrei conoscere la tua posizione a questo proposito.

M.S.: «Qui siamo ancora in un terreno moderno. È chiaro che Godard è un artista perché s’interroga in ogni lavoro su cos’è il cinema. Ma questo era possibile perché c’era il cinema classico che, in un certo senso, decostruisce. Ma oggi quali sono le nostre istituzioni? Come fa Hito Steyerl, il filmmaker è attento alle classi di immagini in circolazione (immagini ricche, immagini povere), alla loro velocità di circolazione, fuori dell’istituzione. Quelle immagini che tutti noi produciamo ogni giorno e riceviamo ogni giorno: sul cellulare, l’Ipad, you tube. Interveniamo su ciò in cui ognuno (dal Cairo a Roma) lavora ogni giorno. Ecco ancora quest’Arte Pubblica del general intellect».

Flavio rivendica “l’esperienza reale, la vicenda vissuta”. L’arte ha bisogno di poggiare su un’esperienza reale che è necessariamente privata. Anche Scotini rivendica in qualche modo il carattere esperenziale dell’arte, ma spostando il soggetto dall’uno ai Molti, scardina di fatto l’idea stessa di esperienza. È così?

M.S.: «Se vogliamo con ciò intendere un’esperienza contemplativa, sì: non è più così. Già Benjamin parlava della “percezione distratta”. L’intensità c’è ancora, ne abbiamo più bisogno che mai. Ma questa non passa con l’interiorità. Ero qualche giorno fa a Istanbul con Vasif Kortun (il direttore di Salt) e mi diceva della grande intensità provata da tutti con Gezi Park. “Una comune di pochi giorni” mi diceva Vasif».

Inoltre, a questa idea di esperienza plurale Marco lega una possibilità (quasi “forte” direi) dell’estetica: “l’essere contemporaneo, sganciato da tutte le forme di determinismo che lo collegavano ad ambiti di appartenenza, è chiamato ad autodefinirsi e a negoziare la propria individualità attraverso regole facoltative”. Quindi, sintetizzando molto, compie un’azione estetica. Dove si recupera, se si recupera per te, Flavio, la possibilità estetica? Te lo chiedo perché facilmente si sarebbe portati a pensare che un’arte singolare, privata si ponga il problema estetico.

F.F.: «Forse posso dire che non mi pongo un problema estetico, ma una questione che viene prima di quello estetica, quella esistenziale. Ma voglio essere ancora più chiaro: il mio problema è del significato, cioè voglio ricostruire tutte le immagini che ho creato spontaneamente nel mio passato, quando non avevo consapevolezza artistica, per il semplice motivo che amo solo quelle e vogliono dire per me tanto. Mi seducono perché hanno un sapore diverso. E allora vuole dire proporre e riproporre cose nuove per fare vivere meglio le vecchie e respirarle. E quando le respiro a pieni polmoni sono semplicemente più felice e in quei momenti potrei anche morire. Certo è una felicità effimera, ma è la mia grazia in una specie di eterno ritorno».

A Marco chiedo di esprimere meglio questa idea estetica dell’arte nella sfera pubblica, che evidentemente va oltre i criteri kantiani.

M.S.: «L’estetico appunto. È una parola nuova e straordinaria per comprendere l’attualità. Io ripeto sempre che la contemporaneità è una produzione estetica. Qualche tempo fa si diceva con Gerald Raunig che tutti i pensatori della modernità partivano dalla politica per arrivare all’estetica. Il primo è stato Kant: la Critica del giudizio è l’ultima. Questo vale anche per Sartre, per Adorno, per tutti gli altri. Per noi oggi è diverso. Non c’è un’estetica scorporabile dal politico. In che senso? La grande eredità di Kant non sta nel tenere separati gli ambiti della fisica, dell’etica e dell’estetica (cosa irriproponibile), ma di fare dell’estetica, delle sue regole facoltative, la chiave di volta della costruzione delle soggettività. È, in sostanza, la cura del sé e l’ultimo Foucault ce l’ha insegnato. Da allora se esistono nuove soggettività, esistono a patto di essere una costruzione estetica, una sperimentazione, un’innovazione».

NOTE:
(1) Chris Sharp, Non proprio come me lo ricordavo, in Flavio Favelli, a cura di Alberto Salvadori, Mousse Poublishing, 2013
(2) Gian Maria Tosatti, intervista, Artribune (2013)

 

La mostra che non ho visto

A fine maggio scorso apriva Viceversa la mostra del Padiglione Italia alla 55° Biennale di Venezia. Il curatore, Bartolomeo Pietromarchi, ha presentato un progetto con 14 artisti, di cui due morti. Il Padiglione, adiacente a quello della Cina, è stato diviso in sei spazi, ognuno per due artisti. L’ultima coppia, i moschettieri Golia e Xhafa, esponeva all’esterno, nel giardino interno al Padiglione, detto delle Vergini.

Sono arrivato a Venezia la domenica prima dell’inaugurazione e faceva freddo per un fine maggio. La serata prevedeva una cena a casa di N.N. con vista sul Canal Grande. Ricordo bene i gamberi scottati tiepidi e consistenti. Alla fine credo che nel mio rapporto col cibo la questione della consistenza sia decisiva. A Flavio, da mangiare, piacciono le cose dure diceva Tosca, la mia nonna materna, con cui ho un rapporto ancora ambiguo, irrisolto, anche se è morta nel 2007, pochi giorni prima della mia mostra a Torino. I brodi, le zuppe, i caffellatte, le creme, i sughi, che sono sempre caldi, mi hanno sempre disgustato, forse per quel loro carattere originario, organico, appiccicoso e falsamente rassicurante. Il tempo, quando stavo con lei, era scandito dal cibo, pochi possono capire cosa vuole dire per una donna bolognese, nata del 1909 in via San Vitale, osservante e praticante la tradizione, il cibo.

Bevo acqua, il giorno dopo sarei andato all’Arsenale.

Lunedì mattina ho un’intervista molto lunga, servirà per un film-documentario. Riesco a dire che amo i neon e i lampadari con le gocce perché da bambino mi hanno sempre accompagnato. Insieme ai pavimenti, i lampadari sono stati sempre al centro della mia attenzione. Ho creato spesso opere con pavimenti e lampadari forse per continuare a mantenere queste immagini così dense. Si guarda per terra o in alto per evitare di vedere quello che sta in mezzo.

Da soli si osserva, si gioca spesso con gli oggetti e le immagini e io sono stato spesso solo. Gli oggetti rimangono e si portano addosso troppe cose che se riconosciute segnano un’intera esistenza.

I neon, li chiamo ministeriali, erano dappertutto: negli ospedali, nei tribunali, a scuola, negli uffici. Li fissavo e poi chiudevo gli occhi e poi li riaprivo e la barra bianca luminosa rimaneva come una cicatrice fra il buio e il mondo. Le barre bianche nel buio degli occhi chiusi mi facevano compagnia perché era tutto lungo, noioso e pesante.

Sono riuscito a dire, in modo un po’ sconnesso, almeno questo nell’intervista per il film.

Settimane fa l’ho visto per la prima volta, presentato a Santo Spirito in Sassia a Roma.

È sempre difficile parlare di altri artisti, non so se mi è dispiaciuto o se ho apprezzato il fatto che nessuno abbia parlato di questioni personali riguardo la propria opera. Con due artisti defunti, due hanno scelto il silenzio, Bartolini ha letto un comunicato, e gli altri mi hanno annoiato con le loro pretese pubbliche, politiche e sociali.

*  Flavio Favelli è stato invitato da Gianni Piacentini a raccontare una mostra che non ha visto per la rivista on line Art a Part of Culture (http://www.artapartofculture.net/2014/01/17/la-mostra-che-non-ho-visto-49-flavio-favelli/)

La situazione

Il 30 novembre scorso sono stato a trovare mio padre. Da un anno a questa parte ci vado circa una volta al mese. Prima ci andavo una volta ogni tre mesi. Oramai ci telefoniamo poco, una volta ogni quindici giorni. È tanto che non gli scrivo, da quando è venuto l’euro poi non gli ho mandato nemmeno le cartoline, forse perché sono legato a quelle che gli spedivo quando ero bambino coi francobolli della Turrita o Siracusana coi colori densi, netti [1].

Termina così Mario Fortunato il suo scritto “Il vestibolo nudo” nel 2005: Ed è appunto al padre, a questa figura sgranata ma anche straordinariamente nitida, che tutta la ricerca di Favelli pare rivolgersi [2].

Ho riletto spesso il suo testo. Dopo non ho più rivisto Mario, forse che ci siamo tenuti a distanza? Come se gli avessi offerto un fianco e lui avesse capito.

Simone Menegoi mi telefonò poche ore prima di mandarmi il testo per questa pubblicazione e mi disse che potevo cambiare o togliere certe parti, evidentemente c’erano cose che mi avrebbero potuto colpire o che non avrei avuto piacere che fossero pubblicate.

Lessi di un fiato. Gli dissi che andava bene così. Rimasi impressionato da una parte:

  1. mi parlò dell’evento traumatico che aveva spezzato in due la storia della sua famiglia: la malattia psichica di suo padre… Mi diceva queste cose pacatamente, con un distacco consumato, non privo di sfumature ironiche. Mi diede l’impressione di averle già raccontate molte altre volte.

È vero, le ho raccontate con consapevolezza molte volte e questo dalla fine degli anni novanta. Per circa venticinque anni non ne avevo mai parlato con nessuno con una certa chiarezza.

Nemmeno con mia madre, perché non si poteva parlare dell’aria che si respirava. Con lei quando lo si nominava si diceva Manlio e non mio padre, lei lo chiamava Manlio non suo marito. Ottenne il divorzio e l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota, sulla sua carta d’identità c’è scritto nubile, per lo Stato sono figlio di ragazza madre da quando avevo dieci anni.

Come tutte le volte che vado a trovare mio padre sono partito verso mezzogiorno per Gavinana, frazione di San Marcello Pistoiese. La Montagna Pistoiese è un mondo duro e spesso triste sempre uguale da quando ero bambino tranne che per le donne slave, polacche e moldave che in questi ultimi anni hanno invaso il territorio.

Mio padre vive in un Centro Socio Sanitario da più di una decina d’anni. Questa volta l’ho trovato stanco, con difficoltà a camminare e curvo.

Si è sorretto a me appena mi ha visto e ha subito addentato un pezzo di pizza che con due pezzi di focaccia era tutto quello che avevo portato e che comunque mi aveva chiesto.

Mangiava avidamente, l’arcata gengivo-dentaria quasi usciva dalla bocca – come un cane rabbioso – per non sporcarsi di pomodoro o di unto, ma è come se si fosse scordato che doveva anche camminare e le gambe hanno ceduto, non d’un tratto, ma a poco a poco come se si stessero dolcemente sgonfiando.

Avvertito il peso che aumentava sul mio braccio ho serrato i muscoli e l’ho sorretto.

Sostenere un peso quando il braccio è alzato sollecita soprattutto il deltoide oltre ai dorsali: le braccia sono state sempre il mio punto debole e questo era l’esercizio più doloroso e noioso quando andavo in palestra, alla Atlas in via Oberdan a Bologna. Appeso all’avambraccio, come uno strano animale dinoccolato a un ramo, Manlio Favelli ha continuato ad addentare la preda/focaccia come una bestia feroce o un bambino arrabbiato o come un matto perché mio padre è matto da tanto tempo. Non danno scampo i termini della perizia psichiatrica del 16 gennaio 1976:

soggetto eristico, logorroico, con interpretazioni non adeguate della realtà, soggetto a sindrome fobico-ossessiva con imponenti note ansiose ipocondriache, soggetto a sindrome distimica in fase ipomaniacale, fino alla finale diagnosi di sindrome delirante di tipo schizofrenico e schizofrenia paranoidea.

Spesso mi immergo nella grande quantità di documenti, dichiarazioni, relazioni, certificati del tribunale, della Magistratura, del Ministero, di avvocati, giudici, medici, psichiatri, tutori e funzionari. Chili di carte in carta velina, intestata, timbrata, bollata, protocolli, ricevute e fotocopie, tante fotocopie in carta chimica, lucida, grigia chiara. E poi tante lettere e cartoline mai partite, viaggiate, tassate, vidimate dal carcere o dal manicomio.

Babbo, stai per cadere.

L’ho sempre chiamato babbo. Babbo lo rassicura e rassicura soprattutto la situazione, ristabilisce i ruoli. Babbo per lui è come un richiamo della foresta, conferma un’idea e uno stato spesso messa in discussione dalla Situazione. La Situazione è peggiorata per via dell’ambiente di lavoro, le Ferrovie dello Stato e poi i miei nonni materni, i suoi suoceri, che hanno messo contro di lui anche mia madre. Così la Situazione è esplosa definitivamente. Per chiarirla, esaminarla, discuterne e risolverla mio padre ha lottato per quasi quarant’anni.

E per quasi quarant’anni ho dovuto fare un doppio gioco come un agente 007 al servizio della mia sopravvivenza. Ho giocato, come si dice, di rimessa, per parare i colpi, ma anche barato e mentito, sviato, temporeggiato. Mia madre, amante della Storia Classica, mi ha sempre parlato di Quinto Fabio Massimo console romano, detto il temporeggiatore.

Ho passato così trentotto anni cercando di rimandare ogni cosa. Da bambino dovevo fare i compiti, andare in gita con la mamma, andare al mare o andare a trovare i nonni, da grande c’era l’Università, gli amici, i viaggi, la meritata estate e poi il lavoro. Ad ogni iniziativa di mio padre rispondevo cercando di impastare tutto di burocrazia, carte che non si trovavano, permessi scaduti, perizie non confermate, inettitudine dei giudici, lentezza delle Poste, tradimento della mamma, inefficienza del nostro avvocato, intransigenza del loro avvocato. Già, il nostro-loro avvocato. A volte alleato, a volte nemico.

Da quando avevo sette anni il rapporto con mio padre è stato ambiguo. Era il male che aveva offeso mia madre, ma al tempo stesso io ero il suo angelo. Se l’era presa con tutti tranne che con me. Anche se non poteva – era interdetto – veniva a Bologna per cercarmi e io fuggivo.

Mia madre malediceva Basaglia che aveva aperto i manicomi. Che ne sapeva Basaglia dei matti, che ne sapeva di mio padre?

Lo sorreggo fino al letto, non è pesante oppure sono i miei muscoli che si sono attivati, quando sono in emergenza i muscoli tirano di più, in certi momenti si diventa più forti, inaspettatamente più forti.

Il 6 febbraio 1978 mio padre si arrampicò al primo piano di Via Guerrazzi dove abitavo.

Mi ricordo tutto molto bene. Lo portarono via tre agenti di polizia con le pistole in pugno dopo avere sfondato la porta della mia camera, cercando di mantenere una voce calma e formale:

Signor Favelli, apra.

Nel 2001 feci una mostra alla Galleria Maze di Torino dove esponevo tre porte, quella della mia camera da letto, quella della camera di mia madre e quella del salotto che avevo preso dopo che l’appartamento era stato ristrutturato nel 1993. La mostra si chiamava Archivio. Nessuno le comprò, non mi ricordo nemmeno il prezzo, ammesso che ne avessero uno.

Spesso quando tornavo a casa guardavo la grande inferriata della finestra del piano terra che dava sulla strada. Mio padre si era arrampicato alla grata e poi si era tirato su con un colpo di reni per aggrapparsi alla ringhiera della porta finestra della mia camera del primo piano di un palazzo del 1600.

L’impressione di Simone è vera: mi diede l’impressione di averle già raccontate molte altre volte. Sì, ho tentato spesso di raccontare la storia mia e di mio padre perché questa storia mi ha segnato, raccontarla significa masticarla, diluirla, chiarirla, renderla manifesta e oliare i cardini di quelle porte.

Fino al letto, dicevo, lui si è messo a sedere continuando a mangiare.

Trema, dondola, fa dei movimenti ripetitivi, sembrerebbe Parkinson, del resto ha preso neurolettici per più di cinquant’anni, pasticche, capsule, pillole, in tutto più di un quintale di roba. Cento chili.

È la prima volta che lo vedo così malconcio e provato. È la prima volta che lo vedo innocuo.

Ma è anche la prima volta che ho forse tirato un sospiro di sollievo dopo trentotto anni.

Mio padre non sa che sono artista o forse sì, sono stato al solito sempre vago forse perché c’è stata sempre un’idea che siamo entrambi artisti. Forse perché lui si è sempre sentito artista e io perché sono suo figlio. Quando mi chiede: che si dice in giro? So che si riferisce ai circoli, agli ambienti letterari, alla poesia, come se fossimo ancora nell’ottobre 1967 a Firenze, quando scriveva poesie, la colazione coi bomboloni al bar, il cinema e soprattutto il tempo con mia madre.

Mio padre ha sempre vissuto come speciale il suo tempo, tutti i suoi momenti: quando si è artisti si vive sempre con un faro acceso addosso, un occhio di un dio dietro le spalle, lo sguardo del mondo che ti segue sempre, una platea seduta e composta sempre attenta.

Lo so bene perché ho tutte le sue agendine, le teneva in tasca, scriveva ogni giorno, da artista sapeva che doveva lasciare dei documenti per sé, per l’arte, per il tempo, per la platea. E biglietti, fogli, foglietti, retri di scontrini e ricevute di ristoranti, biglietti del bus, del treno, tutti scritti con data e ora come se ogni momento fosse quello decisivo.

Metto tutto per iscritto. Era questa la più grande minaccia che mio padre intimava al mondo intero.

Ogni giorno un commento, un nome di medicina da assumere, diversi nomi di donna, i film del cine e soprattutto Anna, mia madre.

Il 13 ottobre 1975 mi portò a Roma, era la prima volta per me, avevo quasi otto anni. Mia madre non lo sapeva e avvertì la polizia. Dormimmo all’hotel San Giorgio di via Amendola vicino a Termini, camera 406, fu l’ultima notte che ho dormito con mio padre. Capivo che c’era qualcosa di strano perché non avevo il pigiama, ma mi distrassi presto perché c’era un frigo-bar pieno di bibite. La mattina mio padre andò dal direttore e disse che siccome era un poeta non avrebbe pagato. Sul cartoncino dell’albergo c’è scritto: sono senza soldi e dietro il resoconto della nostra ultima serata:

2 Aranciate + 2 Pepiscola [3] + Zabov.

* Testo pubblicato in AA:VV, Flavio Favelli, Mousse Publishing, Milano 2013

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NOTE:
[1] Ho notato che da circa metà degli anni ottanta la grafica dei francobolli della Repubblica è cambiata, i francobolli risultano policromi, quasi fossero senz’anima oppure è semplicemente una mia impressione o la mia solita visione delle cose che non riesce a vedere in modo differente il mondo dopo la metà degli anni ottanta. L’opera L’imperatrice Teodora del 2011 è l’ingrandimento di una di queste cartoline.
[2] Mario Fortunato, Il vestibolo nudo, in Flavio Favelli, Vestibolo, Segno Associati, 2005.
[3] Mio padre scrive proprio così: Pepiscola anziché Pepsi Cola.

La mia casa è la mia mente

La prima volta che ho capito le vere esigenze della mia ricerca è stato quando ho presentato La mia casa è la mia mente a Torino nel 2003.

L’intento era chiaro, sgombrare il campo da riferimenti generalmente culturali non personali ed estranei alle mie immagini e alle mie urgenze. Volevo andare direttamente alla questione, al punto da dove tutto ha origine. La sentenza La mia casa è la mia mente venne fuori in seduta, ero davanti ad un televisore spento, da quella sedia a sdraio mi sentivo predestinato a raccontare quello che avevo vissuto, ero pronto a scendere nella miniera del mio passato.

Sono nato all’Ospedale Careggi di Firenze il 7 dicembre 1967 da madre di Bologna e padre di Pistoia.

Ricordo bene l’appartamento in via Montanelli era al primo piano e aveva un lungo corridoio. Un pulmino rosso mi veniva a prendere ogni mattina e mi portava a Fiesole all’asilo privato. Prima del trasloco per Bologna fissavo dal terrazzo i manifesti NO e SI del referendum del 1974 sul muretto di fronte casa con dietro un giardino verde scuro come tutti i giardini di Firenze. NO e SI, SI e NO. Andavo dietro alla poltrona e pensavo come scegliere: SI alle cose che amavo, NO alle cose che non mi piacevano. SI e NO erano due suoni ricorrrenti a casa anche se il MAI stava guadagnando terreno.

Firenze è stata sempre la città del conflitto per la mia famiglia. La mia Parrocchia era San Lorenzo delle tombe Medicee, andavo a catechismo perché lo voleva mia madre, non mi toglievo mai il cappotto. Il sacro, il santo e l’arte da subito erano così inesorabilmente intrecciati in un’alleanza complessa, pesante e autoritaria. Vicino c’era il carretto con la trippa, mio padre ci andava matto, mio padre era un eterno ragazzino, provava sempre tutto. Andammo a Bologna, prima in via San Vitale 104 dai nonni, un mondo a parte di cose borghesi e squisite, dove ogni cosa aveva un suo tempo e un suo posto e poi all’appartamento di via Guerrazzi 21, lunghissimo con tutte le stanze in sequenza, di fronte al DAMS.

Spesso la domenica andavamo a trovare gli zii, i fratellastri di mio padre a Pistoia, in via del Giglio e poi in via Verdi. Pistoia era una città immobile e un po’ triste, grigia, ma con immagini luminose come i pippi di San Bartolomeo, come il mercato con i porcini freschi sulle felci e il pane tondo che la zia Tina tagliava appoggiato al petto. La zia Tina, quando era giovane, aveva amato un partigiano che morì e da allora non volle più vedere nessuno. Si vestiva di blu e di nero come le donne del sud. L’altro zio, Filippo, sapeva disegnare benissimo soprattutto i cavalli, l’animale più nobile, ma anche più difficile, quando morì c’era un simbolo strano sul giornale era lo stesso che avevo visto in uno stendardo in un’aula dove mi aveva portato nelle nostre passeggiate in città nel silenzio assordante di Pistoia. A Pistoia non c’erano i turisti come a Firenze, era una città vuota con la piazza del Duomo e il battistero quasi abbandonati, non c’erano nemmeno i fedeli. In estate invece andavo coi nonni materni all’albergo Frankfurt a Riccione “dalle signorine” due sorelle senza marito che parlavano tedesco.

Il cinema a Riccione era Das Kino, dappertutto c’era la Löwenbräu, la birra con leone d’oro. E le grandi Mercedes beige dei tedeschi con la pelliccia sui sedili guidate anche dalle donne. Le maglie arancioni sul prato verde dell’Olanda nelle prime tv a colori dei bar di viale Dante, era il 1978 l’anno del Mondiale di Argentina, sapevo tutto perché avevo completato l’album delle figurine Panini, ma non avevo mai visto in tv l’arancione acceso dell’Olanda.

Da luglio a settembre – la scuola iniziava il primo ottobre – abitavamo a Pavana Pistoiese sopra Porretta Terme, in un villino degli anni trenta spettrale e un po’ isolato, alla fine di una lunga scalinata con dodici tigli e siepi di bosso. Il nonno materno la comprò per sfuggire al caldo estivo di Bologna. La casa di Pavana è sempre uguale con gli stessi oggetti e odori, un santuario custode della tragica memoria della famiglia. Tragica e mitica, perché viene da un mito che rigenera continuamente le mie immagini e i miei desideri di ritornare in quei tempi che sono passati. Rimangono i luoghi dove ancora tutto è vivo e acceso, dolente e maledetto. È un piacere increato, eterno, ambiguo con un forte senso di perdita, come quando i primi denti dondolavano per cadere e gli altri spingevano in un gioco di sangue amico.

Questo disperato tentativo di fare rivivere quei tempi originali è meno disperato a Pavana perché Pavana è come un tempio dove molto è custodito e dove quel tempo a momenti si può ancora vedere e sentire. Un tempo fatto di immagini, luci, suoni e soprattutto oggetti, ambienti e marche. Un tempo dolciastro, maledettamente pieno di bontà dei sensi, assuefatorio, ma anche crudele. Per via dell’isolamento, del giardino silenzioso e del suo microclima, la casa di Pavana era ancora di più il luogo della villeggiatura; tutto era più deciso e chiaro e anno dopo anno le immagini si intrecciavano in un grande poema di gesta ed episodi.

La casa di Pavana è un mondo psichico.

Ci torno ogni tanto, quasi una volta all’anno, per poche ore; è da più di vent’anni che non ci passo la notte.

In via Guerrazzi 21, un palazzo antico sulle mura medievali di Bologna, abitavamo al primo piano. Ora vado a trovare mia madre ma per me non è mai stato semplice via Guerrazzi 21. È tutto troppo pesante, ci ho passato 26 anni.

C’è un album con le foto del matrimonio dei nonni materni nel giardino interno del palazzo. Tosca con la calotta di piume bianche e un gran collo di pelliccia di volpe, Carlo in uniforme. Il giardino non è cambiato, c’è una grande magnolia e qualche grande palma, ma di un verde meno scuro di quelli di Firenze.

L’appartamento era grande quasi duecento metri quadrati e dal 1974 eravamo in due, mia madre ed io. La casa aveva i pianciti con la veneziana e i soffitti altissimi, uno era affrescato e mio padre aveva messo due faretti colorati uno giallo e uno blu su un ripiano sopra lo stipite della porta per dare un effetto scenografico. La mia Parrocchia era la Santissima Trinità, quartiere Santo Stefano, il quartiere ricco della città, il più a destra di Bologna. La facciata della chiesa era neoclassica, sembrava un tempio pagano e sotto al portico il pavimento era sempre lucido. Il parroco fece un grande auditorium con le poltrone in velluto rosso con le targhette di ottone con i nomi delle famiglie che le avevano finanziate. Una la comprò mia madre ma non mi ricordo se il nome fosse Franchini o Favelli. La scuola elementare e la scuola media erano di fianco in viale Dante e via Santo Stefano. La scuola elementare era la Giosuè Carducci, all’entrata c’era un’opera di bronzo dedicata al sommo poeta. La maestra che ebbi per quattro anni si chiamava Irene Baiesi, sempre in camice bianco come all’ospedale, col rossetto un po’ fucsia, capelli grigi raccolti, pantaloni grigi lunghi.

Mia madre mi veniva a prendere, mi ricordo le scarpe che indossava quando, appena fuori sulle scale, una sua conoscente disse: “Signora, hanno rapito Moro!”. Era il 16 marzo 1978, era freddo ma c’era il sole, indossava degli stivali neri con la zeppa come andava allora. Seppi da mia madre che la signorina Irene Baiesi s’impiccò tanti anni dopo nella sua casa in via Murri. Ho sempre immaginato che abitasse all’ultimo piano vicino alla Gelateria Capo Nord, una delle più in vista della città. Alle elementari e alle medie avevo sempre in borsa un barattolo di Citrosodina all’arancia perché spesso avevo male di stomaco. Mia madre insegnava alle scuole medie, le Rolandino de’ Passaggeri in via Santo Stefano. Le Rolandino, erano in un palazzo antico, le scale ripide e i soffitti altissimi. Per qualche volta la supplente in classe era mia madre che aveva un tono diverso da casa. Ora c’è un palazzo residenziale, hanno fatto degli appartamenti coi campanelli senza nome come a Milano.

Ogni giorno mia nonna mi portava ai Giardini Regina Margherita, la regina della pizza. Erano gli ultimi tempi dello zoo dei Giardini Margherita, anche se c’era solo una grande gabbia circolare per due leoni, qualche scimmia e un recinto per caprette insieme ai daini. Non mi ha mai convinto vedere insieme i daini e le caprette, non era un accostamento regolare, ho sempre percepito che c’era qualcosa di strano, rimasi più che deluso infastidito. I daini sono selvatici, le caprette no. Un po’ come quando andammo per la prima volta al ristorante cinese dove nel menù c’era la carne di maiale con l’ananasso, non me ne capacitavo, ogni cosa doveva avere un suo ordine, l’ananasso sarebbe dovuto andare alla fine nella frutta.

Questa esposizione di animali differenti messi insieme, una leggerezza forse dettata da motivi di spazio o magari perché entrambi amati dai bambini mi mise in crisi.

Capii dopo che l’assommarsi di questi situazioni che sentivo come non regolari stavano entrando dolcemente nella mia mente ma con effetti collaterali.

In pratica mi davano noia.

Così mi diede noia vedere i pony allo zoo di Pistoia perché di solito a Riccione erano per la strada coi bambini sopra. C’erano degli stati che si sovrapponevano, delle nature che si accavallavano, dei generi che si lambivano; il domestico macchiava il selvatico. Ma non era solo una questione di animali.

La proprietà formali e visive degli oggetti mi iniziavano a parlare perché tanti oggetti, gli arredi e le mille cose che accompagnano una storia familiare dalla fine degli anni ‘60 al 1993 erano un cosmo. Soprattutto in Italia terra di sperimentazioni audaci dove il design, la grafica e la pubblicità erano espressione dell’anima di un paese, un intero mondo nazionale. Mi sono sempre relazionato agli oggetti e alle loro immagini, perché nella mia solitudine di bambino e ragazzo poi ho trovato nelle cose inanimate tante anime, tante voci con diversi timbri che mi parlavano. L’Altro per tanto tempo nella mia vita non era un possibile interlocutore e così c’erano Loro, gli oggetti. Ho scritto 1993, perché su tutti i cartelloni per le strade c’era la pubblicità della Fiat: La risposta. Punto. Per la prima volta i fari posteriori erano in alto, verticali, la grafica, le forme generalmente piacevoli senza dignità, tutto è cambiato da lì, l’anno prima c’era stata Capaci, con le Croma sbragate, le ultime ammiraglie. Per la prima volta un’auto era diversa dalle altre o mi sembrò molto forte. I fari posteriori in alto mi davano noia, non mantenevano una continuità col passato. Capii che stava iniziando a finire tutto.

Capii che da quel momento non potevo più dialogare col presente come avevo fatto per 26 anni. Capii che da quell’anno mi dovevo rivolgere al passato.

Era cominciato l’anno 0. Il 2013 sarebbe l’anno 20 PP, Post Punto.

Dei leoni dei Giardini Margherita si sentiva l’odore pungente, ma mai fastidioso. Mia nonna aveva sempre qualcosa di pelliccia e pelle in inverno: un cappottino di Astrakan, un collo di volpe, una calotta di visone, una borsa in coccodrillo e ricordo la sua compassione per le bestie davanti alla gabbia in inverno. Coi leoni, i vasi cinesi i tappeti orientali e e gli avori della casa dei nonni la mia immagine dei paesi lontani era complessa e si arricchiva alla sera quando mia madre mettendomi a letto diceva: ora i cinesi si alzano.

Spesso la nonna ci lasciava il Resto del Carlino che leggevo solo nel calcio. Il Bologna in quegli anni faceva campionati tristi in zone basse della classifica. Pregai mia madre di portarmi per la prima volta allo stadio. Scelse una partita tranquilla, Bologna contro Avellino e mentre aspettavamo l’inizio mi fece fare i compiti sulle gradinate. Era freddo e grigio, finì 0 a 0, era il 12 novembre 1978. All’altoparlante davano gli spot della pubblicità dell’Acqua Cerelia che bevo ancora oggi a tavola, bottiglia di vetro ed etichetta verde. Di quella domenica ho un ricordo nitido, la torre dello Stadio voluto dal Duce color rosso mattone, un ricordo senza rumori, senza voci, senza audio. Le maglie delle squadre erano senza scritte, il Bologna aveva le righe larghe verticali rosse e blu. In trasferta aveva una divisa con una banda diagonale rossa blu, unica nel campionato che mi rapì. Una diagonale non controbilanciata da un’altra era un’immagine ambigua, come la maglia del Perù nei mondiali del ‘78 e dell’‘82 che vidi in tv e sul Guerin Sportivo che compravo sempre e che raccontava di campionati esteri con squadre esotiche. Ricordo che a volte ai Giardini Margherita giocavamo con un pallone che forse era pakistano.

Poi vennero le 128 Fiat della polizia che entrarono in campo per arrestare i calciatori del Toto Nero nel 1980. La sigla e la grafica del TG1 mi tenevano compagnia e mi rassicuravano.

Mia madre evitava di stare a casa i fine settimana, amava l’arte, la cultura e soprattutto voleva cambiare aria, la famiglia era saltata ed il rapporto coi suoi genitori era pesante. Iniziammo da Ravenna e poi tutta l’Italia, da Acireale all’Acqua Cheta, dall’Aspromonte allo Stelvio, dal Museo Egizio di Torino ad Alberobello e poi Parigi, Londra e Atene, fino a Mosca nel 1981. Mosca nel 1981 era un altro pianeta, andammo con Dopolavoro Ferroviario, anche se mio padre non stava più con noi mia madre era sempre moglie di un ferroviere e molti ferrovieri comunisti andavano a Mosca. Andammo in treno, passammo per la Cecoslovacchia, per la Polonia, Varsavia e poi a Brest si cambiava treno perché quelli sovietici erano differenti. In treno mia madre mi diede il libro di Howard Carter sulla scoperta della tomba di Tutankhamon. Mia madre amava l’archeologia, ha sempre amato il passato, ha sempre vissuto con difficoltà il presente. Lo lessi da Brest a Mosca con un treno che non arrivava mai. Scoprii che le foto della tomba del Faraone – le sole immagini mai viste di una tomba quasi intatta – mi erano in qualche modo familiari. Forse furono quelle foto che mi dissero che anch’io avevo bisogno di disporre con una certo ordine e con una certa bellezza le cose e le immagini della mia vita; gli oggetti del faraone erano quelli della sua vita e tutti i suoi oggetti erano importanti esattamente come i miei. Entrambi ci avrebbero aiutato a vivere, nell’aldilà per lui, nell’aldiqua per me.

Quando vidi la foto dell’Anticamera rimasi turbato. Tante cose messe con un ordine approssimativo, forse era un ordine frettoloso che poco aveva a che fare con quello di una disposizione rituale o di una mostra, di un archivio. E anche se era un ordine sommario dopo l’arrivo dei ladri a me sembrò un ordine personale, privato, mentale, un ordine che mi corrispondeva. Le voci degli dei del mio Pantheon volevano un ordine rituale degli oggetti della mia mente. Ci misi tanto tempo per chiamare una mia mostra Archivio, era il 2001.

A Mosca visitai il Mausoleo di Lenin con la salma sotto vetro, come ho visto Mao Tse Tung la scorsa estate a Pechino, due luoghi semplicemente folli, perturbanti ma che in qualche modo vicini con le loro costruzioni severe come la camera mortuaria in legno dorato di Tutankhamon.

Sono venuto per caso a Savigno. Iniziai a frequentare Bruno Pinto artista di Monteveglio, passammo intere giornate a parlare, discutere, ascoltarci. Lavorammo anche assieme. Scrivemmo tanto a quattro mani. Fuori dalla contingenza.

Mi disse che c’era un fienile vicino alla Pieve a Savigno, un paese vicino Monteveglio. Dopo aver vissuto per più di trent’anni nel centro storico di due città – Firenze e Bologna – non avrei mai pensato di abitare sui monti in un luogo un po’ isolato.

Ho spesso immaginato con grande difficoltà la trasformazione per la mia casa che in fondo è un grande oggetto tridimensionale. Sono tante le architetture che si sono intrecciate con la mia vita e che rimangono vive visioni: dal Mausoleo di Lenin alla casa di famiglia a Pavana, dal Battistero di Pistoia alla stazione di Santa Maria Novella, dalla Cupola di San Pietro al Mausoleo di Teodorico.

Ho tentato di ricostruire queste ultime due con le opere La Cupola e La Rotonda.

Ma forse la vera questione è che dietro l’arte e l’architettura si è sempre nascosta una vicenda ambigua. L’arte era la scusa per andare via di casa, l’arte doveva sostituire la famiglia oramai persa, l’arte era il rimedio al quotidiano. L’arte nascondeva, ma alla fine dava risalto, al dramma.

Solo alcune volte percepisco l’inganno che sta nell’arte che allontana sempre più da qualcosa di vero che si sente a volte in qualche lampo.

Tanti anni fa lessi Sergio Quinzio e frequentai persone a lui vicine, nella speranza di comprendere di più; non so perché ma è l’unico autore che è stato capace di distrarmi dai pensieri sulla mia arte. Scrive, riferendosi alla speranza dell’ultimo giorno: … l’arte appare cattiva imitazione, surrogato della gioia e del dolore, della vita e della morte.