A poche settimane dalla notizie del diploma honoris causa allo chef Massimo Bottura conferito dall’Accademia di Belle Arti di Carrara (Bottura aveva già avuto una laurea ad honorem in Scienze Aziendali dall’Università di Bologna nel 2017) e della nomina di professore onorario all’artista Maurizio Cattelan (già dottore in Sociologia nel 2004 elargita dall’Università di Trento) c’è stato il massimo riconoscimento in Scienze Storiche e Orientalistiche a Christian Boltanski nell’Aula Magna in Santa Lucia. Nel suo discorso da appena laureato, l’artista francese ha detto molte cose che spesso marcano la distanza fra il mondo dell’arte e quello accademico. Ha parlato di infanzia, di un tempo passato, di tragedie, di guerra in un sottofondo di attesa e tenue speranza. Ha raccontato del suo essere vecchio e del tempo inesorabile che passa. Come gli artisti consapevoli, Boltanski ha detto cose che un accademico non avrebbe detto, ed espresso in un tono -senza emozione – composto e fermo, con un lieve distacco, autorevole, il suo punto di vista personale -solo gli artisti ideologici pensano di non essere autobiografici-. Sembrava come se stesse parlando un capo pellerossa davanti ad un senato di giubbe blu.
Perché mai l’artista avrebbe bisogno di essere dotto(re)? Perchè mai avrebbe bisogno di un titolo, di una pergamena? Verrebbe capito e compreso meglio dalla società? Ma che se ne fa della corona di lauro, che è un segno che sta di casa sulle medaglie, sugli obelischi, stemmi e blasoni? E perchè mai dovrebbe sentirsi a suo agio in una istituzione che si chiama Alma Mater? Qualche artista ha mai avuto un rapporto regolare con la famiglia? Boltanski è Dottore in Storia (e non in arte) non perchè la sappia (e sicuramente la sa), ma perchè è un interprete della storia. Questo cambio di status, – l’artista è dotto in storia, non in arte -, permette forse all’istituzione di riuscire a comprendere un ambito più consono.
Si è avuto comunque l’impressione che l’artista con la toga, la stessa indossata da tanti eccellenti professori e professionisti, saggi, dottori e imprenditori che fanno viaggiare il mondo solo a diritto e dalla parte lucida, non sia un’immagine adeguata.
Il giorno prima Boltanski si è incontrato, all’Accademia di Belle Arti, con monsignor Matteo Zuppi nel tentativo di dialogare, di accostare fede, ricerca e arte. Anche se l’artista non ha fede e non ha titoli di studio, ogni tanto le istituzioni cercano un contatto, quando credono che l’arte si stia avvicinando ai loro valori e riferimenti. Starebbe forse all’artista marcare la distanza e a volte declinare l’invito, perchè è forse solo con la divergenza che si possono capire a fondo certe cose.
Storie dell’Arte / Flavio Favelli, la mia casa la mia mente
Maria Chiara Valacchi ha scritto di Flavio Favelli per la rubrica La Nuvola del Lavoro sul Corriere della Sera. L’articolo è stato pubblicato il 9 aprile 2018.
Flavio Favelli, artista nato a Firenze nel 1967, ha circa vent’anni quando la nonna materna gli dona l’appartamento di via Guerrazzi a Bologna dove aveva vissuto da bambino. Studente di Storia Orientale, ma soprattutto naturalmente spinto verso un’innata creazione artistica, si rende ben presto conto che la sua idea estetica è da ricercare oltre il quotidiano. I suoi “ambienti”, sono vere e proprie installazioni che narrano, più di qualsiasi altra cosa, realtà private e il disagio di una famiglia scomoda.
“Penso che l’arte contemporanea, figlia dell’arte moderna, nasca da una vera e propria carenza che l’artista percepisce nella realtà, da qui la spinta naturale di realizzare qualcosa che costruisca un vero e proprio mondo individuale e parallelo…la vera arte nasce dal conflitto, se io non avessi avuto modo di vivere un conflitto interiore e familiare, non avrei avuto la necessità di realizzare oggetti e opere d’arte che in qualche modo possono lenire o supplire delle mancanze affettive”
Sebbene la sua famiglia non sia entusiasta della scelta artistica, conclude il suo ciclo universitario e da autodidatta realizza la prima mostra allo spazio Link Project di Bologna, luogo underground e poco politicizzata frequentato da artisti sopreattutto del teatro di ricerca e della musica. Le sue origini da famiglia e le sue opere introspettive e legate al suo passato sono causa di distanza da quell’ambiente.
“Tutti i ricordi del mio passato, dall’insegnamento di una famiglia borghese – chiusa e con regole rigide – a quelli legati ad un nonno materno – collezionista di francobolli, antiquariato e monete che ha assolto ad un ruolo di padre – sono tasselli imprescindibili del mio operato. Come del resto, tutte le carte degli avvenimenti che hanno interessato il mio padre biologico, dall’annullamento del matrimonio con mia madre alle sue ripetute crisi psicologiche e al suo passato di violenza…oggi io ne sono il tutore e questi scritti riaffiorano nella memoria come fossero forme da traslitterare e concretizzare nel reale. Sono delle ombre indelebili che evocano intrinsecamente ogni mio lavoro; immagini che mettono insieme stati d’animo e un contesto sociale…un’artista spesso ha la capacitò innata di far coincidere questi due differenti ambiti che hanno un imprescindibile percorso parallelo”.
Dopo la prima esperienza al Link a causa del servizio civile si trasferisce in un piccolo paese vicino Reggio Emilia. Per un anno si occupa della biblioteca e il tempo libero lo occupa leggendo libri e giornali; durante una di queste letture si imbatte in un articolo che parla di una scuola creata dallo scultore Arnaldo Pomodoro aperta ad artisti di ogni estrazione e dedicata alla lavorazione dei metalli, Favelli invia la sua candidatura e viene accettato. Saranno tre mesi intensivi, di studio e pratica, con docenti come Francesco Leonetti e Roberto Sambonet in cui realizza che l’arte può essere una professione.
Nel 2003 la giovane galleria torinese Maze lo invita ad esporre, la personale “La mia casa la mia mente” è un successo. La collezionista Patrizia Sandretto lo inserisce nella sua Fondazione omonima e Francesco Bonami lo stesso anno lo invita a prendere parte alla 50° Biennale d’Arte di Venezia intitolata “Clandestini”, esperienza ripetuta nel 2015 per il Padiglione Italia curato da Bartolomeo Pietromarchi.
Nonostante il suo approccio risulti riservato e lontano dalle dinamiche di un sistema dell’arte convenzionale e codificato, negli anni espone in prestigiosi musei internazionali come il Macro e il Maxxi di Roma, il MAMbo di Bologna, il Museo Marino Marini di Firenze, il Museo Riso di Palermo, il Centro Pecci di Prato, il Guggenheim di Venezia, il MoCA di Shanghai, il Musèe d’Art Moderne di Saint-Etienne e all’ Elgiz Museum of Contemporary Art di Instambul.
Molte anche le collaborazioni con curatori italiani trai quali Davide Ferri e Antonio Grulli con cui nasce una vicinanza di intenti e di amicizia, un dialogo in continua evoluzione svincolato da temi unicamente professionali.
Nella sua carriera anche molte occasioni con cui riesce a unire l’opera d’arte ad un’utilità pubblica come le installazioni bar funzionanti al MAMbo di Bologna e del museo MARCA di Catanzaro o “Sala d’Attesa” al Pantheon della Certosa di Bologna e ancora con Francesco Bonami collabora alla realizzazione di “Vestibolo” un’ambiente che si appropria degli spazi della sede dell’A.N.A.S di Palazzetto Foscari a Venezia con un catalogo curato dallo scrittore Mario Fortunato.
“Ho sempre amato la scrittura sono uno dei pochi artisti della mia generazione che redige articoli d’arte su riviste come Repubblica o Doppio Zero; trovo delle affinità intellettuali e sentimentali più facilmente con gli scrittori che con i curatori…”
La sua volontà di creare opere in posti dimenticati, ma pregni di intrinseci fascini, lo porta a Cosenza dove omaggia il calciatore calabrese Gigi Marulla scomparso prematuramente nel 2015, opera accolta con entusiasmo ma criticata successivamente.
“Per me è stata un’esperienza fortissima, sia vivere la partecipazione inziale sia la successiva rivolta popolare, ma ho scelto comunque di non cambiare la mia opera. L‘ho donata alla città e nel rispetto della loro libertà ho dato loro l’autonomia di trattarla come volevano…e’ stato chiamato anche uno street artist a realizzarne una accanto che sottintendesse i canoni “estetici” degli ultras del Cosenza. Questo ha scatenato in me molteplici riflessioni, mi ha fatto capire cosa l’arte può provocare in una comunità e come possa misurare la vera temperatura di un paese e di un contesto sociale, un feedback impossibile da recepire in un sistema artistico educato”
Flavio Favelli è attualmente coinvolto in un nuovo progetto, Serie Imperiale, nella città di Bazzano in provincia di Bologna, vinciotre del bando ministeriale Italian Council, dove ha realizzato alcune grandi pitture murali, una alla Casa del Popolo e una in un supermercato abbandonato della Coop.
Serie Imperiale, intervista con Flavio Favelli
Elena Bordignon ha intervistato Flavio Favelli sul progetto “Serie Imperiale”. L’intervista è stata pubblicata su ATP Diary il 5 aprile 2018.
Propaganda, pubblicità, provocazione, ostentazione, sensibilizzazione: sono tutte finalità che circondano il mondo delle affissioni. Che siano legate al pubblico o al privato, alla divulgazione politica o alla commercializzazione di prodotti. Tutto ciò che è affisso in uno spazio pubblico – parcheggio, piazza, autostrada, pareti di condomini ecc. – ha una dimensione di libera, e direi incontrollata, diffusione. Quale è il tuo pensiero in merito all’utilizzo di questi spazi?
Li ho sempre percepiti come decisivi. Mi sembra interessante oggi vedere che grandi superfici, generalmente pubbliche, siano offerte alla Street Art, pratica con significati illustrativi e soprattutto moralista; l’arte contemporanea che si sopporta è giusto decorativa e positiva. Non da ultimo la scomparsa della politica nelle affissioni nelle ultime elezioni apre la strada solo alla pubblicità che non dà segni di stanchezza. Una delle parole nuove di questi anni mi sembra sia Sotto Costo termine che presuppone qualcosa di losco. Considerando che Amazon è il nuovo mondo Sotto Costo, mi sembra che il panorama sia chiaro. Nel territorio pubblico dove si concentra lo sguardo delle masse e del quale ho molti ricordi e immagini (il paesaggio moderno è fatto di messaggi e scritte e le metropoli sono le insegne che nei notturni sono luminose) cerco di intervenire perché l’ambiente circostante che percepisco come pubblico e quindi come territorio aperto ed estraneo, ha in qualche modo un peso maggiore. Estraneo e pericoloso perché lo intendo in balia del caso, oltre che più vero, perché nella strada della città si svolge il tempo.
Per il progetto che presenti a Bologna “Serie Imperiale”, hai realizzato due wall painting site specific nel centro di Bazzano, nelle colline sopra Bologna. Mi introduci l’attinenza di questo intervento con il luogo?
Ho partecipato con questo progetto al bando dell’Italian Council e volevo un’opera capace di contenere tante cose insieme: due immagini di francobolli desueti del Regno d’Italia con dei timbri capaci di dare, come immagini, delle informazioni stranianti – la sovrastampa Zara come città di una storia piena di ombre, ma anche il noto brand di questi tempi, e quella della Repubblica Sociale Italiana in rosso, una specie di groviglio di segni quasi fosse un tatuaggio tribale sul viso del re – riportate su due muri interni differenti, un ex supermecato Coop e in una saletta della Casa del Popolo, due luoghi emblematici dell Emilia. Direi che ci sono tanti elementi che creano varie situazioni mentali.
Aggiungo che quei francobolli appartengono al mio immaginario dell’infanzia, quando insieme ad altri, erano sulla scrivania di mio nonno, fra profumi talcati, acque di Colonia e un’atmosfera rassicurante: era la casa borghese di fine ottocento con segni del novecento dove cose monarchiche e imperiali, intrecciate da motivi coloniali, si stavano accomodando con i primi prodotti seriali del dopoguerra e del benessere. Sono dei documenti colorati di natura politico-militare (il primo francobollo aveva il profilo della Regina Vittoria) che hanno utilizzato la rappresentazione artistica per diffondere e definire un messaggio di potere. Mi sembra poi che dipingere su muro interno sia un’operazione diversa rispetto alla regola della strada.
Il progetto è stato strutturato in tre parti, con questa motivazione: “tre fasi operative distinte che daranno origine a un’opera composita su più supporti, metafora dello stratificarsi della storia italiana cui l’opera fa riferimento.” A quale ‘storia italiana’ ti riferisci? E perché hai scelto questo determinato periodo?
Qui è la curatela che tenta di dare una spiegazione e un significato. Ho scelto tre fasi perché comportano varie questioni: un dipinto (interno) fra due luoghi emblematici di un territorio, che diventa un dittico di quadri e che lascia un segno formale che mi ha sempre colpito: le otturazioni che hanno a che fare coi buchi stuccati e le tracce occultate, dal pavimento della Stazione di Bologna alle rose rosse di Sarajevo. Che le tre fasi assomiglino alle fasi della nostra storia non lo so e non è una mia preoccupazione. Ho scelto i francobolli del Regno perché sono belli e perché mi ricordano i tempi che ho vissuto in casa dei mie nonni, dove monarchia, Fascismo, guerra e occupazioni si intrecciavano fra storie vissute e disquisizioni filateliche. L’arte poi batte dove il dente duole (è questa l’anima dell’arte moderna) e quindi il nostro recente passato, che non passa mai, apre sempre questioni credo familiari. Per me quel periodo è sostanzialmente una storia familiare, come lo è per la maggior parte degli italiani. E cosa c’è di più vischioso della famiglia? Due mesi dopo che ho presentato il progetto c’è stato il ritorno della salma del re in Italia, con tante polemiche (familiari).
Nemmeno troppo celata è evidente una sorta di critica sociale ai mutamenti avvenuti in questo comune (ma si potrebbe ampliare il discorso a molte altre realtà italiane). Partendo dal fatto che i mutamenti sono percepiti come peggiorativi, ma in realtà altro non sono che un evoluzione delle esigenze collettive, cosa ti ha spinto a sottolineare l’aspetto (tristemente) negativo di queste trasformazioni?
Ho scelto questi luoghi perché sono sostanzialmente desueti e per me portatori di categorie che sento mie. Stanze o stanzoni poco frequentati e abbandonati che appartengono a luoghi che stanno scomparendo. Credo che diano la possibilità di pensare ed sentire sensazioni differenti, lontane dall’imposizione di produttività che impone oggi la situazione attuale. L’artista vede e vive in modo differente questi posti che a breve verranno dismessi (la Casa del Popolo evidentemente non serve più ed è in vendita, la ex Coop verrà demolita). La necessità poetica non coincide con il flusso odierno del tempo, dove i luoghi esistono per il profitto che muovono. La necessità poetica elegge questi ambienti come importanti e simbolici. Coop, nonostante sia proprietaria dell’ex supermercato, ha dimostrato uno scarsissimo interesse, senza dialogo, né confronto. Si sono preoccupati solo di mandare l’ufficio tecnico a delimitare i luoghi di intervento rispetto a regole di agibilità burocratiche. Ci hanno trattato come se noleggiassimo un loro spazio per una festa; da un attore che tutti i giorni insiste sull’impegno civico e culturale non mi aspettavo una reazione del genere. Ma credo sia una questione di ignoranza, Coop ama i grandi numeri e l’arte contemporanea è troppo difficile, elitaria e sospetta per loro. La figura dell’artista forse, per via del suo personalismo, non si integra tanto con l’idea di cooperazione.
Pensi che il tuo intervento provochi una reazione da parte dei cittadini di Bazzano? Quale effetto ti auguri di suscitare?
I cittadini oramai sono occupati in mille cose, un esempio interessante sono lettere ai giornali che arrivano solo per protestare contro multe prese ingiustamente (leggendo si capisce che pochi hanno una chiara idea di legalità e giustizia), contro troppe rotonde agli incroci, per ringraziare il medico di turno o magagne da mense scolastiche. Insomma vite grame dove le reazioni sono idotte da automatismi materiali, pratici, da sbarcare il lunario. Giusto il comune (governo PD) ha avuto una reazione difensiva: c’è l’abitudine a vedere l’opera come immagine qualunque e a tradurla secondo un metodo letterale. Hanno visto i fasci littori del francobollo, il re e la scritta Repubblica Sociale Italiana e si sono un po’ spaventati. Anche se questa è un’opera d’arte, l’hanno tradotta in modo semplice, preoccupandosi solo di dare un significato ufficiale del tipo non è apologia del fascismo, ma una sua critica!
Questa ricerca di significato ufficiale e univoco che vuole separare il bene dal male e il giusto dallo sbagliato è lo stesso terreno su cui si muove la Chiesa (per cui l’arte è un mezzo di culto) e una certa Arte Pubblica (che dà all’arte solo un senso positivo) ed è un terreno angusto e banale. Con le curatrici abbiamo promosso incontri sia al bar Arci adiacente sia alla Casa del Popolo, ma c’erano sempre poche persone, tutti hanno sempre altri impegni.
Il progetto, dopo una fase contemplativa, prevede una fase di interazione. Nell’estate del 2018 i due wall painting veranno strappati e ricomposti su tela. Coinvolgerai anche un laboratorio di restauro specializzato in questo tipo di interventi. Mi racconti le motivazioni di questa seconda fase?
Colui che farà il lavoro ha detto che probabilmente questa è la prima volta che viene commissionato uno strappo prima della realizzazione dell’opera stessa. Solitamente si asporta un dipinto che è in pericolo di conservazione, mentre in questo caso l’operazione è solo artistica, contribuisce ad aggiungere senso all’opera che ha necessità di avere due pezzi di muro originali che sono ben diversi da due fondi di tela. L’unicità dell’intonaco dell’ex supermercato e della sala riunioni della Casa del Popolo saranno così conservati e costituiranno il supporto della pittura del dittico.
Il soggetto di tutta questa faccenda credo che sia l’unicità, la ricerca del non replicabile. Alla fine, come molte mie opere che hanno spesso, da qualche parte, un oggetto o materiale originale ed unico. E’ forse per sfuggire al tempo che passa e alla Natura che fa scorrere il suo essere iniquo. Ogni cosa, ogni opera, ogni ambiente ha una data precisa per cercare di fermare qualcosa. E questo vuole dire essere occidentali e in fondo post-cristiani.
Serie Imperiale. Intervista di Ilaria Siboni
Il progetto le è stato commissionato? Che tempi di realizzazione ha avuto (bando, organizzazione, realizzazione delle pitture)?
No, è un mio progetto vincitore del bando Italian Council. Il bando è complicato, meno male che Nosadella Due mi ha affinacato a compilare le parti più noiose: dico noise perchè oramai tutti i (pochi) bandi sono burocratici e soprattutto danno molto e troppo spazio agli eventi collaterali, cioè non basta fare un progetto interessante per un’opera, ma si deve descrivere e dimostrare (cito dal bando) la strategia di promozione e comunicazione, la proposta di eventi, attività di formazione ed educative… Insomma Giorgio Morandi non avrebbe vinto l’Italian Council.
Da quale elemento è partito per svilupparlo, dai luoghi o dalle immagini/oggetti?
Ho pensato ad un’opera più vicina ed intima possibile al mio immaginario.
Del resto è il mio modo di operare. I francobolli sono parte della mia esperienza; il mio punto di vista è però sul complesso corpo delle immagini:
gli stati attraverso le banconote veicolano l’idea di potere che hanno. E cos’è l’arte se non delle immagini in relazione al potere? Avendo vissuto molto in solitudine, o intensamente in solitudine probabilmente ho imparato a vivere le cose e le immagini – che sono i veri compagni della giornata quando si è soli- nella loro intensità. Cioè i francobolli e le banconote di certi paesi lontani erano “belle” e sostenevano la volta celeste dell’universo borghese di mio nonno dove tutto aveva una ragione ed una collocazione. Questi oggetti, oggi, continuano ad avere questo valore diciamo psicologico. Sono immagini che hanno costruito il pantheon del potere (poco dopo che avevo consegnato il progetto a settembre 2017, a dicembre ci fu la polemica del ritorno del Re Vittorio Emanuele III, in Italia non sono fantasmi ma questioni ancora aperte)
Che ruolo ha avuto, in un progetto così complesso, la curatela?
Direi organizzativa, fra luoghi, presentazioni delle varie fasi e catalogo hanno fatto un gran lavoro. Il catalogo, che poi è un libro è, credo, molto interessante.
La documentazione in VR e la programmazione delle attività legate a Serie Imperiale sono connaturate all’opera o sono nate successivamente?
È stata un’idea di Elisa Del Prete, importante perchè la Casa del Popolo è in vendita e la ex Coop verrà demolita; a breve, quelle due sale dove ho dipinto Serie Imperiale non esisteranno più, in questo caso la VR sarà un documento importante.
Definirei il progetto d’arte pubblica, è d’accordo? Vista la sua natura ibrida, è stato complicato far accogliere l’idea?
Sono molto critico sull’Arte Pubblica, anzi per me l’ideologia dell’Arte Pubblica è una gran brutta cosa. L’Arte Pubblica ha uno scopo (come dice Alberto Garutti) di rivolgersi ai cittadini e comunque ha sempre un fine positivo, preoccupandosi della polis. Io penso che l’arte non debba avere nessun scopo se non quello dell’arte stessa. Mi sembra che l’Arte Pubblica persegua in qualche modo la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è in fondo un’arte del bene contro il male. E’ un’arte con un colore, proprio come ad esempio vuole la Chiesa. Come cittadino ho certe idee, ma come artista sono guidato dalle miei immagini che non si preoccupano se sono immagini giuste o attente all’immigrazione. L’arte, come disse Perniola, è arte, meta-arte e anti-arte allo stesso momento. Se i sindaci vogliono l’arte per abbellire le città con i murali degli artisti (di serie B) della Street Art, se vogliono fare dialogare parti differenti, se vogliono sensibilizzare con la cultura eco e green, benissimo, fanno il loro mestiere, ma quando lo fanno gli artisti per me è avvilente.
Penso anche che più è intima l’opera più può portare a varie riflessioni sociali e politiche. L’opera è pubblica già da sé, se si parla di Arte Pubblica vuole dire forzare, vuole dire non capire l’opera, vuole dire non capire che l’opera ha diversi piani di lettura che non vanno privilegiati e forzati. Un direttore di museo in Italia anni fa disse su Flash Art : …Trovate temi e argomenti più vicini a voi, che anche noi possiamo sentire più vicini. (F. Cavallucci, Arte e libertà, Flash Art n.275, 2009). Certo… Signor No! Spesso gli artisti che fanno Arte Pubblica sono illustrativi, letterali e credo anche che ci sia un grande senso di colpa strisciante: si fanno opere giuste e utili forse per controaltare al fatto che costano molto? Ma la differenza di ricchezza non è una delle cose più odiose del mondo? Forse chi si occupa di arte dovrebbe chiarire queste faccende. Ha un significato più pubblico l’opera di Giorgio Morandi o di Santiago Sierra? Io sarei molto cauto.
È stato molto complicato eravamo sotto elezioni e il Comune è stato freddo con questa opera, il Re spaventa ancora. Ho messo la faccia del Re col timbro Zara alla Casa del Popolo, c’è stato un piccolo dibattito con qualche persona, ma oramai sono finiti i tempi dei dibattiti… Il problema (è sempre colpa dell’Arte Pubblica) è che l’opera d’arte (non c’erano dubbi, dipingere il Re su un muro è un’opera d’arte oltrettutto l’opera ha vinto il bando del MiBACT ed è per lo Stato un’opera d’arte) non si legge come opera d’arte ma solo come provocazione fine a se stessa . Non si capisce che l’opera ha uno status diverso e quindi finché si ragiona sempre con un metro semplice (il Re fascista alla Casa del Popolo) non si capisce niente. Non è un Re fascista alla Casa del Popolo è un dipinto su muro di un francobollo originale (quindi trovato) dove il Re ha in faccia il timbro Zara (la città della ex Jugoslavia o il brand di moda?) Se si mette un timbro in faccia ad una persona è laudativo o censorio?
Che tipo di risposta ha dato il pubblico, in particolare i cittadini di Bazzano? E quale è stata la partecipazione alle tante iniziative che ne accompagnano l’evoluzione?
Non è tempo di partecipazioni. Bazzano è una cittadina seduta, c’era poca gente, i ragazzi al bar Arci non sono venuti a vedere le opere che stavano nello stesso stabile (il bar è a piano terra della Casa del Popolo, la ex Coop è attaccata allo stesso edificio). È tutto finito da un pezzo. L’assessore alla cultura del comune di Valsamoggia non si è mai fatta vedere, abita a Firenze.
La sintesi, la selezione accurata delle parti che vanno a comporre l’opera, l’eleganza, sono elementi che si ritrovano nelle sue opere. A questo proposito per l’otturazione avrebbe potuto scegliere un qualsiasi altro colore compreso uno di quelli che componevano le opere iniziali. Perchè ha scelto l’intonaco bianco?
Sull’eleganza come dici (a tal riguardo per risponderti in modo diretto ti allego una foto di un mio murale) la questione credo sia importante: sono nato in un milieu borghese dove il bello significava le “belle cose”. In casa di mio nonno c’erano vasi cinesi, avori, ceramiche di Faenza, servizi Ginori e argenteria importante. Aveva anche un Fortuny alle pareti e mobili di grande antiquariato. I cioccolatini che non mancavano mai, stavano in una grande ciotola di Barovier e Toso. Questa bellezza ed eleganza, per la persona diversa e consapevole –come l’artista- che riesce a superare questa (diabolica) apparenza si trova in una situazione complicata: se tutto ciò era rassicurante e oggettivamente bello nascondeva però miti e riti banali e tristi tipici dell’idea borghese italiana: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze familiari; senso dei soldi e degli affari, doppiezza e regole di società.
Insomma ancora tutto ciò che regna il modo di oggi, dalla politica alla finanza.
È la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.
Di chi è la proprietà delle opere staccate? E per le stesse si è pensato ad una collocazione “finale”?
Sono dello Stato, del MIBACT. Saranno in prestito al MAMbo di Bologna.
Questo lavoro ha un rapporto con i suoi lavori precedenti? Oppure il suo punto di partenza è l’oggetto?
Ho fatto molte opere con le immagini (dei francobolli). Queste immagini, questi santini, sono ricorrenti, fanno parte del mio ambiente ideale che ho introiettato: è la bella casa borghese, dove succedono le peggio cose. La famiglia era così importante che i miei genitori hanno avuto l’annullamento del matrimonio dalla Sacra Rota…
Ci sono artisti che ritiene suoi riferimenti, da un qualsiasi punto di vista, o che ama particolarmente?
Devo essere sincero: sono talmente inondato da urgenze personali che per i maestri non ho tempo. Vedo che molti artisi citano decine di artisti e intellettuali (Pasolini!) forse per irrobustire la loro poetica… Gli avi sono la mia famiglia e questo mi basta e avanza perché per me l’artista è un autore in conflitto ed è soprattutto solo, senza padri, né madri (perché la mia famiglia sono dei fantasmi).
Nel suo lavoro è importante il rapporto con il pubblico? Ritiene che l’artista sia tenuto, in qualche modo, a rendere conto al suo pubblico?
Ho scritto da qualche parte a riguardo: devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.
Cosa pensa sia legittimo per l’artista contemporaneo? Soprattutto quando interviene nell’ambito dell’arte pubblica.
La faccenda del mio murale sul calciatore Luigi Marulla nel 2015 a Cosenza, riassume la questione: ho fatto un’opera su un muro pubblico e i tifosi e il pubblico l’hanno contestata. Molti mi hanno detto che ho sbagliato perché l’arte su un muro pubblico deve essere presa in considerazione come Arte Pubblica. Mi hanno detto che “se avessi fatto più chiaro il calciatore avresti accontentato tutti”. Ma io non faccio opere per accontentare (le mie opere non accontentano me, figuriamoci gli altri). Avevo in mente un’opera e l’ho fatta. Quell’opera dava informazioni e ragionamenti differenti rispetto all’immaginario comune del pubblico. E’ l’artista che deve dare immagini differenti e non accontentare le masse (i cittadini?) . In una città dove manca l’acqua a corrente, dove si costriusce il ponte di Calatrava più alto d’Europa, dove l’assessore è stato prima Vittorio Sgarbi e poi Padre Fedele, frate noto ultrà della curva, dove un medico pulisce le seppie nel lavandino dell’ospedale e dove per la prima partita di serie B della squadra il campo non è pronto prechè sembra arato, l’artista deve accontentare la città con immagini condivise?
Si è fatto un’idea del perché l’arte pubblica contemporanea abbia acquisito tanta attenzione?
Credo che faccia comodo. Gli artisti che aderiscono all’Arte Pubblica evidentemente sono poco interessati ad avere una propria poetica e pescano da vari temi più o meno attuali (o non ce l’hanno proprio) e sicuramente è più semplice e più remunerativo fare progetti con soggetti cari all’opinione intellettuale oppure di semplice commestibilità per il pubblico. In un momento di grande crisi finanziaria e di un certa sguaiatezza della genti, il sospetto e la distanza sull’arte contemporanea diventa più marcato (se a Roma per il Museo MACRO la giunta Cinque Stelle lo dà per la prima volta ad una persona fuori dal mondo snob dell’arte un motivo ci sarà). Perché dobbiamo spendere soldi per l’arte contemporanea che è per un’elite snob e radical chic si chiede la gente? Il soggetto pubblico così è costretto a guarnire la cosa con la “pubblica utilità”. Alla insistente e martellante domande della masse “che vuole dire?”, “qual è il messaggio?” (dopo venti anni di mostre posso dire che la domanda è sempre quella) l’istituzione deve giustificare in qualche modo la faccenda con un “aiuta l’asilo”, “lavora con gli immigrati” oppure “riqualifica il quartiere”. Cioè l’arte deve servire dannatamente a qualcosa, deve essere utile. Patrizia Sandretto Re Rebaudengo anni fa rispose ad esponenti della Lega Nord di Torino che contestavano tutta la baracca del contemporaneo, che una mostra, mette in moto economie. Ecco dove siamo arrivati: si deve giustificare l’arte perché fa economia. In questo clima utilitaristico l’Arte Pubblica ha buon gioco ed è tutto un rincorerre buoni propositi: si tenta di cercare la verità in grandi tragedie, si sensibilizza sulle minoranze, si opera sulle cattive condizioni dei lavoratori. Si crea un’arte sensibile al sociale con una morale chiara. Il fine è la giustizia, l’etica, i diritti, l’uguaglianza, è un’arte del bene contro il male. Ma questo è la fine dell’arte contemporanea, gli artisti non l’hanno ancora capito.
Quali ritiene siano gli elementi, le dinamiche più significative del suo processo artistico?
Copio e incollo da sopra:
È la bellezza (anche dell’arte del passato) che l’artista svela come ambigua e per questo diventa complessa, non è più fine a se stessa, ma manifesta, per chi sa comprendere e vedere, i lampi luciferini di varie vette concettuali che insieme alla forma, danzano. Questa è la mia storia, ma anche la storia del mio paese, un paese che è sempre stato globale prima che arrivasse la globalizzazione.
Aggiungo la parola piacere. Amo fare le mie opere perchè mi danno un piacere ambiguo che mette le mani fra ricordi di ricordi, immagini e reminiscenze e rievocazioni di momenti vissuti che sono tanto privati quanto pubblici, perchè questa oscillazione fa parte della natura dell’artista. Sembra una bestemmia, ma gli artisti, che fanno sempre gli impegnati, non dicono mai che provano piacere quando lavorano.
L’amministrazione pubblica è stata partecipe e ha collaborato alla promozione del progetto?
Come dicevo prima pochi hanno partecipato e con grande fatica. Molti si sono presi paura del Re. Poi un esempio su tutti: la Coop, che qui ha radici profonde, ha dato un contributo per il catalogo tanto insignificante che il direttore della Fondazione Rocca dei Bentivoglio (ex sindaco PD) voleva rifiutarlo. E il libro ha una lunga riflessione sulla storia degli edifici del quartire che ho scelto come ambiente per la mia opera.
E naturalmente mi interessa chi acquisisce la proprietà del dittico una volta staccato.
È e rimane dello Stato.
Flavio Favelli, Serie Imperiale
Serie Imperiale è un progetto dell’artista Flavio Favelli a cura di Elisa Del Prete e Silvia Litardi promosso dall’associazione culturale Nosadella.due su commissione pubblica della Fondazione Rocca dei Bentivoglio (Valsamoggia, Bologna), vincitore della seconda edizione di Italian Council 2017, ideato dalla Direzione Generale Arte e Architettura Contemporanee e Periferie Urbane (DGAAP) – Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo.
Sabato 24 marzo 2018 alle ore 18.00 saranno presentati al pubblico i due wall painting site specific del progetto Serie Imperiale. Le opere sono realizzate in due luoghi simbolo del centro di Bazzano, la Casa del Popolo e la ex miniCoop, e si inseriscono nella vita e nella cultura emiliana quale prima opera dell’artista per il territorio in cui vive e lavora da più di quindici anni.
Le due opere site specific di Serie Imperiale, presso la Casa del Popolo e la ex miniCoop a Bazzano, rientrano in una pratica che Favelli sta recentemente esplorando, quella dei murali in esterno e in interno.
I soggetti dipinti in due ambienti differenti, anche se parte di un unico complesso architettonico, raccontano uno stato di passaggio che parla di una trasformazione in corso non solo di due spazi, ma di un tessuto sociale, culturale e commerciale, oltre che urbanistico, dove impegno politico, impresa cooperativa e socialità sono chiamati ad interrogarsi sul proprio presente e futuro. Nel porsi in relazione ai due luoghi, Favelli ha prima di tutto scelto di uscire dagli spazi convenzionali dell’esposizione artistica, e di realizzare due opere su muro in luoghi carichi di immagini e storia.
Il soggetto scelto dall’artista per i due wall painting riprende la bizzarra iconografia di due francobolli storici del Regno d’Italia appartenenti alla serie “Imperiale” emessa dal 1929 e in uso fino al 1946, su cui era rappresentato il volto di Vittorio Emanuele III con una ulteriore sovrastampa.
Il timbro era necessario a decretare un diverso stato di appartenenza del francobollo, e qui in particolare quello della “Repubblica Sociale Italiana”, e di “Zara”, occupazione tedesca dopo l’8 settembre 1943.
Favelli riproduce su muro l’effige del sovrano come originariamente figurata sui francobolli storici, portando una riflessione sulle immagini e sui segni di un periodo molto preciso della storia d’Italia, che rappresenta ancora un capitolo sensibile e problematico per il nostro paese.
Al tempo stesso le immagini che l’artista ha scelto provengono da una sua raccolta di oggetti recuperati e trovati, che si compone, oltre che di francobolli, di oggetti semplici, d’arredo e uso comune, di mobilia, suppellettili, insegne, ovvero di tutto ciò che riporta alla sua memoria immagini personali. I suoi assemblaggi, collage e sculture sono caratterizzati da documenti, oggetti e frammenti legati alla quotidianità e alla propria vicenda biografica che l’artista riconfigura in nuove immagini poetiche e visionarie.
Dalla stratificazione storica a quella paesaggistica, a quella personale, l’intervento di Favelli si innesta quindi in un contesto più ampio, che ha a che fare con la vitalità di un paesaggio anch’esso stratificato, collocandosi nel vecchio quartiere operaio di Bazzano, tra i centri che hanno dato vita al più grande comune fuso d’Italia, Valsamoggia.
Dopo questa prima fase denominata pittura, nell’arco del 2018 il progetto attraverserà altre due fasi operative distinte denominate strappo e otturazione, che daranno origine a un’opera composita su più supporti, metafora dello stratificarsi della storia italiana cui l’opera fa riferimento.
La fase successiva dello strappo, a cura del Laboratorio di restauro Camillo Tarozzi, consisterà, dopo il 3 giugno (termine ultimo per vedere la mostra e le due opere murali), nel processo di trasposizione su tela dei due dipinti, e nella trasformazione delle due opere in un dittico. Lo strappo, solitamente atto alla preservazione di un’opera storica, è stato qui pensato e deciso ancora prima che l’opera fosse stata realizzata, rendendo “mobili” le due pitture originariamente pensate per i due ambienti.
L’otturazione, infine, sarà l’ultima fase del processo. Asportati i due quadri dai muri della ex miniCoop e della Casa del Popolo, Favelli si prenderà cura dei due “buchi” generati dalla rimozione dei dipinti “riempiendo” i negativi con nuovo intonaco. Un semplice gesto di stuccatura e rattoppo, che lascerà traccia del processo rievocando di nuovo la presenza dell’opera.
L’operazione artistica al grado zero dell’otturazione coincide qui con l’origine stessa dell’atto artistico: occuparsi di due buchi – dice Favelli – in due luoghi considerati “squallidi”, pone l’accento sul fatto che l’artista ha un punto di vista differente, vede il bello dove di solito il costume del suo tempo non lo vede perché è un bello che passa per il pensiero e quindi diverso.
A completamento di queste tre fasi la documentazione fotografica in VR, a opera della startup bolognese DeyeVR, renderà infine virtualmente perpetua l’esperienza dell’installazione e dei siti che l’hanno ospitata, accompagnando l’opera-dittico su tela in tutte le sue future esposizioni.
L’intero progetto sarà accompagnato dalla produzione di un catalogo.
I due wall painting di Serie Imperiali saranno visibili al pubblico gratuitamente nei rispettivi siti (Casa del Popolo ed ex miniCoop) fino al 3 giugno 2018 ogni weekend (sabato e domenica 9.30 – 12.30, in occasione delle visite guidate e su appuntamento).
Per tutto l’anno il progetto sarà accompagnato da un ricco programma di appuntamenti: visite guidate, percorsi didattici per le scuole, laboratori aperti al pubblico, oltre a incontri con l’artista dedicati all’approfondimento dell’opera.
Intervista di Gianni D’Urso
Intervista di Gianni D’Urso
- Quando hai deciso di fare dell’arte il tuo lavoro?
- A poco a poco non avevo le idee chiare a fine anni 90. Non avendo fatto né istituti d’arte né accademie sapevo poco dell’arte e del suo mondo. Sono andato a tentoni.
- C’è stato un momento specifico in cui hai sentito che era possibile? Per esempio la vincita di un premio o dopo essere stato invitato ad una manifestazione importante?
- Alla fine mi chiedevo poche cose, iniziai a sperimentare al Link Project di Bologna…
- All’inizio della tua attività facevi altri lavori per sostenerti economicamente? (Se si) Quali? Interferivano con i tuoi progetti artistici?
- No, certo facevo qualche progetto che sconfinava nell’arredo e allestimento, ma partiva tutto da miei esperimenti che ho iniziato con il mondo domestico. Stavo facendo la mia casa.
- Come ti sei mosso una volta terminati gli studi?
- Feci il TAM Trattamento Artistico Metalli con Arnaldo Pomodoro e poi andai un po’ in giro… Roma, Torino….
- La tua famiglia ti ha sostenuto o ostacolato in questa tua scelta?
- Mia madre rimase a guardare.
- Come hai vissuto la competizione con gli altri artisti all’inizio della tua carriera?
- Senza la competizione non va avanti nulla. E’ la storia del nostro Occidente e la Storia dell’Arte.
- Come la vivi adesso?
- Oggi non si può battagliare con nessuno, non si può fare polemica, criticare. L’artista non può parlare, non può fare polemiche a meno che non cerchi tabula rasa… tutti a citare Pasolini, ma quegli anni non si scherzava. L’ha vinta la filosofia di Jeff Koons. Gli artisti oggi sono funzionari dell’arte più che artisti.
- Cambieresti qualcosa se potessi ritornare all’inizio della tua carriera?
- Cambierei il mio luogo di nascita e la mia famiglia. Meglio in una di pastori mongoli, vicino al deserto dei Gobi.
- Quando hai venduto un tuo lavoro per la prima volta?
- Non ricordo forse attorno al 1998-1999 forse è stato l’inizio della fine. Ho sempre pensato che lo Stato dovesse stipendiare gli artisti.
- La vendibilità dell’opera ti ha mai condizionato?
- La vendita è la possibilità di sbarazzarsi di opere che gestisci male. C’è anche la distruzione, uso entrambre le pratiche.
- Come sono iniziate le collaborazioni con le gallerie che ti rappresentano?
- Per caso ed è tutto psicologico. Banalmente psicologico. Bisogna lavorare con le gallerie, non c’è altra via, ma devo dire che non è edificante.
- Osservando le dinamiche del sistema, si ha l’impressione che l’artista sia invitato ad una produzione continua e costante. Ti riguarda questo? Cosa ne pensi?
- A me piace lavorare in studio. Piace fare le opere, farne tante. E’ come se fosse un tempo differente. L’importante è sapere che quello che si fa è arte, è un atto differente rispetto al mondo che scorre. Certo oggi ci sono le fiere che condizionano, devi produrre. Tutti gli artisti oggi, tutti, producono per le fiere.
- Hai mai attraversato un periodo di crisi? La cosiddetta crisi creativa? Come l’hai vissuta e cosa hai imparato da essa?
- Crisi sempre, nel senso che non sono contento. Se non si è in qualche modo corrisposti nell’arte è pesante, ma quando lo si è mi vengono tanti dubbi. Troppo spesso il successo è squallido, bisogna riconoscerlo. Crisi creativa mai. Ho il mio mondo da finire, per finirlo non mi basterebbero due vite.
- Come hai vissuto il primo invito alla biennale di Venezia?
- Mi hanno telefonato. Certo ero contento, ma capii subito che era una cosa un po’ così… molto fumo. Non rimane nulla da queste cose preconfezionate.
- Partecipare ad una manifestazione importante come la biennale di Venezia, pensi sia un punto di arrivo o un punto di partenza per un artista?
- Per la verità nessuno dei due. Serve per il sistema, ma poi passa.
- Cosa secondo te, un artista giovane non dovrebbe mai fare?
- Non lo so, non do mai consigli.
- Che consigli senti di dare ai giovani artisti?
- Non lo so, non do mai consigli.
Lo spettatore / il pubblico
Francesca Bertazzoni – Come immagini e quindi descriveresti la figura di uno spettatore (ovvero pubblico) ideale che entra in contatto, si relaziona con il tuo lavoro? Ovvero quali caratteristiche peculiari vorresti possedesse? Se ci hai mai pensato prima, altrimenti prova a farlo ora.
Flavio Favelli – Devo dire che lo spettatore è come un’idea. Per me è più una presenza astratta. A pensarci bene non ho mai fatto fotografare una mia opera, anche se ho fatto ambienti e luoghi pubblici, con delle persone, proprio perché credo che l’arte abbia a che fare con una cosa vicina alla non realtà. Come dice Mario Perniola è arte, anti -arte e meta-arte allo stesso tempo. Il pubblico è un potenziale, è come se ci dovesse essere idealmente ma in realtà non c’è. E’ come il nemico, i Tartari, è come se ci fosse, ma non arriva mai.
FB – Cercando tra i tuoi ricordi di spettatore d’arte mi descriveresti almeno un’esperienza forte e le ragioni per cui la ritieni tale? Ovvero del tuo incontro con un’opera, sia essa oggetto, performance, evento, allestimento, testo, ecc… che nel bene o nel male ti ha sorpreso e che a distanza di tempo ti riporta esattamente a quel luogo, quelle sensazioni (sorta di effetto Madeleine).
FF – Nel Museo per la Memoria di Ustica a Bologna. L’opera è l’aereo e poi successivamente Boltanski ha fatto un’altra opera sul quell’aereo. Già di per sé l’aereo è un totem, un capro espiatorio immolato nel conflitto fra due mondi, quello Occidentale e del Patto di Varsavia o se si vuole fra due visioni differenti, oppure ancora fra dei deliri di quegli anni…
Per Arte Fiera
A causa di Arte Fiera o semplicemente per Arte Fiera è un interessante fenomeno che è entrato, nonostante il ridimensionamento dell’evento di Piazza Costituzione, nelle vene dei bolognesi. Decine di appuntamenti per celebrare arte, arti e variopinta creatività, concentrati in meno di una settimana si affiancano alla manifestazione madre per attrarre il suo pubblico. È così diventata una consuetudine, quasi una festa comandata che fornisce la scusa per ogni evento: moltissime mostre, appuntamenti ed esibizioni credo che non esisterebbero se non ci fosse l’alibi di Arte Fiera. Ed è inevitabile che l’evento prevalga sull’opera, già offuscata dalla pratica stordente del vernissage; ne consegue un gran fiorire dell’installazione, termine disgraziato che chiunque usa per qualsiasi opera d’arte che non sia su tela o di marmo. I recinti sono rotti e i buoi sono scappati da tempo e così siamo diventati tutti artisti, curatori e galleristi, tre occupazioni dove, in fondo, non ci vuole nessun corso, nessun tesserino. Se la grande rivoluzione del cibo ci sta facendo, alla fine, mangiare meglio, non se se si possa dire lo stesso per il gran movimento dell’arte contemporanea, che negli ultimi anni ha assunto un ruolo di assoluto status. La città, come il paese, è ancora comunque spaccata su una questione centrale: il concetto e il significato dell’opera. Tutti a chiedersi in ogni mostra ma cosa vuole dire? Qual è il messaggio? perchè da sempre ci hanno insegnato che è bello o brutto, giusto o sbagliato, bianco o nero. Qual’è il succo? Perché si vogliono risposte che non contemplano altre domande. In questo gran tour cittadino di cose colorate manca un’educazione, manca il tempo mentale di mettersi davanti all’opera, manca soprattutto un momento, necessario, per cercare di comprendere che l’arte vera del nostro tempo ci pone delle questioni che dobbiamo cercare in qualche modo di assumere. Rispetto all’arte del passato, l’arte moderna e contemporanea cerca di abbattere quel vetro, caro a certi, che permette allo spettatore di accostarsi ad un’immagine inedita e farla propria perché è fatta della stessa pasta del nostro vivere, permette al passante di vedere e capire meglio un contesto con una nuova opera che scombina un facile ordine. Che piaccia o no, sono i contrasti il certo soggetto del nostro caro tempo, dove il vero ha mille luci ed ombre che non possono e non devono ridursi ad una comoda eleganza.
I Totem
La lettera del signor Gianluigi Parmeggiani non coglie il senso ironico di quello che avevo inteso. Da più parti ci si è espressi per il ritorno delle sculture di Arnaldo Pomodoro in piazza Verdi. Anch’io sono d’accordo e proprio come il signor Parmeggiani le ricordo come integrate nella piazza (così integrate e vissute che erano coperte di scritte e manifesti). Pongo però, da artista, un problema: quelle tre sculture (si chiamano Cilindri o Colonne Pomodoro non è contento quando si chiamano Totem) non sono state progettate per quella piazza. Sono state messe lì, certo con criterio, lo stesso criterio che è stato usato per i container, cioè la scelta congiunta di artisti, architetti, urbanisti e tecnici che si pongono il problema, visto che è la loro professione, di dove collocarle. Credo che qualsiasi opera di arte moderna e contemporanea difficilmente si possa inserire in un contesto antico, pieno fra l’altro e a sua volta, di differenti elementi che solo il tempo ci ha convinto della loro bellezza. La penso proprio come i conservatori, l’arte moderna e contemporanea non c’entra nulla con le nostre piazze, solo che io credo che questo scarto, quello che fa gridare al cittadino medio e ai reazionari “non centra nulla col contesto!” sia un motivo di grande interesse che presenta immagini inedite su altre immagini. I tre Cilindri in bronzo con varie patine, non c’entrano nulla col contesto di piazza Verdi, sia perchè sono delle opere di arte contemporanea, sia perchè sono state fatte senza prendere in considerazione il contesto della piazza. Se tanti sono per il loro ritorno è solo perché le hanno viste lì da tempo (gli anni ’70 sono già Storia) e le percepiscono come parte del paesaggio perchè, volenti o nolenti, hanno partecipato alla Storia della città.
Via Guerrazzi 21
Non c’è posto più fantasmatico di Via Guerrazzi 21.
Ho vissuto ventisette anni fra il primo e secondo piano in tre appartamenti di questo palazzo. Sono venuto qui nel 1974. Mettendo insieme tantissimi momenti direi che alla fine ho passato qualche settimana della mia vita a guardare il giardino interno, le palme a volte con la neve, i fiori del Calicanto e quelli della Magnolia sempreverde.
Via Guerrazzi 21, insieme alla casa di Pavana, è il luogo dove si sono consumate tutte le faccende della mia famiglia, una grande opera letteraria, dove sono stato un personaggio centrale; in fondo con me finisce tutta la storia. Figlio unico e da dieci anni tutore, quasi a difendere e custodire poeticamente e legalmente tutta questa roba.
Roba perché quello che rimane sono mobili, immobili, oggetti ed immagini di una vicenda infinita. All’ultimo piano delle scale ripide e buie, ora tinteggiate da un colore da Soprintendenza, non mi avventuravo mai perché abitava una strana persona, elegante e distinta, sempre con gli occhiali scuri anche se era buio; il Signor B. era invertito come ammoniva mia nonna Tosca. Nell’altro appartamento abitavano le Signorine S. due sorelle anziane quasi invisibili di Palermo che contribuivano al silenzio e all’idea che l’eccezione confermava la regola: in centro a Bologna ci abitavano i bolognesi.
Il primo grande appartamento aveva i pianciti con la veneziana e i soffitti altissimi, uno era affrescato e mio padre aveva messo due faretti colorati uno giallo e uno blu su un ripiano sopra lo stipite della porta, a smalto lucido avorio, per dare un effetto scenografico. Una volta mia madre fece un pranzo per cinque dei mie compagni della scuola media, anche se non ne capii mai il motivo. Da bere c’era spremuta fresca servita in una brocca-thermos con l’interno in vetro e l’esterno in sughero, lavorata e argentata.
Prima di versare mia madre mescolò per un’ultima volta e il vetro scoppiò, un vetro quasi specchio, marezzato con riflessi ottone. Una volta il nonno Carlo, marito di Tosca, mi rimproverò perchè stavo mescolando il tè in senso antiorario.
Non si mescola al contrario! mi riprese.
Tutto aveva un verso e un posto per lui, i piloni del mondo si reggevano con la precisa applicazione delle giuste regole fra cui mescolare in senso orario. Regole chiare di differenti provenienza: buone maniere, buon gusto, superstizione, Civiltà Cattolica e usanze borghesi. Restai sempre col dubbio che mia madre quella volta mescolò in senso contrario, in modo invertito.