Eternity (Il bello inverso)

F/ART – Può parlarci di “Eternity”, l’opera al neon realizzata in occasione della mostra a Ca’ Rezzonico, “Il bello inverso”?
Flavio Favelli – I loghi e i simboli, per me che sono nato alla fine degli anni Sessanta, sono sempre stati molto presenti. La stella in particolare è una specie di talismano che attraversa tutta la storia, sacra e profana, in particolare la stella rossa oscilla fra immaginari molto diversi fra loro, dal Comunismo all’acqua San Pellegrino o alla birra Heineken. E’ un segno eterno, suadente, forse un termometro dei desideri.

F/ART – Come e quando è nato il suo interesse per il neon come materiale espressivo?
F.F. – Le scritte della pubblicità con certe figure e certi slogan mi hanno sempre attirato (Bevete!, Chiedete!, Ghiacciato!) tanto banali, quanto potenti ed irrinunciabili.
Se tutto ciò viene presentato con un filo di vetro colorato e luminoso, fatto quindi per la notte –si vede meglio al buio!- tutta la faccenda diventa molto seria. Appaiono come le scritte dei Dieci Comandamenti, sono delle sentenze visive tanto audaci quanto autorevoli. Se si vedono le cartoline di certe piazze italiane, scopriamo che erano delle vere Las Vegas, con nomi, disegni e loghi colorati, come le mille luci di New York. Tutto ciò, però, serviva a qualcosa di preciso, a scopi commerciali, certo importanti, ma se vogliamo, ovvi. Usare il neon per fare opere d’arte, sarebbe, in fondo, dare ancora di più una connotazione di merce all’arte. Se la scritta luminosa (Cinema, Ristorante, Bar, Hotel, per citare i più nobili) serve la modernità dinamica del consumo (alla fine i nomi di Istituti, Enti, Città e cosa pubbliche non usano il neon per farsi notare) questa natura “infetta” anche l’arte. Ma a volte da certe “malattie” viene forse fuori qualcosa di diverso ed inedito.

F/ART – Quali sono le caratteristiche di questo materiale che risultano più interessanti per il suo lavoro?
F.F. – Direi la sua immagine e il suo immaginario (a volte anche il suo rumore, oggi quasi scomparso), il rimandare velocemente a luoghi e significati. E’ un lavoro complesso e difficile ma con un risultato che ha a che fare con l’effimero (il gas colorato che con una polvere magica accende una linea di zucchero filato) e l’assoluta artificialità.
E’ interessante anche la sua durata, quasi eterna, ho trovato delle insegne ancora funzionanti dopo decine e decine di anni, con colori evanenscenti, quasi un battito in affanno, ma vivo. La sua fragilità.

F/ART – Come si sviluppa il suo lavoro, tra progetto creativo e realizzazione tecnica?
F.F. – Direi che sono concetti, immagini ed idee che si intrecciano. La maggior parte di opere che ho fatto col neon sono diverse riproposizioni di vecchie insegne con significati quindi nuovi. Mi piacciono anche le lettere-scatole di plastica che comunque sono illuminate da neon. Generalmente riuso, con qualche aggiunta o eliminazione, l’insegna dismessa o abbandonata. Negli Stati Uniti una birra usava un neon grande come una valigetta nella vetrine; un perimetro rosso e una scritta azzurra LITE (che si legge lait) e in piccolo in bianco “beer”. Ho tolto “beer” ed è venuto LITE che in italiano è una parola un po’ desueta, ma interessante e complessa, molto di più di una marca di birra.

Riflessioni sul murale di Cosenza (Marulla)

Come ti ho accennato nella tesi parlo di opere d’arte nello spazio pubblico e sono andata a focalizzarmi su quelli che vengono intesi come monumenti nel senso “classico” del termine. Mi hanno attirata i casi in cui la realizzazione di queste opere si è imbattuta in difficoltà tecniche o ha creato un disagio, una discrepanza nella comunità. Gran parte di questo interesse si è accentuato quando sei venuto in aula a parlarci del tuo lavoro su Marulla a Cosenza.

Flavio Favelli. Vi ho parlato anche del mio lavoro Gli angeli degli eroi?
M. Sì.
FF. Penso che quel lavoro abbia più a che fare con il tema dei monumenti, perché di fatto è stato considerato e celebrato come monumento. Il progetto originale era realizzare un murale iscrivendo i nomi dei militari italiani caduti dopo la seconda guerra mondiale, periodo che vede l’Italia in pace. E’ chiaro che non c’è nessun riferimento al “monumento”, perché storicamente i murali venivano usati anche dai regimi ed erano di propaganda, non erano dei monumenti, e soprattutto i monumenti ai caduti, prevedono generalmente l’utilizzo di cemento, ferro, bronzo o marmo. Realizzare questa lista di caduti vernice su muro esattamente come venivano fatte le pubblicità una volta o la street art oggi ha ben poco a che fare con il monumento. Dato che fu il MAXXI ad invitarmi non potevo farlo sul muro del museo, perché non avrebbe avuto senso, l’ho quindi realizzato su un pannello di legno che è poi stato esposto come opera.   E’ stato il Ministero della Difesa a prenderlo per portarlo in Piazza del Quirinale; gli hanno messo un plexiglas sopra e lo hanno trattato come un monumento, è stato celebrato da Mattarella, dai familiari delle vittime e dai militari. C’è sempre un ente che commissiona il monumento: uno stato, un comune, o un’associazione come iveterani in Vietnam o la Comunità Ebraica, di solito si è sempre fatto così e di solito c’è un bando. Ma in entrambi i casi Gli Angeli degli Eroi e Marulla sono stato io a proporre i progetti e siccome erano dedicati uno ai caduti e l’altro ad un calciatore morto, è chiaro che per una sorta di ovvietà (in un caso il Ministero della Difesa e i familiari e nell’altro caso i fan e gli ultras) l’hanno preso come monumento. E’ come se si facesse difficoltà a prendere in considerazione un’opera in sé, si deve darle un senso preciso, collettivo…
Pensiamo alla città di Bologna, l’ultimo memoriale che è stato fatto è il memoriale alla Shoah, all’angolo con la stazione dell’alta velocità, quello è stato commissionata dalla Comunità Ebraica. Quel monumento è stato pensato perché è venuta fuori una piazza che non ci doveva essere; il monumento ha sempre bisogno di un luogo importante in cui essere situato. Questo murale che voglio fare a Bologna ho provato prima a realizzarlo a Firenze, le persone vicino al sindaco mi hanno detto: “sarebbe meglio che ci fosse anche un monumento alle vittime del terrorismo”; purtroppo gli hanno dato un significato letterale e univoco. Per il murale ho chiesto di avere un muro qualsiasi, una strada di passaggio dove non è successo niente di particolare. Un grande monumento che c’è a Bologna è il Memoriale ai Partigiani realizzato sul muro della Sala Borsa. Le foto in bianco e nero sono sotto vetro e si trovano nel luogo dove furono fucilati è un monumento voluto dai parenti delle vittime e dalla cittadinanza. Propongo il mio progetto ma non ho né parenti né amici militari, la prima cosa che mi hanno chiesto quando ho incontrato il Presidente della Repubblica è stata: “ ehai fatto il militare?” e io ho risposto: “no, ho fatto l’obiettore di coscienza”. Ho voluto fare un’opera, non è un monumento ma un ricordo, è un elenco che voglio realizzare in un posto banale, non ha nessuna delle caratteristiche del monumento. Alcuni militari mi hanno chiesto: “ Ma che bello maestro perché non lo fa in una rotonda con una lapide di marmo?” è proprio quello che non voglio fare. Di solito queste lapidi sono o nei sacrari o nei cimiteri o nelle caserme o dov’è nato il fatto. Il pannello che ho esposto al Quirinale adesso è all’Altare della Patria, l’hanno portato là.
Il murale di Marulla è in un muraccio di uno stradone in periferia a Cosenza, sono stato io a voler fare l’opera lì, non c’è nessuna relazione tra la strada e Marulla, entrambi i progetti non hanno a che fare nulla con il monumento se non per il fatto che evocano un soggetto di cui di solito si occupa il monumento. Se ci pensi tutti i ricordi di Padre Pio sono le classiche statue di bronzo in scala 1:1, con le fattezze di Padre Pio​. Me lo hanno detto gli ultras, quello a Marulla è così un anti monumento che loro non lo hanno riconosciuto come opera in ricordo del loro calciatore. Il problema è che loro si aspettavano da me un monumento, secondo loro dovevo risolvergli questa mancanza; lo sbaglio è stato loro, se avessi vinto un concorso sarebbe stato tutto differente: tu vinci, fai un progetto e la famiglia, il comune e il club degli ultras decidono che quel monumento esprime per tutti il ricordo di Gigi Marulla, ma questo l’ho proposto io, loro che mi hanno investito dell’autorità per fare il momnuemto ma è stato un loro errore. Molte persone mi hanno dato torto, soprattutto nel mondo dell’arte, e mi hanno detto: “Guarda che quando sei su un muro pubblico devi capire e in qualche modo stare ad ascoltare quello che dice la gente, il popolo”. Ho sempre detto che non sono un’artista pubblico che fa arte pubblica, ma prendo le mie responsabilità. In effetti poi lo hanno cambiato, il giorno dopo hanno scritto Gigi Marulla e se io non avessi accettato queste possibilità li avrei denunciati perchè quella è una mia opera, ma invece capisco bene, siamo in una strada, quindi accolgo le proteste, accetto le conseguenze, però non accetto il fatto che io debba prendere in considerazione certi desideri della gente che considero banali. L’opera non è commissionata e quindi sono affari miei, ho chiesto al Comune di darmi un muro e loro mi hanno dato il via libera, sul muro faccio quello che mi pare se poi mi tirano le pietre le prendo, se poi mi imbrattano il lavoro la cosa mi diverte e diventa interessante, ma che io mi debba sentire in obbligo di rispettare i gusti di una cittadinanza… che poi una cittadinanza…piano…stiamo parlando degli ultras, di cui metà forse sono anche personaggi un po’ particolari… quando sono 20 persone che fanno casino spesso si crede che rappresentino tutta la città.
Io non sono interessato all’arte pubblica e quindi se non ho scelto di mostrare la faccia del calciatore è perchè volevo andare in una direzione diversa: una località come la Calabria, dove vengono venerati i bronzi di Riace come immagine guida, c’è un’idea di bellezza in quanto ideale, perfetta e cristallizzata. Il problema di questi posti è che si riferiscono alla Magna Grecia come se si riferissero ad un loro recente passato, quando in realtà stiamo parlando di 2000 anni fa; sembra che dalla Magna Grecia ad oggi non ci sia nulla. Per me al nostro paese i bronzi di Riace hanno fatto molto male, bisognava lasciarli lì, sono delle “superbellezze” ingombranti.
Quindi quando mi sono trovato a fare in quel territorio l’immagine di Marulla cosa dovevo fare? la replica? Quelle persone vogliono la semplice banale riconoscibilità, invece io ho cercato di spostare la faccenda, rispettando la mia poetica ho cercato di dare un messaggio differente. Il nostro paese ha sempre avuto bisogno di questi salvatori della patria…queste figure spirituali…come i nostri santi. Quindi ho fatto questo ricordo che rimanda solo alla figurina del Cosenza. Dopo è successo che hanno chiamato uno street artist di nome Lucamaleonte, il sindaco ha chiamato questa persona perché aggiustasse il mio errore; secondo me Lucamaleonte ha fatto una cosa veramente grave, accanto al mio murale ha fatto la copia del poster di Gigi Marulla che avevano fatto i tifosi per il suo funerale (considerando che c’era un muro di 50 metri e più). Allora che senso ha essere artisti contemporanei? Avere un proprio pensiero un proprio punto di vista se uno deve soddisfare i desideri della gente che per riconoscere il suo idolo crea delle immagini che sono venute in modo banale dalla cultura televisiva e generalista e ovvia?. Lucamaleonte realizzando questa cosa commissionata dalla volontà del sindaco, ha tradito il suo spirito di street artist, che di solito negano l’autore, firmandosi sempre con dei nomi di fantasia. In questo caso ha fatto in modo banale quello che gli chiedevano l’autorità e gli ultras, considerando che la street art si nutre ancora di parole come antagonismo e libertà e sfida le regole sociali mi sembra che lui abbia fatto una cosa molto grave per lui e il suo “club”.

M. Secondo te una delle principali caratteristiche del monumento è che venga realizzato su commissione. Per quanto riguarda Gli Angeli degli Eroi, il fatto che la gente lo abbia interpretato come un monumento non basta a renderlo tale secondo te?
FF. L’hanno interpretato come monumento innanzitutto perché la gente l’ha visto in piazza del Quirinale ed è andato Mattarella con i corazzieri a mettere i fiori; i fiori si mettono solo o dov’è morto qualcuno o davanti ad un monumento. Questa cosa de Gli Angeli degli Eroi è stata poco dibattuta perché è stata vista dal mondo dell’arte come se io avessi vinto un bando dei militari, quando invece è forse una delle prime volte in assoluto che un quadro, un’opera, viene messa su muro e vengono posati dei fiori. Non è stata una mia idea, io l’ho esposto come un quadro, un pannello dipinto, sono loro che hanno fatto tutto. Quando vai a toccare questioni come i militari morti, arriva il Ministero della Difesa che dice: “Questi sono affari nostri” . Quando feci la lista dei caduti Anna Mattirolo, la direttrice del Maxxi, mi disse che c’era una lista ufficiale, io volevo prenderla da internet, mi ha detto: “noi siamo un museo dello stato metti che che una lista non ufficiale arriva al Ministero della difesa? ”. Io non avrei chiamato, non mi interessava lavorare con il ministero, per me è un’opera d’arte per loro una glorificazione dei caduti, ma non c’entra niente. Volevo fare un’opera che facesse vedere che quando il paese è in pace ci sono dei militari che muoiono per la patria, questa cosa mi ha sempre fatto molta impressione. Quando ero ragazzo bisognava fare il militare in modo obbligatorio, io scelsi di fare l’obiettore di coscienza, e per un anno feci un’altra cosa. Come ho sempre detto, il mio lavoro nasce anche da questo rapporto ambiguo con la divisa e con la guerra, mio nonno è tornato dalla Russia, conservo questa sua foto in cui indossa una divisa. Il nostro paese ha un rapporto particolare con il mondo militare e credo che al di là di questa faccenda la questione dei militari sia sempre poco risolta.
Voglio fare un’opera che metta le cose in chiaro, vorrei spostare una consapevolezza per dire che tutta questi argomenti non devono andare nelle caserme, non devono andare nei monumenti della piazza perché quando fai un monumento, sappiamo già che viene scansato automaticamente dalla popolazione. Questo progetto che non sono ancora riuscito a fare lo voglio realizzare in una strada, mentre tu passi leggi nome, cognome Congo…1973 (ad esempio) e tu ti domandi: “cosa sarà?” Poi vai a cercare con il telefonino e ti rendi conto che questa cosa è reale, sono cittadini che per 5000 euro vanno in missione e che alcuni ci hanno rimesso le penne, sono persone che a mi hanno sempre fatto molta impressione,se vai a vedere su internet c’è anche la loro foto su Facebook.Tutta questa cosa non può essere solo una faccenda del Ministero della difesa o di quelli che amano le armi, l’esercito e l’appartenenza ad un esercito; qui non stiamo parlando dell’esercito ma della storia e della vita del paese. Quest’opera è stata presa come monumento e io l’ho permesso per il semplice fatto che era molto interessante, ogni artista permette l’interpretazione della propria opera. Io dico che non è un monumento per il semplice motivo che credo ci siano almeno tre condizioni per cui il monumento si possa definire tale: 1-dev’essere realizzato con materiali in qualche modo durevoli e nobili, 2-deve provenire da una richiesta di una commissione e non è l’idea di una persona, ci deve essere un’autorità che decide 3-dev’essere in piazza o in un luogo che ha a che fare con l’accaduto del soggetto del monumento. Nel progetto non ci sono nessuna di questi tre motivi

M. In un’intervista sulla rivista Zero dici che secondo te un artista che lavora nel pubblico non deve avere responsabilità, non ti interessa l’opinione del pubblico?
FF. Prendiamo il caso di Marulla, qualcuno ha detto: “Facciamo un incontro con la cittadinanza” è chiaro che puoi fare l’incontro con la cittadinanza per spiegare il progetto, se poi la cittadinanza dice: “Noi vogliamo fare così” …l’artista che lavoro fa? Se avessi fatto questo incontro con gli ultras loro cosa avrebbero detto? O ci fai la faccia o ci fai il numero nove e a me queste cose non piacciono, e gli avrei risposto: “No non lo faccio”. Una persona , vedendo la figurina vuota,mi ha detto che quello poteva rimandare a Matteo Bergamini, un calciatore che si diceva si fosse suicidato ma il cui caso è stato riaperto dopo molti anni perché si pensava ad un omicidio. Allora ho detto: “Vedi che questa cosa che non ti ha fatto riconoscere Marulla ti ha permesso di ricordare Bergamini? Vedi che questa cosa alla fine ha un senso?” C’è una scollatura tra la gente e la storia dell’arte moderna e contemporanea, un divario. Un po’ come nel film di Alberto Sordi “Le vacanze intelligenti” in cui lui e la moglie,, siamo ancora a quei livelli. Credo che l’arte contemporanea sia una questione elitaria, non per la gente che ha i soldi ma per la gente che ha voglia di pensare; in fondo stiamo parlando di concetti e segni visivi. Quando vado in edicola a Savigno dove vvo ci sono tra 15 e 20 giornali scandalistici che parlano sempre delle stesse cose: Belen, Corona e compagnia; non c’è praticamente nessun giornale di arte, allora perchè se faccio una cosa d’arte quelli che abitano si sentono in diritto di venirmi a dire: “Ma a me non piace”; le persone bon si interessano per una vita d’arte e pretendi di aver voce in capitolo? Spesso nelle assemblee ho fatto delle presentazioni pubbliche, è un classico, la persona alza la mano e dice: “Io non m’intendo d’arte però…”. Io non sono d’accordo che la città e la piazza siano dei cittadini, perché i cittadini (tranne qualche piccolo comitato) non sono assolutamente interessati a queste cose. Tutta la storia dell’arte in italia è stata fatta da due o tre persone, il Re, il Papa e il Sindaco, l’artista faceva quello che volevano loro, è banale oggi dire “mettiamola ai voti” , se l’arte contemporanea non viene capita e l’artista si deve mettere ai voti dovrà sempre inventarsi un’opera più commestibile per le persone, allora anche la natura dell’artista e la sua poetica verrà a patti per vincere dei concorsi.

Hic et Nunc

Carla Ingrasciotta – Quest’anno sarai protagonista in fiera con l’opera “Hic et Nunc”, una lounge creata per accogliere i visitatori ad Arte Fiera. Potresti darci qualche anticipazione rispetto a questo progetto?
Flavio Favelli – Simone Menegoi mi aveva invitato a ripensare lo spazio della Vip Lounge, ma poi, per vari problemi, abbiamo pensato ad un No Vip Lounge, come l’abbiamo chiamato in questi mesi di lavoro, un grande salotto dove potere sostare al Centro Servizi che è una specie di grande piazza coperta prima dell’accesso ai padiglioni. Hic et Nunc è in fondo una grande stanza senza tetto con una trentina di poltroncine; sarà segnalata da due insegne luminose trovate e rinnovate, una con un orologio e l’altra con le lettere originali della vecchia insegna del negozio di dischi Nannucci, famoso in tutta Italia, che trovai anni fa. La fiera è un luogo di baccano visivo e ho cercato di creare un ambiente dove si possa arrestare tutto questo insieme ad un’idea di luogo problematico, desueto e seducente allo stesso momento. Le due insegne tentano di dare un senso di città, una città vuota. Come altri ambienti, quando li penso li vedo senza presenze. In fondo creare un ambiente d’arte è creare un’opera d’arte e questa ha sempre un diverso rapporto con la realtà. Certo nell’ambiente d’arte si può abitare e ci si può sedere, ma è più una possibilità virtuale, direi un specie di scusa; anche le poltroncine sono oggetti pensati, credo di non essermi mai veramente seduto.

CI – Fiorentino di nascita, hai studiato a Bologna dove hai vissuto per 30 anni nella tua casa di Via Guerrazzi, per altro sede della tua installazione in occasione di Art City Bologna 2018. Durante tutti questi anni hai visto la città evolversi, cambiare. Come ti sembra la scena artistica attuale rispetto al tuo arrivo in città?
FF – Credo che il problema sia la città, non la scena artistica. L’arte attuale viene sempre percepita come uno svago, c’è la grande parentesi di Arte Fiera. Ci sono aziende che fanno eventi solo durante Arte Fiera, come se si avesse bisogno di una scusa per sostenere e divulgare l’arte. In questi anni per due volte è venuto il Presidente del Consiglio a Bologna per la presentazione di FICO e del nuovo SUV della Lamborghini: in nessuno dei due casi si è fatto qualche progetto d’arte d’arte, tutti sempre a parlare della nostra tradizione e del nostro passato: nella storia di questo paese –si può dire da Roma al Fascismo- l’arte del tempo ha sempre affiancato i grandi eventi della società e, tranne rare eccezioni, questa tradizione si è arrestata. L’unico sussulto l’ha dato la Street Art che però è diventata troppo presto una creatività popolare e moralista.

CI – Attualmente vivi e lavori a Savigno, un paesino sull’Appennino bolognese. In che modo questo luogo influenza la tua ricerca artistica?
FF – Savigno è una zona “bianca” rispetto alla “rossa” Emilia (ammesso che lo sia ancora). E’ un paesino chiuso, duro, dove il cibo ultimamente sembra essere l’unica salvezza. Alla fine la cosa importante è il silenzio, sia a casa sia in studio c’è molto silenzio, che permette meglio l’eco delle mie immagini, delle mie questioni poetiche.

CI – Quali sono per te le realtà artistiche più interessanti di Bologna? Quali sono i tuoi posti preferiti?
FF – Da circa 15 anni non frequento tanto realtà artistiche, dopo la fine del Link Project abitando a Savigno non “scendo“ molto spesso in città. Non frequento nemmeno locali in particolare, diciamo che ultimamente sento più la politica, come interesse e in qualche modo come impegno. La situazione attuale è veramente pesante. Oggi mercoledi 23 gennaio 2019 il giornale Libero sul web ha un titolo in prima pagina che dice: “Calano il fatturato e Pil ma aumentano i gay”. Tutto ciò è ributtante, piano piano la gente italica sta riscoprendo le sue radici, probabilmente la sua vera vocazione contro il culturame.

CI – Quali sono i progetti a cui stai attualmente lavorando?
FF – Sto lavorando ad un libro d’artista con l’editore Corraini. Si chiamerà Bologna La Rossa una serie di disegni inediti sui miei ricordi personali in relazione alle tragedie che hanno avuto luogo in città e che ho ancora bene in mente. E’ poi un progetto nel museo Ca’ Rezzonico a Venezia per il prossimo maggio. In una delle sale metterò un assemblaggio fatta coi pannelli del pavimento che per mesi ha coperto i gradini del ponte dell’Accademia. Sono consumati con bande gialle che segnavano gli scalini, lise da pedoni. Una specie di abrasione continua e quotidiana con segni e ombre in sfumatura e dissolvenza.

Intervista pubblicata su My Art Guides (gennaio 2019)

Half Dinar, un seminario di disegno con i migranti

Linda Chiaramonte, collaboratrice del quotidiano Il Manifesto, intervista Flavio Favelli sul workshop di disegno con i migranti correlato alla mostra “Half Dinar” presso EX ATR, Forlì.

LC – Com’è andata con i ragazzi del workshop?

FF – Sorprendentemente bene. Hanno partecipato con passione, alla mostra si fotografavano continuamente coi loro disegni.

LC – Alcuni dati pratici: quanti sono, da quali paesi arrivano, com’è nata l’idea, e soprattutto come si è svolto, (nel senso: al primo incontro com’è andata? hai dato loro in mano carta e matite, colori? se ti va di raccontarmi le varie fasi del lavoro fatto insieme).

FF – Erano diciotto, dalla Nigeria, Mali, Gambia, Cameroun, Guinea Bissau e Somalia. Mesi fa sono stato al Comitato per la Lotta Contro la Fame del Mondo a Forlì, centro di raccolta missionario che sostiene progetti nel Sud del mondo. Frequento il Centro da tempo, mi interessano molti materiali che selezionano con ordine; quello che di solito si butta, loro lo conservano per venderlo per sostenere i loro fini. Stavo prendendo degli specchi, quando un operatore locale ha chiesto un aiuto a dei giovani uomini africani che stazionavano al Centro. Questi, un po’ impacciati, hanno iniziato a caricare nell’auto gli specchi. Ho pensato così alle frequentissime polemiche sul cosa e come fare lavorare gli immigrati, di solito occupazioni di fatica associate a badili, scope e ramazze. Lavori sempre umili che sono oramai di pertinenza degli stranieri dei paesi poveri. Soprattutto gli africani spesso bollati come inabili e inadatti al lavoro per natura.
Ho pensato così a cosa succederebbe a dare una matita in mano a questi neri africani, che sono i meno considerati (sicuramente dei magrebini o dei medio orientali, islamici). Ho così pensato di fare un seminario-esercitazione di disegno sui soldi, uno degli oggetti più desiderato e grande veicolo di immagini. Così Città di Ebla si è messa in contatto con Dialogos e hanno trovato donne e uomini interessati a partecipare a questo seminario. Il primo giorno ci siamo conosciuti e poi hanno iniziato a disegnare, fra timori ed incertezze, copiando dalle fotocopie o dai loro smartphone, le banconote che avevano scelto.

LC – Mi ha colpito molto la frase: “con un foglio e una matita in mano siamo tutti uguali” senza differenza di razza colore ecc… mi dici qualcosa su questo?

FF – Le matite Giotto erano famose per l’illustrazione nella scatola-astuccio dove un pastorello – Giotto da ragazzo – disegnava con perferzione un agnello. L’italiano è cresciuto così, col mito del grande artista che sapeva disegnare e dipingere e da allora chiunque si trovi davanti ad un foglio bianco viene attraversato dai fantasmi che ha nelle vene – Giotto, Michelangelo, Raffaello – perché l’arte, il disegno, la pittura significa bellezza intesa come armonia. Davanti ad un foglio bianco con una matita in mano certo, siamo tutti uguali, perché sperimentiamo che il disegno, tradisce, nonostanti gli sforzi, parte di noi.

LC – Cosa ti ha restituito come artista questa esperienza? E a loro, e a noi pubblico?

FF – I paesi di loro provenienza sono paesi dove ci sono molti problemi e probabilmente molti di loro hanno avuto poco tempo per se stessi e sicuramente per disegnare.
Credo che disegnare “senza sapere disegnare” (ma è un falso problema, gli artisti fanno opere d’arte, i pittori i quadri e gli scultori le sculture) sia un grande lusso che pochi si possono permettere e penso che questo tempo prezioso passato in questo seminario sia importante perché è strappato agli obblighi martellanti della vita di oggi. Ho conosciuto persone, nonostante siano generalmnete giovani, con storie “lunghe”, complesse e drammatiche. Mi piace pensare che questi disegni portino con sé immagini e riflessi di un continente così complicato e intenso, lontano e anche dannatamente vicino.
Bisognerebbe iniziare a pensare e a comprendere che l’Africa è una nostra (lo dico da occidentale) creatura; non c’è più nulla di africano, forse qualche savana e qualche km di deserto, ma il resto, tutto ciò che concerne l’umano è stato timbrato e vidimato (marchiato?) dalla nostra parte di mondo. Ecco perché “aiutamoli a casa loro” anche se sembra un’idea ragionevole, è una banale e triste illusione. Casa loro non c’è più, c’è solo la nostra, con qualche cantina o solaio.
Per cercare di rispondere, come artista non sono mai tanto preoccupato del pubblico, per l’artista – è questo il suo ruolo – il fine è seguire le sue immagini. Che queste a volte abbiano la fortuna (o sfortuna?) di incontrare il favore delle persone, del popolo, della gente è una questione non così semplice.
Questo progetto nasce per costruire nuove immagini senza mediazioni, è una questione della mia arte e dell’arte.

LC – Come dialoga e si inserisce con il lavoro artistico svolto finora? Cosa cambia nel tuo sguardo, se lo cambia?

FF – Direi che questo tentativo di dare dei punti di vista diversi e non ortodossi alla banconota, oggetto chiave della nostra storia, è una pratica che ho intrapreso da anni. Ho fatto grandi tele, collage, incisioni sui soldi, carta (moneta) che spesso incontra l’arte.
Anni fa volevo dipingere una grande banconota (le 500.000 lire con Raffaello) su una parete di una casa abbandonata a Savigno dove abito, l’edificio apparteneva ad una fondazione legata alla Chiesa e il prete del paese non mi diede il permesso, perché l’immagine del denaro non gli piaceva. Considerando che il patrono di Savigno è San Matteo, proprio il patrono dei banchieri, mi è sembrata una bella storia da raccontare.

LC – Credi di proseguire su questa linea?

FF – Sto pensando di organizzare un altro seminario, con persone differenti, sempre con questo soggetto della banconota.

LC – Quanto al tuo lavoro, come hai spiegato la tua poetica ai ragazzi?

FF – Alla fine loro erano interessati a fare, a disegnare. Credo che l’importante per loro sia stato il poter passare dei momenti diversi rispetto alla banconota. Replicarla, copiarla, cambiarla, riformarla, è un momento creativo e di riflessione che credo sia necessario oltre che a loro a tutti in un momento di grande confusione generale.

LC – Mi potresti raccontare la storia di quel nonno somalo di uno di loro che parlava italiano? mi sono persa una parte del racconto…

FF – Afrah viene dalla Somalia, un paese instabile da decenni. Suo nonno parlava italiano perché la Somalia era colonia italianae anche dopo, nonostante l’Italia avesse perso la guerra dal 1950 al 1960 l’ONU assegnò al nostro paese l’amministrazione della ex colonia. Mi è sembrato veramente beffardo il destino di Afrah, che aspetta un documento di asilo da un Italia che ha invaso il suo paese dalla fine dell’ottocento fino al 1940 circa e che fino negli anni Settanta (!) le banconote recavano la scritta Banca Nazionale Somala.

Un seminario di disegno con i migranti

Desirée Maida – Il suo seminario verterà intorno alla banconota, intesa come oggetto veicolo di immagini e soprattutto oggetto dei desideri ed elemento indispensabile per il proprio sostentamento. Che significato assume oggi il denaro e che simbologie assume nella sua ricerca artistica (mi riferisco alla sua opera Half Dinar)? 

Flavio Favelli – Questo interesse per la banconote oltre che venire dal nonno collezionista, è una passione per le immagini perchè va detto che sulle banconote si condensa l’idea di potere di un paese e questo credo sia una faccenda molto interessante. Mi soffermo sulle immagini perchè credo che siano “belle”, ed è una bellezza ambigua e questo è un ingrediente molto importante. La banconota che dipingerò sarà un’opera che riflette le immagini e la loro complessità in rapporto alla mia psiche. Il significato letterale e sociale viene dopo e non è mai il mio primo interesse. Voglio dire che scelgo di lavorare su certe banconote perchè sono enigmatiche per loro natura e non perchè sono “i soldi”. Certo sono anche “i soldi”, ma questa è una considerazione che viene dopo.
Mi interessano le banconote degli anni 70 e 80 perché sono gli anni per me originari e perchè il mondo ha sperimentato e vissuto momenti molto intensi. Ho scritto da poco: “La banconota, soprattutto in passato quando non c’era il bancomat, è sempre stato l’oggetto più usato e maneggiato quotidianamente, come il pane, eppure è il meno conosciuto. Chi si ricorda le 10.000 lire con il busto di Andrea del Castagno in uso per quasi dieci anni? Chi ha notato le 500.000 lire con Raffaello? L’oggetto più importante e più usato è il meno ricordato e spesso ha a che fare con immagini d’arte.“
Half Dinar è un’opera straniante che parte dall’immaginario della mia esperienza.

DM – Può accennarci qualcosa su come si svolgerà il seminario? Come saranno organizzate le “lezioni”? Come immagina che sarà questa esperienza?

FF – Sono sempre in cerca di “cose” che vadano oltre l’opera e la mostra, anche se la prima per me è centrale: senza l’opera, che per me è un’immagine fissa e densa di ingredienti psicologici, non sta in piedi nulla. Allora ho pensato che in uno spazio ibrido come l’Ex Atr oltre al dipinto Half Dinar e alla scultura composizione-assemblaggio, ci poteva stare una piccola mostra di disegni dei migranti africani. Devo dire che queste due parole –migranti africani- non sono semplici da dire oggi. Non amo l’arte che ha un fine diciamo positivo e un destinatario preciso (dai cittadini alle minoranze), nè tanto meno l’arte partecipativa e nemmmeno l’arte con una preoccupazione sociale (penso che molte opere libere abbiano un significato sociale e politico molto più intenso che quelle dichiaratamente di Arte Pubblica). Detto questo un giorno mi sono trovato davanti a dei migranti africani (il fatto che abbia in qualche modo una relazione con loro è un segno) che – secondo una persona – erano poco capaci (per natura?) di lavorare. Ammesso che sapere lavorare sia una cosa assolutamente positiva, ho pensato spontaneamente che sarebbe stato interessante dare a queste persone una matita anzichè il badile o la ramazza (gli unici strumenti ammessi quando si pensa a loro). Grazie alla collaborazione con la Cooperativa Dialogos di Forlì inizieremo la settimana prossima una specie di esercitazione-seminario per cercare di fare disegnare delle banconote, quelle che loro ricordano o che usano; l’Africa ha una storia complicata e complessa sulle banconote. Alla fine il progetto è quello di avere una decina di disegni per fare una piccola mostra sulle banconote africane fatte da questi migranti che immagino ci racconteranno anche molte cose.
Credo che un’operazione del genere tocchi diverse questioni: innanzitutto scoprire e capire il loro punto di vista e poi anche cercare di comprendere un immaginario denso e molte differente. Per me artista molto distante dall’Arte Pubblica, questo progetto mira ad avere immagini inedite, (c’è un’immagine più inedita di una banconota africano disegnata da un migrante africano?) opere (se deciderò che la mostra sarà anche un mio progetto saranno opere a tutti gli effetti) che tenteranno di dare un differente punto di vista da quello che di solito si conosce dell’Africa.
È anche utile ricordare che i primi ad occuparsi in un certo modo di arte africana sono state le avanguardie artistiche (è forse questo battezzo particolare che ha dato il via alle collezioni africane nei salotti, che le ha liberate dalla patina antropologica troppo noiosa). Ma forse anche questo progetto mira a tentare di sondare il magico e il misterico africano, quello di oggi. L’immaginario e l’arte di un migrante africano sciabottato fra Terzo Mondo e Internet, fra deserto e foresta, fra campi di detenzione e CIE, fra vecchi villaggi e bidonville, fra centri di accoglienza e slums è meno vero delle maschere? Forse questo progetto è una specie di controaltare a tutta quella enorme questione delle maschere africane che ogni illuminata e benestante famiglia alto borghese occidentale ha in casa, generalmente convinta di avere uno “spirito” arcaico e originario di quella faccenda così interessante che ruota attorno alla magia e al sacro. E si potrebbe anche dire che quelle maschere vere – che c’è più vero di una maschera africana? – e originali (che si comprano alle aste e dagli antiquari) vengono da un milieu con un grado di primitivismo spesso simile a quello che si affibbia a questi africani di oggi. E allora potrebbe essere interessante mettere in relazione questi due aspetti il primo così “alto” e il secondo così “basso”.
D’altra parte ne stiamo discutendo per la prima volta con Davide Ferri e anche con Claudio Angelini: sta venendo fuori una faccenda molto seria che mette in relazione molte cose. E forse scopriremo che uno del Mali è anche un Dogon.

Intervista di Valentina Tebala

Valentina Tebala – Caro Flavio, non potrei iniziare l’intervista senza introdurre il motivo per cui ci siamo conosciuti che è anche il medesimo per il quale io stessa ho avuto modo di approfondire con interesse il tuo lavoro. Ovvero il murale che hai realizzato a Cosenza invitato ai Bocs Art nel 2015 e la diatriba che ne è conseguita tra gli addetti ai lavori e non: “Il caso Marulla” con tutte le sue problematiche inerenti l’Arte pubblica, che qui evitiamo di indagare ulteriormente. Piuttosto un elemento che mi ha molto colpito – tra il marasma di spunti di riflessione nati da quella vicenda – probabilmente anche per un fattore personale e biografico, è il tuo rapporto con il Sud d’Italia. Mi pare di avvertire come un’attrazione, una fascinazione oscillante tra due poli opposti, come Eros e Thanatos. Hai lavorato e frequentato spesso il Sud, ma non hai risparmiato parole anche parecchio critiche nei confronti di questi luoghi così «esotici»…

Flavio Favelli – Cara Valentina, ti rispondo da Palermo, sono i giorni di Manifesta. Mi sento molto legato all’isola e a questa città, dove ho fatto molti progetti e preso soggetti di questo universo per molte opere. E’ come se qui avessi più tensioni, più immagini che generano altre immagini che si allacciano al mio bagaglio italiano della penisola. Ho scelto di fare un intervento con due artisti Giuseppe Buzzotta e Toni Romanelli, siamo tre differenti generazioni, abbiamo preso un negozio sfitto, in Via Roma, con scritto Fenomeno sulla vetrata. E’ un negozio moderno, con arredi bianchi e grigi, doveva forse vendere abbigliamento per uomini attuali ed esigenti, ma di una eleganza troppo globale per essere vera, un negozio lontano da quello che un visitatore si aspetta da Palermo coi suoi palazzi nobiliari fra il dimesso e lo sbragato e così maledettamente belli quanto inutili; direi proprio questo: A Palermo e in Sicilia c’è una bellezza eccessiva, stordente, inutile, come il dolce della Martorana, che è più dolce dello zucchero. Abbiamo proprio scelto un posto capace di rispecchiare il gusto e l’immaginario della città degli ultimi quarant’anni, che sembrano lontani da chiese ricamate e edifici antichi. Qui si spinge di più che da altri parti sull’apparire… ai matrimoni gli uomini sono imbellettati e infagottati come damerini, le donne giunoniche e a volte provocanti, ma con sempre un qualcosa di domestico, casareccio e bambini d’appertutto quasi a dire che la famiglia, nonostante le sue puntuali crudeltà, è la base di tutto. Mi piacciono tutte queste sovrapposizioni, un infinito collage meridionale, dove tutto in qualche modo rinasce con grandi fratture e cicatrici. E’ il tema delle rovine, comuni a tutto il Sud Italiano, che al Nord non ci possiamo permettere. Posso dire amo il Meridione Italiano perché è rovinato, rovine che insieme alla vita quotidiana di un paese comunque del primo mondo, generano riflessioni, nuove immagini e così sto dicendo che il Sud è fonte per me di ispirazione per l’arte. Ma ciò è fertile perché si collega alla mia vita che su certi ricordi di luoghi, oggetti e cose fonda la sua vita poetica. Ho visitato con mia madre il Sud quando ero bambino e questo ritrovare dopo tanti anni certe vedute come cartoline psicologiche infonde in me una certa eccitazione mentale, che proviene da un sentire ambiguo fra piacere, passione e malinconia e concorre a generare delle figure nuove le cui origini vengono da immagini-ricordi scomposte, riassemblate e quindi-anche distrutte.
Il Sud è poetico anche perché è povero e la povertà mantiene viva una certo modo poetico e letterario.
Tutto ciò può sembrare un attengiamento esotico, come dici, uno sguardo superficiale e pittoresco, ma è anche il terreno su cui si muove l’artista, che non è interessato all’essere politicamnte corretto.
(Ho notato, vicino alla stazione, sul marciapiede, tre poltrone da esterno in bambù abbandonate, di sapore modernista, audace. Le ho prese e caricate in auto che ho messo poi in un garage. Il giorno dopo ho dato una mancia inaspettata al parcheggiatore, legale, che mi ha tenuto l’auto e con una maglietta rossa con scritto Grease mi ha detto: grazie, faccio fare la colazione ai bambini!
La colazione ai bambini, come in una novella o in uno spot del Mulino Bianco.

VT – Gli oggetti, che di frequente utilizzi per costruire le tue opere, hanno una valenza altamente simbolica per te, quasi simbiotica, perché rappresentano o evocano una storia, principalmente la tua; lo stesso vale per le immagini. I fatidici anni Ottanta – lo hai detto più volte – hanno avuto un’influenza sulla tua vita veramente importante. Invece, se dovessi portarti dietro qualcosa degli altrettanto fatidici anni Duemila, precisamente di quest’ultimo ventennio, quali oggetti, immagini o icone credi che potrebbero entrare nel tuo lavoro?

FF – Gli anni Settanta e Ottanta sono stati ambigui e demoniaci, per me, per la mia famiglia e per l’Italia che era già un paese globale prima della globalizzazione. Sono stati due decenni della mia formazione di persona e di vita con la famiglia, segnati da un destino severo. Ecco perché sono per me cruciali perché le cose drammatiche che vivevo in famiglia erano le stesse, con gli stessi meccanismi, che viveva il paese. Negli anni Duemila mi manca, e meno male, quel rapporto originario con la famiglia e quindi tutto è più tranquillo; sono stato sicuramente meglio, ma è tutto meno interessante. Diciamo che cerco di portare sempre le immagini e le questioni psicologiche di quel mio periodo dell’origine nei tempi successivi. E’ come se funzionassi come una stato autarchico con i propri miti di fondazione, che sono tali perché sono passati e irraggiungibili. Forse ho un problema col vivere il presente, che uso giusto per sviluppare diversi punti di vista sul mio passato. Per risponderti direi comunque –non ho dubbi- la tragica e folle epopea dell’11 Settembre 2001 fino a Ground Zero con le due vasche del 2011 e il museo sotto nel 2014. Il Memoriale di Ground Zero è un intreccio sinistro nato dal tentativo di rappresentare un evento impensabile che rimarrà per sempre angosciante. L’inadatto immaginario statunitense ha creato una specie di terrazza-belvedere interrata che ammira le fondazioni ancora scassate delle Torri Gemelle dallo stupro dei terroristi. Ho già scritto della mia passione per gli aerei e sull’11 Settembre http://www.doppiozero.com/materiali/vari-abissi e questo enorme monumento senza monumento, ma con cavità e catacombe è forse l’opera più significativa della nostra cara storia.

VT – Flavio Favelli appare come una persona introversa, solitaria, eppure le sue opere sono di lui una sorta di libro aperto. Letteralmente, Flavio, tu hai aperto più volte al pubblico persino le porte di quella che è stata per molto tempo casa tua e della tua famiglia, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Visitandola la prima volta in occasione della scorsa edizione di Arte Fiera, mi sei sembrato un ottimo “padrone di casa” nel raccontare al pubblico i wall painting che hai poi realizzato nelle varie stanze dell’abitazione: come quelli che riproducono le etichette delle compresse Tavor o il codice fiscale di tua [madre/nonna?], per esempio.

FF – Credo che la condizione dell’artista sia drammaticamente ambigua: da una parte ha a che fare con le sue immagini e i suoi problemi diciamo visivi, dall’altra deve fare uscire fuori tutto ciò e deve cercare comprensione. Comprensione che non sarà mai esaudita, pena la perdita del suo demone. Solo parlando col pubblico, che è una presenza retorica, si riesce a comprendere meglio se stessi e soprattutto le opere. Solo parlando a braccio dopo una decina di volte di Via Guerrazzi 21, parlando via via delle cose che appaiono, posso capire meglio cosa sto facendo. Il pubblico, è una comparsa, è come quando la mamma stava a sentire recitare la tua poesia, non faceva nulla, non doveva fare nulla, era ed è solo una presenza passiva, come è venuto se ne va. Parlare con le persone, poi, è importante: parlando dell’opera si comprende l’enfasi, lo slancio o il distacco che si ha col pubblico; si comprende, definitivamente, il rapporto che si ha con se stessi.

VT – A Bologna hai realizzato tanti progetti: la Sala d’Attesa al Pantheon del Cimitero della Certosa o il lavoro Itavia Aerolinee con l’opera Cerimonia-india hotel 870 allestita in Piazza Maggiore in occasione del 30° anniversario della Strage di Ustica, fino al progetto vincitore della 2° edizione di Italian Council 2017, Serie imperiale, presso la Casa del Popolo e la ex miniCoop di Bazzano, che vorrei raccontassi brevemente.

FFHo sempre avuto e ho tutt’ora tanti progetti per Bologna perché è la città dove abito e devo dire che non è per nulla semplice realizzarli. Ho partecipato al bando Italian Council col progetto Serie Imperiale, due francobolli che posseggo, col volto di Vittorio Emanuele III, desueti e scomodi per via di soprastampe di annessioni (Zara per l’occupazione tedesca e Repubblica Sociale Italiana) che ho ingrandito e poi dipinto su due muri interni e speciali: una stanza riunioni della Casa del Popolo e un ex supermercato Mini Coop. Queste due sur-immagini appartengono al conflitto: sono sgarbi, sfregi, atti di sabotaggio e di censura-offesa; sono scritte violente di invasione, annessione e appropriazione di territori e di immagini. Sono timbri di inchiostri rossi e neri su un volto viola di sangue blu. Una volta eseguite e presentate saranno poi strappate con un procedimento artigianale eseguito da professionisti e montate su tela a comporre l’opera-dittico Serie Imperiale. I due muri privati dalle pitture saranno parte costituente dell’opera perché anziché rasarli e tamponarli come di solito avviene, saranno basi per un intervento permanente che ricorderà le pitture. L’otturazione, il buco come studio, indagine e lavoro, diventerà essa stessa opera d’arte. Il timbro Zara e Repubblica Sociale Italiana non sono altro che diverse otturazioni, una specie di damnatio memoriae moderna, così come la tamponatura dei due muri, che lasceranno un anti-dipinto su intonaco, come fosse una cancellatura-abrasione controllata e pensata.

VT – Ora ti chiedo cosa pensi della situazione artistica contemporanea a Bologna e in Italia in generale. C’è qualche artista – attivo anche fuori dal nostro paese – di cui ammiri o segui particolarmente il lavoro?

FFDalla fine degli anni Novanta lavoro come artista e ho conosciuto i piani alti della città che ama un po’ l’arte direi per svago e per collezionismo, che sono due cose importanti, ma non sono un vero interesse per l’arte. Ci sono grandi fortune e grandi capitali, musei privati e fondazioni, ma c’è veramente poco di interessante. Due grandi avvenimenti cittadini, FICO (il più grande parco agroalimentare al mondo) e la presentazione del nuovo SUV della Lamborghini sono avvenuti senza arte; per la prima volta nella nostra storia italiana, l’arte, in momenti importanti, non c’è. Tutti a parlare di tradizione, di eccellenza, del Belpaese, ma poi la realtà è questa. Se a quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica, per la prima volta questo paese (per tutto il mondo il paese dell’arte) con l’Italian Council, dà la possibilità agli artisti del suo tempo di esprimersi, si comprende meglio la situazione.

VT – Un tuo prossimo progetto, che sia già in fase di realizzazione o ancora soltanto immaginato?

FF – Gli Angeli degli Eroi, la lista dei militari italiani morti dopo il 1945 in missioni di pace. Il progetto viena da una foto della mia famiglia che riassume un rapporto complesso: quella del mio nonno materno Carlo in divisa, mentre passeggia per Piazza Maggiore a Bologna. Mio nonno, che tornò dalla Campagna di Russia. Riconosco in lui un modello estetico molto forte che è riassunto in quella foto in uniforme.
CARO LUCA GRAZIE! GLI ANGELI DEGLI EROI TI SORRIDONO MENTRE  TI FANNO LA SCORTA D’ONORE FINO ALLA LUCE DI DIO IN PARADISO!!! VIVA L’ITALIA
Quando ho visto questa scritta fatta su un cartone probabilmente dai parenti di Luca Sanna, soldato morto in Afghanistan nel gennaio 2011, durante il suo funerale a Roma, ho provato la stesso turbamento di quando visitai anni fa il Sacrario di Redipuglia. Immagini estranee che proprio per il fatto che sono lontane, perchè le teniamo lontane, si scoprono a volte drammaticamente vicine. Gli Angeli degli Eroi è anche il tentativo di avvicinarsi al linguaggio di questo cartello scritto in modo solenne ed epico da genti di un mondo lontano e desueto. E’ però un mondo che da qualche parte mi fa sentire in qualche modo partecipe. Il progetto consiste in un grande wall painting su un muro pubblico con la lista dei militari caduti.

L’epopea della famiglia Favelli. Una conversazione

Gli piace pensare a progetti che nascano dal suo immaginario personale. Gli dicono che è malinconico, ma lui ha bisogno di partire da lì: il rapporto con suo padre, con la madre. Se gli chiedi quale artista ha fatto parte della sua formazione ti dice mio padre che si sentiva un artista, “perché l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.” E poi c’è il nonno. È lui che collezionava i francobolli e quando Flavio era un nipotino, tutti facevano la collezione di francobolli. Se vendevi quelli giusti, erano molti soldi, era un grande investimento. Suo nonno ci restaurò il palazzo di famiglia, dopo che una bomba lo scavò in due parti senza esplodere, e adesso i francobolli invenduti li ha tutti Flavio anche se non gli piace collezionare. Serie Imperiale nasce proprio da qui, si tratta di francobolli emessi durante il Regno d’Italia in uso fino al 1946 con il volto di Vittorio Emanuele III e la scritta 50 cent. sopra. Su uno dei due lavori esposti in mostra, a sfregiare il ritratto campeggia la scritta Zara, quasi come una cancellatura. Queste sovrastampe sancivano il cambio di Stato di appartenenza del francobollo e in questo caso l’occupazione tedesca di Zara nel 1943. La gigantografia muraria in una stanza della Casa del Popolo di Bazzano ricorda proprio la storia di questo francobollo: l’esistenza di uno Stato Italiano, delle sue Poste e il presagio di una lenta mortificazione politica sancito da un timbro di occupazione. Più guardo questo lavoro e più penso al marchio di abbigliamento spagnolo Inditex, Zara sembra ora manifestare la sua supremazia usando la modalità di censura dei writers. Nei lavori di Flavio sono immancabili le associazioni di idee, i riferimenti storici e le connessioni contemporanee di una cultura delle immagini in perenne movimento; associazioni che generano spunti, si accendono in testa come i neon di diversi colori nella casa della madre di Flavio, in via Guerrazzi 21 a Bologna. Una casa-museo-cimelio dove non ci vive più nessuno, non ci sono mobili né oggetti e le pareti sono quasi spoglie, ad eccezione anche qui delle gigantografie murali di Flavio, una per stanza. Non si tratta di francobolli, ma ricordi di carta trovati per casa, come la pubblicità dello spumantino “Top”, il codice fiscale della madre di Flavio e un suo biglietto aereo. E poi ancora la confezione di Tavor con il triangolino rosso anni ’90 e una banconota da un pound della Repubblica del Biafra. Lavori di questo tipo rivelano il potenziale di un’archiviazione visiva che nasce dal biografico per toccare le vite private di alcuni di noi, stabilendo un rapporto inaspettato tra il fruitore e l’immagine: la riproduzione ingrandita dei dettagli grafici smorza l’intimità di appartenenza del ricordo, sottolineando invece la testimonianza culturale che alcuni dettagli rivelano. Flavio ci porta a ragionare su simboli, su rappresentazioni, indaga la storia dei paesi a partire dal suo, prendendo in prestito dall’arte pop la sua sfacciata manifestazione iconica: l’immagine c’è, c’è, c’è, c’è ed è grande così. Ad eccezione dei golfi partenopei che rivestono le sale di alcune pizzerie, commissionare murales interni non è però oggi una pratica così usuale, soprattutto per un collezionista: se cambio casa, dove la metto? L’essere nomadi e precari, non poter più marchiare un luogo con la ricchezza di famiglia – ormai sperperata – è una lenta consapevolezza sociale e per l’arte di Flavio non è un problema: alimentata da contraddizioni e conflitti, la sua pratica non si interessa di salvaguardare i luoghi dei suoi interventi. Per lui è importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione. È per questo che in Serie Imperiale ha ingaggiato un restauratore ancora prima di iniziare il murales; a chiusura della mostra, lo strappo come operazione concettuale sancirà il passaggio dal muro alla tela, conservando sì il dipinto e il suo significato, ma anche quei calcinacci che verranno via insieme alla loro storia, la casa del Popolo o la Coop dismessa sono il luogo della politica e del mercato: due spazi che contraddistinguono la società occidentale, dove le persone – ora pubblico – rivestono un ruolo principale.

In una recente intervista pubblicata sul tuo sito affermi che “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra tu non abbia una buona considerazione del pubblico, sostieni anzi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”? 

Il pubblico è una convenzione: ci deve essere, ma è come se non ci sia. In tutte le foto delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai le persone; considero il pubblico come gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e ho imparato presto a conoscere quanto possa essere ignorante. Non ho una grande considerazione di loro. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status. Quando penso a un luogo lo penso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte credo sia lontana da queste cose.

Ma agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario. Dove e cosa è l’arte per te?

L’arte è preziosa, perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario. È il luogo della legittimazione dell’alterità, una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Quando i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata, presupponendo che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male.

Quindi che ruolo deve avere l’artista oggi?

Deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere di arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere, ma non c’è niente da fare. L’artista deve porre delle questioni complicate, deve essere la fonte principale per la sua opera ed è necessario che il suo punto di vista sia ancora importante. Nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti, dovrebbero essere gli unici a eseguire prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella nostra società che davanti alla tela, al pavimento o al muro pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing o di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti.

A Flavio il collezionismo non va giù. Vede il collezionista come un playboy con le donne, che vuole stare con tutte ma non sta con nessuna. Dice che menomale che i suoi lavori non hanno un prezzo di mercato così alto; si sentirebbe in difficoltà se una sua opera venisse venduta a cifre spropositate, inadatte a giustificare un’esistenza di lavoro ma capaci di sfociare in una condizione di ricchezza per la ricchezza. Il sistema dell’arte che ripone il suo acme nelle fiere, livella l’impatto percettivo di ogni lavoro e del suo artista. Abbassa gli istinti di fascino verso quello slancio passionale del volere tutto a tutti i costi oppure lo amplifica a tal punto da rendere l’esperienza di fiera unica e irripetibile, proprio perché si pensa di poter avere tutto a tutti i costi. Opere diverse su pareti di cartongesso omologate quindi per l’occasione, fino a che non arriva Univers una sorta di Temporary Store in Fondamenta Sant’Anna: Flavio durante la 57esima edizione della Biennale di Venezia ha messo in vendita opere d’arte per un prezzo fisso di venti euro: un manifesto contro il collezionismo o per incentivarlo? La sua più grande delusione è stata quando gli acquirenti gli chiedevano l’autentica o pretendevano di acquistare più di un oggetto, mentre le regole del negozio vietavano entrambe le cose. L’artista crea un’opera d’arte a partire da un conflitto, senza conflitto non c’è arte, mi dice Flavio. E quando il prodotto di un conflitto viene acquistato in tirature di multipli a prezzi spropositati, vantando sempre la stessa firma, la guerra è finita e probabilmente è stata vinta dal capitalismo finanziario, che aspira a godere della musica classica, ma indossa Zara e canticchia J-Ax.

Conversazione pubblicata su Arte e Critica, numero estivo, 2018

Dialogo con Flavia Montecchi

Flavia Montecchi
Che fine fanno i luoghi della tua arte una volta terminata la mostra?

Flavio Favelli
Non so e non ci penso. Alla fine credo sia importante il progetto, l’opera, la foto della sua documentazione e il suo significato. Sicuramente i luoghi che scelgo sono importanti per molti motivi, sempre comunque motivi poetici.

FM
In una recente intervista pubblicata sul tuo sito, affermi che: “nell’arte si è soli. Non c’è nessuna parte da temere se non fare i conti con sé stessi”. Sembra che non hai una buona considerazione del pubblico, affermi che spesso sia meglio non esista affatto. Cosa ti spinge a questa affermazione, se poi la tua arte trova spazio ed espressione soprattutto in luoghi vissuti dalle persone e dal “pubblico sociale”?

FF
Il pubblico è una convenzione. Ci deve essere, ma è come che non ci sia. Un po’ come quando da bambino giocavo dall’altra parte della casa, era importante che ci fosse mia madre, ma non doveva poi rompere le scatole. In tutte le foto di documentazione delle mie opere ambientali e in qualche modo “vivibili” non ci sono mai delle persone e questo vorrà dire qualcosa. Il pubblico, poi, oggi è la gente che si è scrollata di dosso il lezzo del popolo e va coi profumi di gran marca. Solo vivendo da quasi vent’anni in un paesino dell’Appenino ho capito la profonda ignoranza e idiozia della gente. Non ho una grande considerazione del pubblico. Per risponderti: dei luoghi pubblici mi interessa lo status e poi quando penso ad un luogo lopenso sempre vuoto, non sono un artista dell’arte pubblica, che vuole il bene del paese, della società e del mondo, l’arte è lontana da queste cose.

FM
Sempre mantenendo il tema del rapporto tra pubblico e artista, rivendichi in varie occasioni la presenza dell’artista contemporaneo e la sua chiamata in causa in manifestazioni di carattere culturale, che prendono spunto dall’arte senza però poi effettivamente coinvolgere gli artisti (la passata edizione del Festival di Filosofia, come citi tu stesso).
Indipendentemente dalla contraddizione che noto (vedi la domanda precedente), secondo te perché non si interroga l’artista?

FF
Distinguerei comunque il mondo dell’arte oramai assuefatto dalle mostre e dalle fiere ed eccitato solo dalle aste, dalle preview e dagli aneddoti e curiosità sugli artisti e un pubblico che partecipa a dibattiti e conferenze con interesse. Nell’esempio che ho fatto ho notato che si è invitato un imprenditore (di idee conservatrici sull’arte) e non un artista perché si dà per scontato che l’artista possa parlare solo con le sue opere. Nelle conferenze e dibattiti – quei pochi che ci sono – c’è sempre un moderatore che appunto modera l’artista che a sua volta parla come un curatore noioso: gli artisti oggi blaterano qualcosa fra l’apocalittico e il rivoluzionario, ma poi lavorano programmati e precisi per rifornire le gallerie che fanno una dozzina di fiere l’anno e questo non può non incidere su una categoria che è diventata solo imprenditoriale. Quindi un po’ è colpa degli artisti, un po’ della società della cultura che è interessata all’artista solo quando è un maestro. Poi tutti a citare Pasolini (saranno almeno una ventina gli artisti che hanno fatto opere su PPP) dimenticando che allora si criticava e litigava a viso aperto mentre oggi più dei sorrisi tirati dei vernissage non si va…
Non dovrebbe, il suo lavoro, essere già esplicito se inserito in un contesto espositivo selezionato e attento, con una direzione artistica di referenti reali? Mi spiego: nel caso del festival della Filosofia, mancava forse una direzione artistica nella selezione e organizzazione delle mostre temporanee. O no?

FF
L’artista pone delle questioni complicate e deve essere la fonte principale per la sua opera; il suo punto di vista deve essere ancora importante: nonostante oggi gli artisti siano fini imprenditori e lavorino esclusivamente con rivenditori autorizzati in mercati coperti dovrebbero essere gli unici che eseguono prodotti senza una strategia di mercato. L’artista visivo sarebbe l’unico nella società di oggi che davanti alla tela, al pavimento o al muro, pensa, vede e realizza un prodotto senza preoccuparsi di studi di marketing, senza la preoccupazione di vendere quello che fa ad un (fottuto) soggetto prossimo con mille desideri differenti. Il frullatore degli eventi nell’arte travolge tutto e all’artista deve essere data la possibilità di discutere e parlare del suo punto di vista che non può essere completamente sostituita da quello della direzione artistica. La situazione è comica: da più parti si evoca il ritorno dell’artista-scienziato del passato e dall’altra si fa partecipare l’artista solo alla mostre. (Voglio ricordare una specie di ritornello che spessissimo viene pronunciato da artisti, critici e vari professori quando qualcuno sottolinea il fortissimo potere del mercato che travolge ogni cosa nell’arte: l’arte – la sentenza inizia sempre così – è sempre stata in mezzo alla moneta e al mercato, leggete le lettere dei grandi del passato, parlano sempre di soldi… (il famoso Libro dei Conti del Guercino). E’ ovvio che questa è una grande sciocchezza, in quale campo ci comportiamo come se vivessimo nel 1600? Questi si sentono moderni, ma vogliono gli usi e costumi dei tempi del passato. Il critico (e ovviamente il curatore) è il garante che certifica che l’opera è d’arte ed è colui che la colloca in una tradizione di storia dell’arte, ma questo non può essere l’unico punto di vista sull’opera.

FM
Queste domande – e quelle che ti ho posto durante il nostro incontro – evidenziano come il tuo fare arte sia ricco di contraddizioni, istanza per me molto stimolante e sinonimo di movimento.
Sei con il pubblico e in mezzo al pubblico, ma ti esprimi a partire da un contesto familiare che rende il tuo creare molto individuale e solitario – per certi versi. Agisci in luoghi pubblici o apri al pubblico i tuoi luoghi (privati). Che tipo di artista ti definisci? Ma soprattutto, quando hai cominciato a chiamarti e o a giudicarti “artista”? Parlami del ruolo che ha per te questo nome, consapevole del fatto che non leghi l’arte alla politica.

FF
Beh non è vero che non lo lego alla politica. Non lo lego ad un significato politico preciso, ma la questione politica è ampia con grandi confini. E’ più politico Santiago Sierra o Giorgio Morandi? Solo un pubblico poco attento e superficiale può dire con certezza il primo. L’arte è preziosa perché è uno strumento che riesce a farci “saltare” dal binario, è il luogo della legittimazione dell’alterità, è una zona franca che nella modernità assume il ruolo di contraltare alla vita regolare coi diktat della società. Se i significati di questa zona franca coincidono con la realtà è la fine: gli artisti dell’arte pubblica vogliono l’arte giusta e schierata e così presuppongono che esista una differenza fra il giusto e l’ingiusto, come la Chiesa con il bene e il male. Il mio progetto Gli Angeli degli Eroi riassume il mio punto di vista. Da un’immagine di mio nonno militare, dalla mia attrazione per le divise – che tengo a distanza – indago il mondo della guerra che ioncontro l’immaginario dello Stato e del Presidente della Repubblica: l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.

FM
Che ruolo deve avere l’artista oggi?

FF
Beh deve in qualche modo rompere le scatole, perché oggi le scatole sono sempre di più. Da un po’ di mesi sto tentando di scrivere sull’arte sui giornali, ho chiesto un blog a Repubblica e al Corriere. Niente da fare non lo danno. Ecco che ruolo deve avere quello che non gli permettono di essere.

FM
C’è un artista con cui sei cresciuto e che ti senti abbia fatto parte della tua formazione?

FF
Mio padre per il fatto che si sentiva artista, si sentiva un poeta. Ma poi, come si dice, ha perso la testa, ammesso che gli artisti non la debbano perdere. Dico questo perchè voglio sempre riportare tutto alla mia famiglia, alla mia storia privata che sono le mie immagini e che sono le immagini del mio tempo, perchè l’artista più fa gli affari suoi, più fa gli affari del mondo.

Intervista su Serie Imperiale

Marco Enrico Giacomelli
Partiamo da un dato biografico: a Valsamoggia, in provincia di Bologna, vivi da vent’anni. Perché hai scelto un luogo così appartato?

Flavio Favelli
È stato un caso. Stavo frequentando un artista con un vissuto particolare, Bruno Pinto (nato nel 1935) che abitava a Monteveglio, vicino Bazzano, nel primo Appennino Bolognese dove Giuseppe Dossetti aveva fondato una comunità. Mi disse che poco distante, a Savigno, c’èra un fienile in vendita. Da qualche anno c’è un comune unico che li comprende e si chiama Valsamoggia. Sono andato a Savigno per avere un grande studio, per lavorare meglio che in centro città.

MG. Serie Imperiale ha avuto una gestazione molto lunga e stratificata. Partiamo dalla prima fase, con la realizzazione dei due wall painting. Che luoghi hai scelto e perché?

FF. Sono due luoghi di Bazzano desueti ed evocativi, distanti e vicini allo stesso tempo, sono posti alla fine anche un po’ tristi – la saletta della Casa del Popolo è uno stanzone squallido con neon che un po’ sfarfallano e la ex Coop è un supermercato abbandonato che a breve sarà demolito – ma che mi piacciano molto. Stare in quei luoghi è come fermare un po’ il tempo, fanno parte della mia immaginazione, sono dei posti elettivi. Amo i luoghi lontani dal tempo, precari, di semi abbandono, lasciati a sé stessi, ma anche dimenticati e sbragati e scassati. E poi, dopo la questione formale, viene quella concettuale: questi luoghi sono centrali (uno è stato centrale, l’altro è sempre in evoluzione) sono il luogo della politica partecipata e di colore rosso e il luogo del mercato (al coperto): sono la nostra storia e la storia dell’Emilia, per molti aspetti una terra faro per il Paese. Preciso però che è forse stato il destino – e il momento storico – a offrirmeli: parlando col direttore della Fondazione Rocca dei Bentivoglio, ex sindaco di Bazzano, erano i due spazi con meno vincoli e più semplici da occupare. Oggi sono i luoghi scarichi ad accogliere l’arte. Ho saputo poi che la Casa del Popolo è in vendita.

MG. Le opere sono poi state “strappate”, come si dice per affreschi e murales. Perché questa rimozione? Sappiamo bene – la vicenda di Blu a Bologna lo insegna – che si tratta di un’operazione sempre controversa. Ci spieghi le motivazioni che ti hanno portato a questa scelta?

FF. Già nel 2014 avevo fatto fare uno strappo ad un mio murale fatto in una casa in Via Belle Arti a Bologna. Ho conosciuto anni fa il restauratore Camillo Tarozzi e ho pensato di conivolgerlo. Questa pratica l’associo più a Rotella che a Blu, cioè l’asportare e prendere cose dalla strada, anche se in questo caso ci vuole una tecnica complicata.
Nelle mie opere ho sempre usato materiali e oggetti “originali” per il loro significato e così questi muri con una storia e un valore cosi complicato dovevavo essere salvati; solo loro possono essere i supporti giusti di questo progetto. Sono materiali in qualche modo nobili.

MG. Sugli stessi muri hai poi operato una “Otturazione”. In cosa è consistita?

FF. Quello che rimane dal “ratto” di solito è un segno che si lascia o si “chiude”oppure rimane solo come traccia dell’asportazione. Questi segni tecnici a volte hanno forme e figure per me molto interessanti e con una loro bellezza; sono come delle pezze, dei collage appunto di forme su superfici e allora me ne sono occupato. Quello alla Casa del Popolo è stato tamponato e otturato con della tempera bianca, quello alla ex Coop, più che un oggetto trovato, è un segno voluto e riconsiderato e riassunto come opera.
E il risultato di un processo articolato che ha prodotto una specie di fantasma fra ombre e colori stinti.

MG. La penultima fase coinvolge la VR. È la prima volta per te, giusto? Qual è la sua funzione nel progetto Serie Imperiale?

FF. È stata un’idea di Elisa Del Prete, è un dispositivo che conserverà tutta l’operazione, perché prima o poi e in maniera differente, le due stanze non ci saranno più.

MG. L’ultima fase è la mostra, appena inaugurata alla Rocca dei Bentivoglio. Cosa è esposto? Come hai selezionato i materiali di un’opera che vive del suo stesso processo di esecuzione?

FF. Oltre alle due “otturazioni” sui muri, rimane un dittico, due quadri, le “pitture strappate” che sono due tele che per soggetto hanno due francobolli ingranditi che raffigurano Vittorio Emanuele III con dei timbri della Repubbliaca Sociale Italiana e Zara in faccia. Sono francobolli desueti (il primo raro) che ho cercato e trovato in questi anni e che rappresentano immagini complesse e stratificate. Cosa fa l’artista se non cercare di riproporre, di riappropriarsi e di rifare delle immagini ? E’ quello che ho fatto come maneggiare delle scatole cinesi, dove compaiono sempre differenti situazioni e significati.

MG. Chiudiamo con quella che potrebbe essere la prima domanda: cosa “rappresenta” la Serie Imperiale e perché la scelta è ricaduta su queste immagini?

FF. Per il bando dell’Italian Council – lo Stato chiede di sottoporre un progetto – ho voluto cercare di costruire, ricostruire e sviluppare, quindi modificare e alterare, una faccenda sostanzialmente privata, ma che pone delle questioni ancora pesanti per il Paese e non ancora risolte (già il nome che presuppone un impero). Tutto nasce dall’uso della mia famiglia tradizionale borghese di fare la collezione dei francobolli (cultura e investimento insieme. Mio nonno buon filatelico, era convinto di “formare” il nipote con un immaginario sobrio, “alto”, virtuoso e nobile, confidando che le immagini di potere e di una bellezza condivisa, avrebbero costituito una persone saggia e avveduta. Questi due bollini viola fanno parte di quelle tante “cose” che hanno accompagnato la mia vita nel passato; sono due immaginette del re (per puro caso poco dopo che avevo mandato il progetto, si è aperta una grande polemica sul ritorno della salma in Italia del sovrano di casa Savoia) “storpiate” da dei timbri (che in filatelia si chiamano soprastampe) di enti occupanti. In particolare una, quella col timbro RSI (Repubblica Sociale Italiana) è una varietà –una specie di errore- (il timbro di solito era uno, in questo caso sono tre). Quindi ho ingrandito e dipinto su muro, su quei muri, i due francobolli imperiali offesi da eserciti e amministrazioni di occupazioni violente, cambiando il loro stato di immagini filateliche e liberandole dalla cornice dentata che li ingabbia. Dilatandoli su muro abbandonano così la loro collocazione precisa e diventano altre cose capace di generare nuovi teatri.

L’artista non si laurea

A poche settimane dalla notizie del diploma honoris causa allo chef Massimo Bottura conferito dall’Accademia di Belle Arti di Carrara (Bottura aveva già avuto una laurea ad honorem in Scienze Aziendali dall’Università di Bologna nel 2017) e della nomina di professore onorario all’artista Maurizio Cattelan (già dottore in Sociologia nel 2004 elargita dall’Università di Trento) c’è stato il massimo riconoscimento in Scienze Storiche e Orientalistiche a Christian Boltanski nell’Aula Magna in Santa Lucia. Nel suo discorso da appena laureato, l’artista francese ha detto molte cose che spesso marcano la distanza fra il mondo dell’arte e quello accademico. Ha parlato di infanzia, di un tempo passato, di tragedie, di guerra in un sottofondo di attesa e tenue speranza. Ha raccontato del suo essere vecchio e del tempo inesorabile che passa. Come gli artisti consapevoli, Boltanski ha detto cose che un accademico non avrebbe detto, ed espresso in un tono -senza emozione – composto e fermo, con un lieve distacco, autorevole, il suo punto di vista personale -solo gli artisti ideologici pensano di non essere autobiografici-. Sembrava come se stesse parlando un capo pellerossa davanti ad un senato di giubbe blu.
Perché mai l’artista avrebbe bisogno di essere dotto(re)? Perchè mai avrebbe bisogno di un titolo, di una pergamena? Verrebbe capito e compreso meglio dalla società? Ma che se ne fa della corona di lauro, che è un segno che sta di casa sulle medaglie, sugli obelischi, stemmi e blasoni? E perchè mai dovrebbe sentirsi a suo agio in una istituzione che si chiama Alma Mater? Qualche artista ha mai avuto un rapporto regolare con la famiglia? Boltanski è Dottore in Storia (e non in arte) non perchè la sappia (e sicuramente la sa), ma perchè è un interprete della storia. Questo cambio di status, – l’artista è dotto in storia, non in arte -, permette forse all’istituzione di riuscire a comprendere un ambito più consono.
Si è avuto comunque l’impressione che l’artista con la toga, la stessa indossata da tanti eccellenti professori e professionisti, saggi, dottori e imprenditori che fanno viaggiare il mondo solo a diritto e dalla parte lucida, non sia un’immagine adeguata.
Il giorno prima Boltanski si è incontrato, all’Accademia di Belle Arti, con monsignor Matteo Zuppi nel tentativo di dialogare, di accostare fede, ricerca e arte. Anche se l’artista non ha fede e non ha titoli di studio, ogni tanto le istituzioni cercano un contatto, quando credono che l’arte si stia avvicinando ai loro valori e riferimenti. Starebbe forse all’artista marcare la distanza e a volte declinare l’invito, perchè è forse solo con la divergenza che si possono capire a fondo certe cose.