La ragazza conturbante

L’ostensione de “La ragazza con l’orecchino di perla” o “con il turbante”, oramai servono termini liturgici, è stata anticipata di una settimana, al 31 gennaio, sia per non lasciare raffreddare l’allenamento visivo iniziato con Arte Fiera, sia per marcare la distanza siderale fra l’arte di oggi e quella del passato.

L’opera è celebre da poco, da pochi anni (la Monna Lisa lo è da più di un secolo) perché piace, non solo alla gente che piace, ma a tutti.

È famosa da poco perché interpreta quello che un vasto pubblico vuole che sia oggi l’arte. E questo l’ha capito il curatore Marco Goldin, direttore di Linea d’Ombra, ma amante dei riflettori, che in un’intervista sulla mostra di Bologna, sentenzia: “… ho la fortuna che il mio gusto coincide con quello del pubblico”.

Non si sceglie, ma si esaudisce.

Non c’è nessuna offerta se non adeguata alla semplice domanda, non c’è differenza.

Il critico dà quello che vuole lo spettatore che per questo paga il biglietto in anticipo.

Il pubblico si specchia nell’accecante fascino del quadro, rimanendo stordito dalla bellezza che ama e che vuole.

L’opera non va più interpretata, riscoperta e tradotta, ma solo esposta al momento giusto.

La “Gioconda Olandese”, con qualche lampo ambiguamente maschile, è bella, esotica, misteriosa e sensuale. Lo sfondo scuro, la bocca socchiusa col lucidalabbra, la perla che brilla, il turbante che sa di Oriente e uno sguardo conturbante ne fanno un’icona moderna, u’’antica bambola suadente.

Forse stanco delle opere difficili, intellettuali, dure, concettuali e provocatorie, il pubblico vuole finalmente la bellezza, la sola che fa rima con l’arte.

Una delle forze del dipinto sta nel fatto che il ritratto non è vero ritratto, ma una “tronie” cioè uno studio, una raffigurazione di un volto ideale e questa immagine ideale si sposa con quello di oggi. Una grande mostra di successo, oggi, si fa con un’opera di pittura del passato e con un ritratto ideale di giovane donna.

Il dipinto è denso, netto, conciso, è poco più grande di un A3.

Non si vedono ambienti, contesti, non ci sono narrazioni: il ritratto, come in una pubblicità di una crema di bellezza, parla da solo e dialoga con ogni spettatore.

È un’mmagine adatta anche per le torte, che si mangia a morsi, impensabile con Padre Pio o con quella della Gioconda.

Quando saremo davanti a lei, illuminata da uno spot e dalla grazia, ci sembrerà ancora più vera, ancora più bella, con quelle labbra carnose alla Scarlett Johansson.

 

La figura facile

Nell’infinita offerta di tipologie, tecniche e immagini proposte oggi dall’arte, forse quella che da tempo mostra segni di stanchezza è la scultura figurativa. Vuoi perchè la carcassa a tempo che ci portiamo addosso pone delle questioni spinose (insomma basta e avanza) o forse perchè la rappresentazione del corpo – in tempo di fresche carneficine – è ancora un grosso problema, ma proporre oggi una statua con riferimenti umani è credo una pesante leggerezza.

Alla fine, a differenza delle cose e dei paesaggi, noi siamo sempre noi e la figura umana si porta dietro un tale bagaglio, ribadito da infiniti pantehon di immagini, che sarebbe il caso di lasciare perdere. Dopo qualche millennio di altissima statuaria, dopo l’esercito di monumenti celebrativi con la varianti equestri e un intero popolo di figure in marmo e bronzo che abita i cimiteri, c’è ancora qualcosa da dire?

Due lampi, forse, chiudono definitivamente il conto: le opere recenti di Marc Quinn che rappresentano persone con gravi malformazioni o arti mancanti e le immagini delle statue a testa in giù dei tanti regimi caduti.

Tuttavia la scultura è ancora viva e popolare e in città gli esempi sono molteplici: dall’autorevole Nettuno fino al recente San Petronio sotto le Torri, dal gruppo del Compianto all’esile bronzo della figura di Lucio Dalla, dal marmo del Galvani al tuffo del goleador Ezio Pascutti nella rotonda Bernardini.

Delle tre maggiori fiere d’arte contemporanea in Italia, Bologna è la più nazional-popolare, e più di Milano e Torino, espone scultura figurativa.

Passato l’interesse per i soggetti cinesi, rimangono le proposte con temi ellenistici e ispirazioni classiche, schiere di ominidi implosi, cristi di ogni passione, cavalieri troppo esistenti, salme spirituali, marmi antropomorfi, bronzi rodin-izzanti, prigioni in meditazione e manichini disumani.

In questi giorni, giusto aldilà della Futa, si è svolto l’incontro ufficiale fra Matteo Renzi e Angela Merkel celebrato proprio sotto la statua della statue: il David di Michelangelo.

Il Premier, l’uomo del voltare pagina, si è affidato alla scultura classica nella città museo di Firenze – che vorrebbe capitale – per rappresentare il Paese.

Il David ha più di cinque secoli e, come tutte le cose antiche, ha allarmanti segni di logoramento. In particolare, l’opera, è di un marmo di non grande qualità, è fragile nella base, soprattutto nelle caviglie e la posizione del corpo inclinato, con vecchie lesioni e nuove fessurazioni, crea trazioni che ne minano la stabilità.

Il capolavoro

L’opera del Guercino rubata giorni fa, La Madonna con San Giovanni Evangelista e San Gregorio Taumaturgo, è un dipinto poco interessante. C’è la Madonna, con il viso un po’ da Madonna, un po’ da popolana; c’è l’angelo, il solito angelo, con il viso da angelo e ci sono i due santi, di cui uno molto bello. Tutti personaggi tanto belli, quanto desueti e lontani, come i Sansoni e i San Giuseppe, che sono solo belle interpretazioni di un mito antico oramai passato. Non c’è un significato moderno, non c’è una bellezza moderna, il quadro è antico. C’è una bellezza ideale, oltre che politica e di propaganda oramai esausta e fine a se stessa.

Questi assoluti capolavori, così tanto assoluti che sono a centinaia nel Bel Paese, sono dei reperti scarichi che parlano agli appassionati di pittura con gusti antimoderni. Certo, sono assolutamente belli e se ne può discutere senza fine dello stile, della luce e dell’ombra, dei contrasti che ammorbidiscono o incupiscono, come si parla di un tramonto che commuove. Ma il modo di vedere donne, uomini, madonne e angeli non ci riguarda più, non ha più significato oltre ad avere un grande difetto: ci separa dalla realtà. Ci scinde fra un passato lontano, passato per sempre, dove le cose erano belle per davvero e un presente assolutamente diverso.

Ammaliati e storditi dal mondo dove l’arte era bella, perdiamo contatti con questo. L’estetica, l’idea di bellezza, e così di società, rimangono marcate per sempre da questa magia irreale che rimane separata dalla nostra vita. Se solo il passato è bello e ci emoziona, vuole dire che il presente è brutto. E nell’orizzonte del brutto si vive male.

Così si comprende la nostra storia di oggi: abbiamo infatti trasformato un museo a cielo aperto in una discarica. Siamo cresciuti solo con un’idea di arte alta e perfetta, un Ideale Classico che ci fa credere di essere portatori sani del bello e del Buon Gusto.

Che ce ne facciamo oggi di un Ideale classico? Che ce ne facciamo di un dipinto dedicato a San Gregorio Taumaturgo?

Non possiamo, poi, più permetterci di prendere cura del nostro inestimabile patrimonio che sta diventando un pesante fardello, un neonato sempre affamato a cui sacrifichiamo, in maniera scomposta, precipitosa e impulsiva, una mare di risorse che non gli bastano mai. Questo patrimonio andrebbe ceduto. Magari in prestito ad aziende o enti abili o a paesi attenti, che hanno altre situazioni culturali ed economiche, capaci di amministrarlo in maniera produttiva. Noi poi, con un volo low cost, lo andremo a vedere.

Ma non lasciamolo più nelle nostre chiese inadatte, nei nostri mille musei in perenne perdita che servono solo a salvare il Buon Gusto e a ricordarci che siamo la terra della Magna Grecia e del Rinascimento. Il quadro del Guercino è uno specchio che riflette il Paese. È un capolavoro da milioni, ma non ha prezzo, è un tesoro, ma è invendibile e inamovibile da una piccola chiesa, è un bene di inestimabile valore che produce problemi. È lo specchio del Paese, è lo specchio di Narciso.

 

 

La scultura lingua morta

Per essere entusiasti di Arturo Martini o si è storici dell’arte, studiosi di scultura e amanti dell’arte antica, oppure si è passatisti oppure ingenui. La sua scultura è antica (il Mediterraneo, la Grecia, l’Etruria) perché la scultura stessa è “schiava del passato”. La citazione è di Martini stesso, che nella raccolta di scritti La scultura lingua morta, con tragica lucidità, traccia i limiti della disciplina che: “non potrà mai essere spontanea fra gli uomini”. È diabolico quando conclude scrivendo: “Niente giustifica la sopravvivenza della scultura nel mondo moderno. Però si ricorrerà a lei ugualmente nelle circostanze solenni e per gli usi commemorativi…”. Oggi chi fa scultura o la fa per il cimitero o per i Saddam Hussein di turno.

L’artista americano Barry X Ball giorni fa ha rilevato digitalmente nei dettagli “Il Compianto” di Niccolò dell’Arca. Un artista con uno studio a New York di 2.000 metri quadrati che usa macchine enormi (oltre a lui solo il maccheronico Jeff Koons arriva a tanto) per realizzare le sue costosissime opere, viene in via Clavature e scansiona (che vuole dire copiare in modo più preciso), il gruppo scultoreo per poi presentarne le copie in marmi diversi.

Barry X Ball riproduce con altri materiali un’opera del Quattrocento e non paga il biglietto (l’ingresso al Museo è gratuito).

Come molti americani, eccetto quelli che fanno business e quelli armati, guarda all’arte Italiana del passato, forse sperando di liberarsi, una volta per tutte, dalla sindrome della prateria (Jeff Koons infatti colleziona arte antica).

Dice delle sculture di Arturo Martini che sono “straordinarie”. Forse è solo un cliché: l’arte Italiana è per statuto straordinaria, o forse vuole semplicemente dire che sono fuori dall’ordinario. Ma la scultura è ordinaria e non c’è nulla di extra nelle opere di Martini. L’extra, caso mai, sta nell’arte contemporanaea di Barry X Ball, che si ispira a quella antica e crea una nuova opera che costerà molti soldi, forse più delle stesse sculture di Martini. Nel viaggio pittoresco dell’artista di Manhattan che annota, fotografa, compila, scansiona e se ne ritorna in America dopo cinque giorni, c’è tutta la storia del Bel Paese che si mostra e si autocelebra con terracotte, bronzi e gessi.

“Il Compianto” sarà conosciuto a Dallas, le opere di Arturo Martini rimarranno “straordinarie” e forse capiterà che un’opera di Barry X Ball sarà ad una prossima Arte Fiera in vendita a un mezzo miliardo delle vecchie lire.

Arrivederci Barry X Ball.

La madonna padana

Per certi versi questo è un tempo di interregno fra due avvenimenti d’arte che riguardano due celebri dipinti di donne che coinvolgono la città. È un tempo fra la fine del restauro della Madonna di San Luca nel maggio scorso e l’arrivo de La ragazza con l’orecchino di perla a Palazzo Fava nel prossimo febbraio. Due immagini diverse e lontane che forse hanno in comune solo l’azzurro (appena riscoperto per l’icona) dei loro copricapi e il fatto di essere avvolte da misteri. Misterioso infatti è lo sguardo che filtra dalla lastra d’argento della Madonna che conferisce all’immagine un senso di occulto, quasi come una donna velata, quasi fosse un chador: c’è infatti tutto l’Oriente nella placca addobbata con corone, ori, pietre e perle. Forse è anche per questo motivo che l’icona di San Luca, l’evangelista che la Tradizione vuole come autore, è apparsa senza la custodia negli ultimi anni.

Secondo gli autori dell’operazione il restauro è “sorprendente”, il dipinto è “un vero capolavoro come se l’avesse fatta Giotto o Guido Reni”.

Per il grande mistico e filosofo Pavel Florenskij la pittura dell’icona è uno strumento di conoscenza soprannaturale, non c’è raffigurazione, non c’è rappresentazione. C’è invece testimonianza e contemplazione, conoscenza del mondo spirituale.

Per comprendere bene la differenza ed essere chiari, Florenskij giudica la pittura religiosa dell’Occidente, iniziata col Rinascimento, spingendosi a definirla una “radicale falsità artistica”. Accostare quindi l’icona ad un dipinto di Giotto sembrerebbe una forzatura; è proprio il pittore fiorentino che inizia ad innovare, a superare certi schemi: le mani delle sue Madonne iniziano a muoversi, sono i primi timidi passi verso il moderno, poco a che vedere con la mano dell’icona che appare rigida, così come il braccio e le dita del Bambino. La citazione poi di Guido Reni sembra ancora più ardita. Il fine dell’icona è altro rispetto alla visione dei due artisti e autori, i tempi e le categorie sono differenti e distanti. A meno che tale tesi sia solo un pretesto, assai rischioso, che condurrebbe ad una provenienza del dipinto come “espressione della cultura padana”. Viene in mente la questione dei Bronzi di Riace che per certi hanno origini calabresi.

* Testo originariamente scritto per il quotidiano La Repubblica (ed. Bologna), non pubblicato 

L’arte firmata

L’arte contemporanea è un mondo sospeso con le sue leggi e i suoi significati, è per sua natura elitaria e ahimé – anche se molti provano a dimostrare il contrario – per palati fini.

Bisogna leggere, studiare e soprattutto vedere, sapere vedere.

Come per il vino, se si è abituati a bere quelli artigianali, poi si può anche giudicare una bottiglia importante come mediocre.

Come nel calcio, in Italia siamo tutti intenditori d’arte e discendere da Giotto dà una certo slancio.

I disegni in città di Alice ricordano le illustrazioni e i fumetti, dimostrano certo una buona mano, ma hanno un significato che è letterale, semplice. La bella ragazza che mangia una mela è tale e non ci dice altro, se non per il fatto che sia su un muro per la strada e non su una tela (se fosse su quest’ultima sarebbe peggio).

Tutti sono capaci di fare l’opera di Bansky (o il famoso taglio di Lucio Fontana) ma il punto sta nel suo significato, che ci fa spesso sorridere, a volte in modo amaro, ma anche affannosamente percorrere con il bagaglio delle nostre immagini e pensieri, sentieri impervi. Magari a volte un po’ moralista, l’arte di Bansky ci tiene senza dubbio in scacco. Nei disegni di Alice non c’è nulla di tutto questo, non c’è nessuna tensione, nessun concetto, rimane una bellezza elementare, regolare, oramai esausta che da decenni non interessa più l’arte contemporanea. Per cui non è arte (contemporanea) ma solo un semplice disegno. Non è pericoloso criticare un’opera anche perché, altrimenti, si rischia di rimanere con un unico giudizio espresso finora, che è “l’oggettivamente bello di un Pubblico Ministero.

In più affermare che l’artista abbia esposto ai Musei Capitolini o a un Istituto Italiano di Cultura asiatico o all’Ambasciata Americana non significa nulla. Il Museo romano non è famoso per esporre opere di arte contemporanea, il Sindaco Ignazio Marino è un politico brillante ma non ha nessuna autorevolezza in campo artistico e fare mostre agli Istituti Italiani nel mondo, purtroppo, non è assolutamente sinonimo di qualità.

Anche Nancy Brilli ha esposto le sue tele al Vittoriano (l’Altare della Patria!), anche Fernando Botero ha installato le sue opere agli Champs-Elysées ed è apparso in tv con Maurizio Costanzo, ma basterebbe guardare un suo Gatto (Codone?) in bronzo per capire l’ingenuità della sua arte.

Supportare poi il valore di un’artista citando collaborazioni con marchi come Nike e Gazzetta dello Sport (sic!) è infelice.

Come lo è firmare, come fanno i writers e i taggers, le opere sull’opera stessa.

Si potrebbe forse asserire che una delle differenza fra l’arte moderna e quella contemporanea sia la firma. In quest’ultima il segno autografo dell’autore non si vede.

 

Il lampione

L’ideatore del restauro del Lampione dice in pratica che il progetto di Alberto Garutti – utilizzando un’opera d’arte storica – diventerebbe una sorta di luminaria. Oltre al giudizio sbrigativo e privo di un’argomentazione adeguata il suo commento si inserisce nell’abitudine molto bolognese (anch’essa parte del genusbononiae?) di giudicare bello tutto ciò che è del passato e brutto tutto ciò che è nuovo. Mentre a Roma la parte di progresso difendeva Richard Meier per il progetto dell’Ara Pacis dagli attacchi di Vittorio Sgarbi e di Gianni Alemanno qui Sergio Cofferati e parte della sinistra chiamavano il nuovo progetto dell’arch. Mario Cucinella per l’Urban Center, Gocce di Guazzaloca o Piazza Barattoli.

E io invece che volevo sottolineare il fatto che l’arte oggi è spesso protesa ad una semplice utilità pubblica, si deve sempre integrare e deve sempre dialogare!

Avrei voluto dire che l’opera di Garutti appartiene ad un’idea di arte, l’arte pubblica – oggi dominante – che ha come unico scopo quello di parlare dei cittadini e ai cittadini, scopo, credo, un po’ stretto all’arte.

Come dice infatti il giornalista Mario Bovina nel suo articolo di presentazione il flash luminoso sarà un segnale di uguaglianza e di vita.

Se pensiamo all’imprendibile Lampada Annuale (1966) di Alighiero Boetti che si accendeva automaticamente – e non si sapeva quando – una volta all’anno, forse possiamo dire che stiamo invecchiando insieme al nostro Paese e quando s’invecchia si vogliono i nipotini. Il comandamento che l’arte debba essere comprensibile a tutti alla fine è osservato. C’è bisogno di luce e di vita, l’opera accende la speranza! Il Comune e la Curia, i grandi e i piccini sono contenti. L’arte è così vicina ai problemi della società, ha un fine e soprattutto serve a qualcosa e riempie pure le guide turistiche.

Ma nell’aria c’è ancora il discorso di Romano Prodi e quando si parla di conservatorismo viene in mente anche la difficoltà di progettare arte e architettura in una città e in un Paese dove il passato è il solo riferimento e la sola Legge.

Nonostante tutto sento di difendere il progetto – che sarebbe nella strada, a un incrocio, nel cuore della città – dal sig. Giordano che vorrebbe collocare la nuova opera nel Palazzo Comunale. E io che ho sempre pensato che l’arte debba uscire dai musei.


* Testo originariamente scritto per il quotidiano La Repubblica (ed. Bologna), non pubblicato 

 

 

 

 

 

 

Pietro II

Nel 2001 a Bologna in una stanza di Villa delle Rose esposi una specie di baldacchino in legno che serviva da tamponatura all’affresco della stanza della mia casa. In effetti l’entrata dell’appartamento di Via Guerrazzi 21 faceva tutt’uno con una sala dove in fondo sbocciava una specie di alcova con a guardia due talamoni in gesso e al soffitto un dipinto di amorini che si rincorrevvano con ghirlande di fiori. Non me la sentivo di passare quotidianamente sotto lo sguardo giocoso dei putti e così decisi di costruire una struttura di tavole di legno poi dipinte di bianco avorio che celava l’immagine e imprigionava i talamoni.

Nella stanza di Villa delle Rose riproposi la costruzione e un collage con una polaroid dell’alcova blindata con una foto in bianco e nero di piazza San Pietro presa da un album di famiglia.

Così per presentare la mia opera iniziai dalla mia casa e da San Pietro.

Mia madre mi portò a Roma nel 1977 a vedere Paolo VI e ricordo con nitidezza lo spaesamento in quella piazza con le due enormi fontane con l’acqua a scroscio. Ho cercato sempre una via di fuga dal programma di gite culturali e d’arte. Iniziammo da Ravenna e facemmo tutta l’Italia, la vita, lei pensava, era meno triste con l’arte; captavo il vero motivo di queste visite: era legato allo stare lontano da casa. L’arte nascondeva, ma alla fine dava risalto, al dramma familiare. La mia infanzia e la mia adolescenza furono un continuo fuggire, con la scusa dei viaggi d’arte, da mio padre. L’arte così si legava a una situazione ambigua. L’educare al bello si sposava coi problemi di una famiglia borghese nell’Italia degli anni 70.

La piazza di San Pietro, eterna, mi è sembrata sempre una porzione di città tutta di un pezzo, come se fosse un Lego unico, con un suo proprio tempo. Un grande palazzo di tribunale con una cupola sopra. E per essere eterno deve essere classico, con quel timpano templare che rafforza un senso di stabilità e ordine. Classico come la musica, come il liceo, come un Chianti, come la Coca Cola. Tutto molto lontano, ho sempre pensato, dall’annuncio cristiano.

Negli anni 90 andando a tentoni fra studi orientali e letture con urgenze non pienamente comprese lessi tutti gli scritti di Sergio Quinzio. In Mysterium iniquitatis l’autore racconta di un impensabile papa, Pietro II, che sposta la sua sede in Laterano e vive in solitudine sparendo dai media. Alla fine sale alla cupola di San Pietro e “cade all’incrocio dei bracci della croce, nel luogo dei falsi trionfi, là dov’è anche sepolto il pescatore di Galilea”. (1)

La scorsa primavera ho percorso il Salento per cercare delle luminarie. Le strutture di queste architetture quasi finte, che spente sembrano cataste di ossa lise e biancastre, mi sono sembrate adatte per tentare di costruire certe immagini che conservo. Ho acquistato anche una vecchia cassa armonica, una specie di gazebo che accoglie l’orchestra nelle feste patronali.

Spesso ispirate alla cupola di San Pietro, le casse armoniche sono complicate costruzioni effimere per la festa di piazza, in stile un po’ moresco, solitamente bianche e di un celeste “mariano” tempestate di centinaia di lampadine a filamento, ora spesso sostituite dai led. Quella che ho preso, in origine, ha tenuto a precisare l’ex proprietario, era a doppia colonna, un tipo raro e ricercato, proprio come la cupola michelangiolesca. Fino alla fine degli anni 30 la basilica di San Pietro fu illuminata con lumini e luminarie che le davano un’immagine da festa paesana, un po’ circense, un po’ baraccone spettacolare. Questo ulteriore trucco fiabesco e arcaico mi sembra che oscuri definitivamente l’idea di qualcosa che ha a che fare con l’autentico, il vero.

Tutto questo sa di rito, di mito, cose da cui mi sono sempre tenuto alla larga, pretendendo di essere un cristiano secolarizzato. La prima cattedrale cristiana è, nel quarto secolo, la basilica lateranense adiacente al palazzo della famiglia imperiale. (2)

È la seduzione del tempio, del sacro, della presenza della Natura e delle sue leggi barbare che non ho mai accettato.

Da più di dieci anni abito a Savigno, frazione Samoggia, sull’Appennino Bolognese.

Abito in una ex stalla-fienile che ho ristrutturato, l’interno assomiglia a una casa di città, con oggetti di un gusto direi borghese, nulla a che fare con la campagna dove tutto tutto scorre senza sosta.

Sto tentando da anni di ricoprire l’edificio di una fodera esterna di infissi trovati di alluminio color bronzo e oro con un fondo nero al posto del vetro. Una specie di grande baracca-mausoleo, una cassa non armonica, un torrione di avvistamento, con i tartari che non arriveranno mai.

NOTE:
1) Sergio Quinzio, Mysterium iniquitatis, Adelphi, 1995
2) Sergio Quinzio, Radici ebraiche del moderno, Adelphi, 1990

L’eterno ritorno del Vecchione

Una rubrica di viaggi di un quotidiano online scrive sul Capodanno in Piazza Maggiore che il Vecchione è d’autore perché trattandosi della Dotta non si poteva mandare al rogo un fantoccio qualsiasi, ed infatti fin dal 1993 il Vecchione viene commissionato ad artisti nazionali e non…

Da quella data infatti l’artista invitato traduceva con il suo sguardo la tradizione: ogni Vecchione era interpretato con una differente e articolata lettura. Il gioco fra il significato del rito e il nuovo volto del personaggio apriva ad altre visioni e a diverse immagini.

Dal 2010 il Comune di Bologna ha preferito scegliere l’autore del Vecchione fra i giovani artisti e creativi mediante un bando. Non si sa se siano i giovani che amano i temi attuali e condivisi dalla gente o la giuria che sceglie opere che parlano un linguaggio semplice, popolare e con un lieto fine, ma il risultato è spesso didascalico, il significato letterale: c’è la crisi e due anni fa bruciò la Rana simbolo di povertà di Marco Dugo: un occhio alla popolarità dell’evento, che deve richiamare in piazza grandi e bambini, e uno all’attualità, che ci vede in un periodo di crisi duro a morire.

L’anno scorso fu ancora crisi, si raschia il fondo e allora si brucia quello che raschia il fondo: Paper Resistence dice col suo Raschiatore di barile:ho cercato un soggetto condivisibile: chi lo vede si deve riconoscere, capire cos’è rappresentato. Mi sembra che il discorso così arrivi bene, è diretto, c’è una semplicità che funziona, immediata…

La crisi non molla, forse da tempo non ci sono più riferimenti e allora si brucerà il prossimo 31 dicembre la Scimmia Meccanica di PetriPaselli: la scimmia da circo ammaestrata rappresenta l’uomo vittima delle sue convenzioni, incapace di azionarsi autonomamente. Con lei… bruciano gli automatismi, l’abitudine a dare tutto per scontato, ad essere caricati dall’esterno e manipolati.

Fini propositivi e augurali come le poesie per il Santo Natale.

Sembrerebbe che gli ultimi tre progetti – nonostante le apparenze – ritornino all’antico, a prima del 1993: il Vecchione ritorna ad assolvere il suo compito in modo liturgico, celebrato dai creativi che parlano dell’opera con le indicazioni quasi fosse un medicinale.

Rispondere a tema, di questi tempi, per l’arte è un vero peccato.