Sventola il Tricolore

Su viale Giovanni Vicini andando verso porta San Felice dall’altra parte della strada c’è la Caserma Mameli, sede della Brigata Aeromobile “Friuli”.
La facciata dell’edificio principale, fine ottocentesca decorata in mattoni, alla sera è illuminata con fari a tre strisce bianco, rosso e verde che compongono la bandiera dell’Italia, il Tricolore. L’effetto è interessante anche perchè un edificio militare è solitamente austero, sobrio, spesso fermo nel tempo, con un carattere e uno stile ministeriale oltre al fatto che l’idea di illuminare in modo decorativo un palazzo riporta alle luci delle feste pubbliche e in generale al passato, alle grandi manifestazioni di piazza quando il potere aveva un volto popolare. I fasci luminosi colorati dei fari usati solitamente per gli spettacoli sembrano diventare sul muro della caserma meno effimeri e più autentici, più ufficiali; l’effetto ha un sapore di bellezza perduta, di una volta, forse per la sua semplicità senza effetti speciali. Il Tricolore illuminato è comunque un evento in un paese dove la bandiera della Repubblica ha uno scarso appeal ed è sempre appartenuta, almeno fino a poco tempo fa, ad una precisa parte politica del paese.
Gli scudetti bianco-rosso-verde sono sempre stati di casa oltre che nel mondo sportivo e militare, sui giubbotti di certe aree sociali. Molto probabilmente siamo la sola nazione dove la bandiera ci accomuna unicamente (e comunque mai completamente) quando scende in campo la nazionale di calcio.
Anche se è una leggenda imparata a scuola o da qualche parte del bianco della neve, del verde dei prati e del rosso del sangue dei caduti versato per il Paese, il significato della bandiera ha dei riferimenti lontani e sbiaditi, nonostante gli ultimi accesi dibattiti per la Festa della Liberazione. Con un’impressione in qualche modo strana e desueta, sui viali di una città percepita come fra le più moderne e avanti d’Italia, il Tricolore luminoso riporta ad un immagine classica e un po’ perduta di un mondo distante dalla società fluida e connessa di oggi. L’effetto della bandiera luminosa è a tratti estranea, a volte conflittuale, a volte familiare nello stesso momento: quei tre colori che vediamo di sfuggita sul viale hanno il potere di legarsi immediatamente alle immagini controverse della nostra relazione personale col Belpaese e la sua tormentata storia.
E’ l’Esercito Italiano su viale Vicini che ci ricorda che c’è dell’altro oltre al fatto di essere stati Campioni del Mondo.

L’arte per Lampedusa

In un bell’articolo di anni fa su questo giornale Mario Perniola scrisse una frase emblematica sull’arte contemporanea: … è tale solo se è allo stesso tempo anche meta-arte e anti-arte. Il crescente numero di artisti che lavorano su temi sociali e politici e che hanno come fine una generale sensibilizzazione ai problemi di attualità è un fatto importante di questi ultimi anni. Un’arte che, fra impegno, mancanza di ispirazione poetica e senso di colpa, cerca di informare, denunciare e in fondo educare per cercare, probabilmente, di cambiare il mondo. Tutto ciò induce ad una diffusa credenza che l’arte in qualche modo possa aiutare a risolvere qualche problema concreto. I (rari) bandi pubblici per opere d’arte e progetti pubblici (di solito quando c’è un parcheggio abbandonato o per dare un volto ad una brutta piazza) oramai richiedono risvolti di utilità e partecipazioni cittadine; per avere un sostegno e un finanziamento da enti e fondazioni bisogna ricercare e marcare fini etici, valori aggiunti di tipo sociale, dialogare con la comunità e il contesto, coinvolgere asili, anziani, immigrati, quartieri e periferie. E’ un periodo questo dove il popolo-ismo, oramai abituato a commentare e dare opinioni su ogni panchina e fioriera pubblica, ha gioco ed influisce, ha gusti semplici e vuole belle morali; in fondo il grande successo della Street Art conferma questa tendenza: la star Bansky non è un robin hood che difende i deboli contro i cattivi della globalizzazione? In soldoni, alla politica, dell’arte contemporanea (che spesso porta polemiche e scocciature) importa il giusto e soprattutto non le conviene andare contro il gusto comune e, se proprio ci deve essere, allora che serva a qualcosa. Questo tarlo della pubblica utilità ovviamente condiziona oramai anche gli artisti (ti do opportunità solo se fai opere e progetti che fanno del bene) che tendono a modellare la propria poetica verso un’arte che ha tutte le carte in regola per diventare ideologica. Sono tanti gli artisti che hanno fatto progetti e lavorato in questi anni sul dramma dei migranti (è stato uno dei temi della grande mostra di Firenze della star internazionale Ai Weiwei) e sui barconi di Lampedusa. Da Thomas Kilpper nel 2008 a Hans Schabus nel 2011, ultimamente da Vik Muniz a Béa Kayani, da Jacopo di Cera e Jason deCaires Taylor, da Isaac Julien a Loredana Longo e sono solo una parte (oltre al regista Alejandro Gonzalez Inarritu el’artigiano artista Francesco Tuccio che ha donato una croce di legno fatta con le barche-carcassa al Papa). La domanda dell’artista Massimo Sansavini, da cui è nato il progetto e la mostra sulla tragedia di Lampedusa esposta all’Assemblea Regionale, mi sono chiesto cosa poteva fare un artista di fronte a quello strazio? è un quesito che dà all’artista un compito legato solo alla necessità dell’oggi, all’agenda della cronaca e dei problemi da risolvere. Quando si dice della crisi dell’arte.

La Fiera dell’Arte

La fiera dell’arte o Arte Fiera, un nome all’inglese e poi riconvertito in italiano, aveva un logo bellissimo, un sol levante quasi intero rosso-arancio, come sospeso, con una grafica pulita in un gioco di lettere vuote e piene. Non so bene se questa bellezza fosse tale perchè legata a certi momenti densi e drammatici della fine degli anni 70 -il dramma nei ricordi diventa spesso bello- o perchè fosse veramente nuova e audace, ma rimane una cosa del passato come l’indiscussa importanza della fiera stessa. Quando si entra da Piazza Costituzione c’è molto moderno, molto cemento e ferro; si notano subito le strutture e gli infissi dello stesso colore del sol levante rosso-arancio a ricordarci che una volta si andava per contrasti forti. La fiera dell’arte è diventata sempre più la fiera con l’arte intorno; famoso in un padiglione di anni fa il (grande) vetro dove dietro lavoravano le sfogline per un ristorante temporaneo con le pareti in cartongesso. E’ come se in qualche modo le patine lasciate dalle mostre dei motori, delle piastrelle e delle macchine agricole indebolissero le opere esibite, l’arte stessa, negli stessi casermoni e illuminate da faretti a luce gialla. Gli spot, i piedistalli, le moquette grige, i tavoli coi fiori, qualche stand (non c’è parola italiana decente per definire un’idea di stanza effimera marcata da cartelli, senza soffitto e con pannelli di compensato riverniciati) che prova a distinguersi con pareti nere o in tessuto ignifugo, tentano di guarnire in qualche modo un mercato coperto annuale dell’arte con un centro servizi. La fiera con la sua propaganda, oltre a riuscire a nominare della gente comune come VIP, è così autorevole che conferma in maniera decisa il valore dell’opera dell’artista. Il grande complesso riscaldato di piazza della Costituzione è stato uno dei primi luoghi al mondo dove, insieme ai panini della Camst e ai flute della maison di champagne che ha sempre il suo chiosco, si consuma uno dei più grandi drammi della nostra storia: l’opera d’arte moderna e contemporanea diventa l’unica merce capace di mantenere allo stesso momento opposte proprietà; l’opera può avere un alto valore commerciale ed essere di una natura esclusiva, à la page, un simbolo di distinzione e di classe e insieme mantenere inalterata la sua natura critica, bastarda, reietta ed estranea alle leggi mondane. L’opera d’Arte Fiera è l’unica cosa che incarna e abiura allo stesso istante, come se un brodo potesse essere sciocco e salato allo stesso tempo, le due leggi che muovono il mondo: la mercificazione della donna e il denaro. Negli spazi istituzionali, insieme agli stands di musei e fondazioni che cercano di captare gente, ci sono le banche, oramai di casa in fiera, con servizi di consigli per gli acquisti. E anche quella off che espone alla Stazione Autolinee, un altro spazio molto moderno che ora sembra quasi uno squat, si chiama con un nome inglese che fa rima con gli affari. Durante l’Arte in Città o Art City, la fiera dell’arte che si sposta in centro, spicca quest’anno Lo scintillante mondo di Murakami Takashi in Galleria Cavour, che è -ci informa il comunicato- la galleria dello shopping hight brand nel cuore di Bologna.

Wolfango artista

La presentazione dei quattro pastelli di Wolfango ha riportato a galla la questione sulla esclusione del maestro: come dice Eugenio Riccomini, il mondo dell’arte contemporanea non ha mai preso in considerazione il pittore, mai invitato a nessuna Biennale, nè alle nostre gallerie d’arte moderna. Se si guarda alla sua storia si comprende il suo insuccesso: poche mostre in trent’anni e in luoghi non così importanti che forse sono solo il risultato della sua scelta di stare fuori dal Sistema, come lo chiama il pittore, che rifiuta di essere chiamato artista e che Riccomini classifica come non catalogabile. Uno che ha dipinto enormi quadri che vengono costruiti nello studio così che non possano uscirne, a ribadire la volontà di estraneità al Sistema, non può aspettarsi tanto da un mondo dell’arte contemporanea sempre più cortigiano e in cerca di artistar. Chi abbia in qualche modo assistito ad una conferenza stampa in Comune, avrà incontrato la sua grande tela Il cassetto, una specie di macro-istantanea su cose di un autore maschile bolognese dentro un vecchio cassetto riprese dall’alto. Ed è proprio questo punto di vista zenitale il modo di operare di Wolfango che elimina la linea dell’orizzonte (non più l’alto, non più il basso): in tal modo lo sguardo viene come dal di fuori. Ma anche se una delle questioni cruciali dell’arte moderna e contemporanea è proprio un rapporto diverso, nuovo, articolato e conflittuale fra l’alto e il basso, Wolfango non vuole sfuggire ad un confronto col Moloch della modernità e l’affronta in modo differente: la luce è un tema decisivo dei dipinti, c’è sempre una specie di raggio o proiettore che irradia i soggetti con una luminosità artificiale che li nomina a super nature morte in un clima sovraccarico. Da qualche parte si percepisce una specie di bagliore prossimo all’oscenità, un qualcosa di carnale, una sottile tinta lasciva, laccata, quasi pornografica – con tutta la sua complessità e forza- che forse è volutamente imbrigliata e soffocata non dai contenitori che contengono e custodiscono, ma dai temi e soggetti della tradizione. Questo gioco a rimpiattino con la contemporaneità così tenuta a distanza a parole, si affaccia spesso in maniera decisa e in modo assolutamente improvviso -cosa c’è di più drammaticamente moderno di un condom usato che marcisce sull’asfalto?- insieme a certi titoli come Le arance sul tavolo di plastica nera, che rivelano una consapevolezza surmoderna. Dove il tavolo di plastica nera forse ci dice del tentativo di sbarazzarsi dall’orizzonte sacro e dalla briglie della Bellezza e ci porta in mille rivoli che aprono scenari multipli dove la pittura alla fine sembra solo una scusa. Così come il fegato impacchettato nella plastica del Lo scatolone della spesa con uno struggente scontrino umido timbrato meccanicamente e appiccicato su una confezione seriale di uno squallido supermercato del 1971. Tanti auguri artista.

 

La carcassa

Appena superato Calderino, verso Savigno o Tolè, una strada provinciale sui colli bolognesi che la città fa per andare a mangiare fuori porta o per fare dei giri in bici, sulla destra, vicino alla piccola zona industriale, poco prima dei calanchi che accompagneranno un lungo rettilinio, c’è da tempo una carcassa di un’auto nera di cui si scorge subito il fianco destro e la parte posteriore.

E’ una Golf Volkswagen modello GT nemmeno tanto vecchia, con le targhe, senza gomme e senza i quattro fanali. E’ adagiata in uno slargo di terra battuta, pieno di pozze e fango, un piccolo piazzale che dà un immediato senso di smarrimento, squallore e degrado. Sul lunotto c’è un adesivo di un grande scorpione rosso: la figura è stilizzata e rappresenta il simbolo della Abarth, scuderia sportiva di auto da sempre di casa Fiat e che non c’entra nulla con la Volkswagen.

L’immagine aggressiva e sportiva della Golf (ma non è lento e tranquillo il gioco del Golf?) osannata dalle genti del Gran Turismo ossessionate dalle prestazioni, di colore nero, il colore più ganzo, il massimo per suscitare ammirazione, si carica con lo scorpione rosso, tono che riprende i bordi gommati dei fianchi e delle fessure della chiusura delle due portiere, accessori personalizzati forse di elaborazioni successive.

La mancanza delle gomme, dei fanali e un finestrino posteriore sfondato, contrastano con la carrozzeria lucida senza ammaccature e i paraurti in buone condizioni. C’è molta differenza fra questa immagine nella Valle del Samoggia e quella della macchina abbandonata, un classico del Meridione italiano che comprende anche la regione del Lazio. Nel(la) Golf con scorpione risalta una certa compostezza, nonostante i buchi al posto dei fanali, comunque asportati con perizia senza scassi superflui e i mozzi a vista arruginiti senza gomme. E’ un contesto differente questo, che non spacca gli altri cinque vetri, che non asporta l’antenna, che lascia chiuse le portiere e non riga la vernice.

Sul cofano, vicino al vetro, c’è un pezzo di mattone, antitetico con la carrozzeria, ma è solo appoggiato, quasi in modo gentile. Insomma, nonostante il degrado, nella carcassa c’è una certa moderazione, una tinta di ordine, seppur lieve, che la differenzia dal classico rottame che si trova in qualche periferia del Sud, di solito depredato, scarnificato e completamente offeso. C’è un qualcosa, quindi, di gentile che però stride con una certa e difficile bellezza assoluta dell’abbandono. C’è qualcosa di finto, di non finito, di non autentico. C’è qualche traccia di dignità che non dovrebbe esserci.

Portate via questo falso esempio di desolazione.

Italia e Bologna

L’anno scorso ho telefonato a Enel per il contratto del mio nuovo studio a Savigno.
La gentile signorina mi chiese quale attività svolgessi. Scultura e pittura, artista risposi, del resto da vent’anni non faccio altro. L’addetta di Enel disse che non esisteva la voce artista e mi pose subito una domanda senza scampo: la metto fra gli artigiani o i liberi professionisti? Per Enel, come in generale per il Belpaese, l’artista è una persona non reale, che non esiste e comunque non ha bisogno di energia elettrica. L’arte attuale è una cosa lontana, che ogni tanto va giusto ricordata. Bisogna infatti sapere che nella cultura di massa del popolo italiano l’idea di arte del proprio tempo è ancora legata indissolubilmente alla scena del film Le Vacanze Intelligenti con Alberto Sordi alla Biennale di Venezia. Il fatto che molte opere di artisti viventi vengano vendute a cifre più alte delle quotazioni dei nostri Maestri del Passato, ha però incuriosito la classe dirigente del nostro Paese che ogni tanto si accorge che l’arte contemporanea esiste; solo davanti a certe cifre la faccenda non può che diventare seria. Nel 2005 ci fu la mostra Bologna Conteporanea alla GAM, una mostra generale per censire quasi settanta artisti degli ultimi decenni. A distanza di undici anni la città si propone la stessa domanda con una modalità differente, un chiaro segno dei tempi: la retrospettiva dell’arte bolognese si tiene in un museo privato, proprio mentre al Mambo, la galleria comunale, c’è David Bowie, un’esposizione fatta di qualche centinaio di oggetti che non sono opere d’arte (e se ce ne sono non le ha fatte Bowie) insieme al suo shop itinerante e varie amenità.
Visto la natura di questa mostra –che veniva dal Victoria and Albert e non certo dalla Tate Modern- in una città normale sarebbe dovuta andare a Palazzo Fava –adatto alle mostre viaggianti, di cartello e globali, quelle insomma che piacciono all’Ascom- mentre invece quella sull’arte di oggi nella sede comunale.
Ogni due lustri -un artista in salute ne può timbrare anche sette-, Bologna, che ha in uno dei suoi simboli una scultura in bronzo, si accorge che si fa dell’arte in città e che bisogna farla vedere, anche se oggi, come allora, non ci sono fondi per produrre opere inedite. Bologna Dopo Morandi si sarebbe dovuta mostrare nella sede istituzionale del Mambo, con incontri, dibattiti e discussioni – a che serve un museo se non ci si incontra e non si discute?- chiara scelta culturale e politica –sì perchè l’arte è anche politica-, in uno spazio progettato per l’arte di oggi con ampie sale e senza i soffitti a cassettoni, i caminetti e la potestà dei Carracci in mezzo. Si legge poi che la mostra nel Palazzo delle Esposizioni bolognese chiuderà proprio prima di Arte Fiera, l’unico periodo di scambio col mondo contemporaneo in città. Ma non è per questo motivo che ho rinunciato all’invito ad esporre nella bomboniera di Palazzo Fava.

Il Manifesto

Il manifesto del 2016 dell’Associazione tra I familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 è praticamente uguale agli ultimi 33 manifesti degli ultimi 33 anni. Nella frase posizionata in basso, la sola cosa diversa ad ogni anniversario, recita: Il paese deve sapere chi tramite Licio Gelli fu tanto determinato contro la democrazia da finanziare una strage di 85 morti e 200 feriti.
La parte superiore del manifesto è sempre la stessa, c’è la data e un titolo: Strage fascista alla stazione di Bologna, con 85 morti e 200 feriti in colore rosso. L’aggettivo fascista c’è dal 1994. La foto centrale è invece la medesima da 34 anni: la lapide della Stazione, quella interna con la parete lacerata a destra; i lati sono neri e sotto c’è il buco della bomba sul pavimento di mosaico con balaustra di acciaio a protezione. In basso all’angolo sinistra appare l’ultima parte di una panca, quelle che si usavano dagli anni Sessanta, composta da sedie e se ne vedono tre. Un’immagine per nulla cercata, nè studiata, presa al volo, amatoriale, con la luce non uniforme e con ombre che disturbano il soggetto. Il fondo del manifesto è bianco e tutto l’insieme ricorda una copertina di un libro Einaudi. Nel complesso è un manifesto vetusto, annoso, con un’immagine spigolosa, a tratti respingente, con testi duri e un linguaggio datato. E’ un manifesto con nessuna attenzione alla comunicazione; si vede subito dalla seconda riga: in Italia l’accusa di fascismo irrita già la maggioranza del paese. Si può comunicare un fatto del genere in modo differente? Magari con creatività e stile per divulgare, trasmettere, diffondere e per non dimenticare? Come fare per dire di quella data, l’inizio degli anni Ottanta, in pieno anni di Piombo, coi tram col muso che sembravano un cappello di polizia, come il 37 che divenne un carro funebre, col suo rumore da guerra fredda? Anni fa qualcuno voleva che il Museo per la Memoria di Ustica si chiamasse Memorial; un nome che cercava di alleggerire la faccenda, un nome più moderno – la lingua inglese è sempre più moderna della nostra – che sapeva anche di linguaggio sportivo, forse per cercare di alleviare la pesantezza di una vicenda che divide ancora. Ma c’è qualcosa che può sollevare un DC-9 affondato in quasi quattromila metri di mare? Forse il ricordo, la maledetta memoria della bomba del 2 agosto 1980 – il mese delle vacanze – può essere rappresentata solo da una grafica spigolosa, raccontato da testi duri, quasi desueti e per nulla social, mal confezionati per oggi. O da una foto che svela un pavimento di mosaico severo, povero, ma non so perchè elegante, una foto venuta male, che prende per sbaglio una panca della sala d’aspetto, quelle rigide, di legno curvato e scomode, forse di seconda classe e che non sapevamo ancora che fosse design.

La più bella notte di mio padre

Ho vissuto con mio padre fino ai 6 anni, poi la malattia si è portata via la sua testa, anche se non ha mai avuto un raffreddore in vita sua. Sindrome delirante di tipo schizofrenico e schizofrenia paranoidea recita la perizia psichiatrica del tempo.
Come figlio, e da una decina d’anni come tutore, lo vado a trovare una volta ogni qualche mese. Manlio Favelli, che si definisce poeta, nonostante i farmaci – avrà preso neurolettici per più di cinquant’anni: pasticche, capsule, pillole in tutto più di un quintale di roba- si regge ancora in piedi e a volte mi racconta ricordi, senza capo nè coda, immagini sparse, storielle vissute e interi pezzi di vita, fra Firenze e Bologna. Ci fu un periodo, verso la fine degli anni 70, che era all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, ma non si sa se per buona condotta o per furbizia riusciva a passare la notte fuori o almeno così mi raccontava. Con pochi soldi, preferiva passare le giornate in giro, era ferroviere e saliva e scendeva su tutti i treni, come uno senza fissa dimora. Quando ero ragazzo una volta lo incontrai in via Indipendenza quasi di fronte alla scala del Parco della Montagnola, aveva la barba lunga e il borsello di pelle, come usava allora. Tempo fa gli chiesi se quella volta mi avesse riconosciuto. Il problema del sonno e del dormire lo ha sempre accompagnato e anche se si sentiva sempre stanco una volta mi disse che bella invenzione il letto! Ma la sua notte più felice la trascorse sull’erba. Anni fa mi raccontò quella spensierata esperienza che fu d’estate alla Stazione di Bologna. Faceva molto caldo e si bevve d’un fiato una bottiglia di Amaro Medicinale Giuliani allungato con l’acqua (mio padre non ha mai bevuto alcolici e aveva una passione per tutti i medicinali). Si lavò, in mutande, con grande sollievo, in una delle fontanelle e si addormentò sul prato che molto probabilmente era la grande aiuola di Piazza delle Medaglie d’Oro. Ricordo bene ancora il suo sorriso a raccontare questo episodio libero e beato senza tempo e senza regole. Non gli sembrava vero di avere dormito così felice dopo una bagno alla fontana e tanta gente simpatica attorno.

 

Una Quarta Veduta

Forse, dopo il Terzo Paesaggio teorizzato da Gilles Clément, si potrebbe ipotizzare un’altra meta-zona, una Quarta Veduta. La Quarta Veduta sarebbe un luogo artificiale dimenticato del suo significato, tralasciato, non più notato anche se ancora presente e integro. Non ho altri termini per chiamare così l’opera non abbandonata, ma credo inosservata – il contesto è proprio decisivo – della Fontana di Quinto Ghermandi che è davanti al padiglione delle Nuove Patologie del Policlinico Sant’Orsola.
Il complesso di bronzo è interessante perché riprende la grande tradizione delle fontane, oggi praticamente scomparsa; le due vasche in cemento, dentro una grande aiuola, accolgono due gruppi in metallo che hanno a che fare, con qualche distanza, con piante e steli vegetali. Due gruppi di foglie enormi, quasi prestoriche, che ricordano la Gunnera e i padiglioni auricolari degli elefanti, sono viscidi e bagnati dall’acqua che zampilla, insieme a certe canne un po’ midollino un po’ d’organo che ci dicono di una Natura molto moderna e che in quel tempo il verde era solo un colore. Dischi, pali, tubi sono opposti a quello che allora era la Natura e il Naturale. L’invaso grigio di calcestruzzo forma più una pozza d’industria che una vasca coi pesci rossi di un giardino all’italiana. C’è qualcosa di assoluto, da epoca post atomica, in questa Fontana di cemento nudo con corpi freddi e forme ombrose. Attorno alla grande aiuola passeggiano i malati, passano i parenti e, a marcia ridotta, vanno e vengono le ambulanze. Una grande attrazione, che forse Ghermandi non aveva previsto, sono le decine di tartarughe, che rafforzano un’idea di preistoria e di un superfuturo: i rettili – i film e i libri ci hanno abituato così – sono quelli che c’erano e che rimarranno un domani. Chissà se l’autore abbia progettato l’opera tenendo conto del contesto, dell’ospedale o proprio del padiglione delle Nuove Patologie, ma il quadro complessivo, a vedere bene, è di grande intensità.
Mesi fa è stata ricoverata mia madre proprio in quel padiglione; c’era poca speranza e l’operazione non era semplice. Sono entrato un venerdì di fine marzo costeggiando l’aiuola e la Fontana. Era una giornata di sole e le tartarughe nuotavano felici. Mia madre non ce l’ha fatta e al reparto rianimazione – funzionale, organizzato e moderno – un luogo tanto artificiale da sembrare astratto, l’ho vista, l’ultima volta, addormentata.
Davanti alla Fontana ho provato un senso di conforto. Era immobile come sempre, lì, a sfidare il tempo e a testimoniare che l’Arte è diversa dalla Terra, dalla Natura e dalle sue leggi inique, severe ed eterne. È lì a dirci che l’Arte è finzione, che sta su un piano differente, è concetto e utopia. È artificio e astrazione, proprio come l’idea del reparto del padiglione delle Nuove Patologie.

Lo strappo del velo

Quello che non convince di Blu, di molta Street Art -Bansky compreso- e di tutta l’Arte che vuole essere Pubblica è che cercano una relazione con quello che avviene oggi e con quello che vuole idealmente -e a parole- la società. La loro poetica cerca sempre un qualcosa di reale, di attuale. L’opera di Blu, proprio come la saga-battaglia finale all’XM24, è popolare e usa un linguaggio immediato ed efficace per portarci nel grande conflitto del Bene contro il Male, della Giustizia contro l’Iniquità che soprende il passante nell’anonima periferia spesso abbandonata. L’arte così si posa su un muro scrostato o su un edificio emarginato e dialoga con la gente (anche se ci ha messo un po’ a capirla, come dice il presidente del quartiere Navile) che vede meglio attraverso le grandi pennellate della Street. Blu è popolare perché la sua arte è popolare, perché è nella strada, fuori dai palazzi e musei, e il suo significato, per sommi capi, è condiviso.

Blu non è l’artista snob, concettuale e complicato, ma un Robin Hood anonimo che dà voce a chi non ce l’ha. Senza firma e senza autore, la pittura diventa di tutti in un luogo che prima era di nessuno. Opera data che si fonde nella città attraverso l’intonaco marcio. Il gesto di Blu -e del suo popolo- più di cancellare è un resettare e appare subito molto interessante. In un mondo dell’arte dove l’interesse è perennemente vago e disattento, scandito solo da preview e vernissage, il gesto estremo diventa insopportabile ai più che non contemplano nessuno strappo. Tranne quello che porta i murales al museo. Ma questa revoca-azzeramento non è altro che lo strappo del velo del tempio, che impedisce di vedere la condizione e la contraddizione dell’artista lacerato.

L’arte è per natura esclusiva ed elitaria e chi la vuole popolare e accessibile sbattte contro un muro più grande di lui, che stavolta non può dipingere.

In una Repubblica fondata sul lavoro, chi annulla e annienta non ha scampo, nemmeno se è un gesto d’arte, nemmeno se è disperato, nemmeno se il gesto è rivolto alla sua stessa opera. Con una pletora di pareri chirurgici si è discusso di legalità, di diritti, di possesso e di proprietà di queste opere. Sull’eredità pare ci siano ancora dei dubbi.

Blu è un martire che non fa vittime, accusato da una comunità distratta e conformista, preoccupata solo della perdita di quello che non sarebbe mai stata capace nemmeno di immaginare, ma che pretende di possedere. Blu è un cristo senza croce, chiamato in causa da un’istituzione che con tutti i nobili propositi possibili non fa altro che trasformare i suoi slanci spontanei, impegnati e destinati ad un composto e consapevole oblio, in quadri con le attaccaglie e con i contratti di assicurazione. E’ di un designer, Enzo Mari, una definizione che da tempo rimugino quando sono davanti a un muro: la creazione è un atto di guerra, non un armistizio con la realtà.